2020-03-24
Niente coperture per il nuovo stop che costerà alle aziende 300 miliardi
La misura d'emergenza non contiene alcuna previsione di danni al Pil. Con le giuste garanzie, la liquidità nelle casse di chi produce potrebbe subito andare ai fornitori. Ed evitare così una crisi drammatica.Annunciato poi modificato almeno tre volte, il decreto blocca Italia è diventato legge solo domenica in tarda serata. Al di là dell'ennesima confusione che ingenera in chi produce e con difficoltà tiene in piedi il Pil, il testo ha una omissione. Non da poco. Non indica alcuna copertura per quelle aziende che da ieri sono tenute a chiudere i battenti entro domani sera. Il precedente decreto, quello emesso dieci giorni fa, ha una dotazione da 25 miliardi. Di questi poco più di 10 sono destinati agli ammortizzatori sociali. Una cifra importante, ma tarata solo per quelle filiere messe a riposo forzato dieci giorni fa. Chi chiude domani come dovrà comportarsi con i dipendenti: ferie, cassa integrazione? E soprattutto con quali fondi? La confusione nel metodo, nella forma e nella sostanza del blocco annunciato sabato notte via Facebook dal premier è ricaduta a valle lungo la filiera produttiva.Lo scontro tra industriali e sindacati, con il governo arbitro e che teoricamente dovrebbe trovare il giusto equilibrio, è esploso in merito alla lista di chi deve continuare a produrre. La linea di Confindustria era già stata ribadita domenica sera dal presidente, Vincenzo Boccia, in una lettera al premier; in sintesi: senso di responsabilità delle imprese ma, attenzione, se si vuole mantenere operative le attività strategiche deve lavorare l'intera filiera. E per ripartire quando l'emergenza sarà finita bisogna considerare fin da ora ogni criticità. Boccia lo ha ribadito ieri: «Dobbiamo fare tutto quello che c'è da fare per garantire le filiere essenziali e poi pensare a fare tutto quello che serve perché le altre non chiudano definitivamente. È nell'interesse del Paese». Gli industriali hanno anche redatto un conto spannometrico del danni al Pil. «Se il prodotto interno lordo è di 1.800 miliardi all'anno vuol dire che produciamo 150 miliardi al mese, se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni 30 giorni». In tre mesi il fatturato del Paese si sarà ridotto di 300 miliardi circa e il debito schizzerà ulteriormente. Ecco perché sarebbe necessario intervenire al più presto trovando un modello di riferimento come quello svizzero. Al di là delle Alpi, le aziende possono chiede fidi fino a 500.000 franchi senza alcuna procedura di garanzia. Alla fine sarà lo Stato a garantire le banche. Da noi non è possibile copiare la Confederazione. Non abbiamo una banca centrale autonoma. Ciò non significa che la strada non vada presa in considerazione. In questo momento le aziende italiane hanno sui conti correnti poco più di 300 miliardi di euro. Queste sono quelle virtuose e potrebbero pagare immediatamente tutti i fornitori e anticipare liquidità alle Pmi generando un effetto benefico immediato. Il problema è che nessuna azienda accetterebbe di ridurre il conto in banca se a sua volta non ricevesse fidi equivalenti a tassi agevolati. Quei soldi non possono che non arrivare dagli istituti di credito tramite i titoli di Stato. In sostanza il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, potrebbe ragionare su un'asta straordinaria da 300 miliardi da vendere alle banche finanziate con il Quantitative easing della Bce e poi dal futuro Pepp (Pandemic emergency purchase programme, ndr), così si chiama il bazooka da 750 miliardi della Bce. In questo modo le aziende avrebbero la liquidità necessaria per ammortizzare tre mesi di stop alla produzione e pariteticamente un crollo del Pil da 300 miliardi di euro.Ovviamente, c'è un grosso ostacolo, e si chiama Unione europea. I fondi immaginati per il Pepp sembrano tanti ma se solo il nostro Paese dovrebbe iniettare 300 miliardi nel sistema economico, i conti sono presto fatti. Oggi Gualtieri e il collega del Mise, Stefano Patuanelli incontreranno i sindacati. I segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, chiedono di rivedere l'elenco delle attività allegate al decreto di domenica, «non essendo indispensabili o essenziali».I segretari puntano l'indice sull'allegato al Dpcm, che prevede un elenco molto consistente di attività industriali e commerciali aggiuntive, per gran parte delle quali i sindacalisti «non vedono sussistere la caratteristica di indispensabilità o essenzialità». Da un lato la vita e la salute dei lavoratori, dall'altro il rischio di mettere alla fame l'intero Paese. Oggi il governo dovrebbe porre questo interrogativo alla seduta dell'Eurogruppo. E dovrebbe avere il coraggio e la lungimiranza, se vuole salvaguardare la vita e i portafogli, di dire che ci servono 300 miliardi. Il resto sono fogli scarabocchiati che valgono l'arco di una giornata.