2023-10-04
I pionieri dei vaccini a mRna avevano più dubbi di chi ha imposto le punture
I vincitori del Nobel paventavano alcuni effetti avversi: Katalin Karikò ammise che potrebbero velocizzare i tumori, Drew Weissman citò le trombosi e invitò a «ragionevoli precauzioni».Come previsto: stampa, virostar, telepredicatori, tutti si sono fiondati sul Nobel ai pionieri della tecnologia a mRna, Katalin Karikó e Drew Weissman. Il sigillo sul successo storico dei vaccini anti Covid. Da ora, ogni dubbio e ogni domanda saranno banditi: chi ha la faccia tosta di contestare un Nobel?Eppure, i genitori di quei farmaci rivoluzionari sono stati meno enfatici e trionfalisti di quelli che, sulla campagna di vaccinazione di massa, hanno costruito un dogma religioso. O, peggio, un regime. La questione riguarda gli effetti collaterali dei medicinali antivirus, negletti, negati, sepolti dal binomio che l’ortodossia sanitaria ha associato ai vaccini per il Covid: «Sicuri ed efficaci». Sempre e comunque, senza riguardo per la categoria anagrafica interessata, per il rapporto tra benefici e rischi in ciascun paziente. Approccio totalizzante, totalitario, imposto nell’epoca in cui abbondano le prediche sulle terapie personalizzate. Ma guardate cosa scriveva Weissman, gratificato dall’Accademia svedese, in un articolo del gennaio 2018 su Nature, a proposito dei vaccini a mRna: «Recenti studi sull’uomo hanno dimostrato reazioni moderate e, in rari casi, gravi, al sito di iniezione, o reazioni sistemiche». Tra i possibili «problemi di sicurezza», l’immunologo americano indicava «l’infiammazione locale e sistemica, la biodistribuzione e la persistenza dell’immunogene espresso, la stimolazione degli anticorpi autoreattivi e i potenziali effetti tossici di eventuali nucleotidi non nativi e componenti del sistema di rilascio». Nella lista dei pericoli comparivano poi la «coagulazione del sangue e la formazione patologica di trombi», oltre allo sviluppo dell’«autoimmunità», la predisposizione alla quale avrebbe dovuto indurre il medico, «prima della vaccinazione», a prendere «ragionevoli precauzioni». Ricorderete, al contrario, in che modo sono state organizzate le somministrazioni durante la pandemia: breve colloquio, rapida anamnesi, «a lei diamo Pfizer», o Moderna, o la fiala disponibile in frigo, pochi minuti in sala d’attesa, dopo dritti a casa. È vero: c’era fretta, si sperava di uscire così dall’incubo. Però, di «precauzioni», manco l’ombra. Weissman sottolineava altresì che «la sicurezza» delle piattaforme a mRna avrebbe avuto «bisogno di una valutazione continua». Giudicate voi se la farmacovigilanza, almeno nel nostro Paese, sia stata così certosina e instancabile. Ecco il paradosso: chi ha contribuito allo sviluppo dei vaccini e, perciò, ha vinto un Nobel, aveva avanzato cautele scientifiche; chi ha cercato mezzucci per sgomitare in televisione, o un pretesto per scaricare sui pochi renitenti la propria inadeguatezza a fronteggiare la pandemia, specie nel periodo delle misure parossistiche e vessatorie alla super green pass, i vaccini li ha trasformati in un articolo di fede.Anche Karikó aveva parlato di controindicazioni. In un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la biochimica ungherese aveva offerto parecchi spunti di riflessione. Riferendo, ad esempio, della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino. La scienziata lo escludeva, ma forniva una spiegazione interessante: «Il cancro c’era già, la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico». In pratica, il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro». Nondimeno, Karikó aveva riconosciuto che, a causa della puntura a mRna, una «infezione dormiente» avrebbe potuto «erompere in persone con un sistema immunitario già indebolito». E aveva invitato a esaminare «più da vicino» in che misura ciò accadesse con l’herpes zoster. Inoltre, alla domanda sulle miocarditi fatali, la madrina dei vaccini aveva risposto: «Può accadere che, in un numero molto elevato di persone vaccinate, alcuni effetti collaterali diventino visibili solo dopo un certo periodo di tempo. Ciò vale in particolare per i booster». Se ne sarebbe potuto desumere un invito ad andarci con i piedi di piombo. A monitorare. A indagare. Figuriamoci: è stata scelta la strada delle dosi a raffica, della minimizzazione delle reazioni avverse e, infine, del premio politico. Non si capisce, altrimenti, perché a Stoccolma abbiano avvertito tanta urgenza di blindare i vaccini a mRna - al netto dei decenni di lavoro, talora infruttuoso, dei due luminari - considerato che altre scoperte epocali sono state celebrate anni più tardi. Almeno per consentire alla comunità scientifica di comprovarne l’impatto. Accadde con la penicillina: Alexander Fleming la scoprì nel 1928 ed ebbe il Nobel nel 1945. James Watson individuò la struttura del Dna nel 1953, ma il Nobel arrivò nel 1962. Konrad Lorenz elaborò il concetto di imprinting nel 1935 e fu premiato nel 1973. Luc Montagnier isolò l’Hiv nel 1983 e ricevette il riconoscimento nel 2008. L’italiano Renato Dulbecco descrisse il meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali nel 1968; l’Accademia si mosse solo nel 1975. Stavolta, processo lampo, sentenza fulminea: i vaccini «hanno salvato milioni di vite» e ci hanno riportati a «condizioni normali» di esistenza. Amen. Chi oserà mai fare appello?