2020-05-30
Nessuna punizione per i detenuti rivoltosi
Dei 6.000 che hanno messo a soqquadro le carceri a marzo, solo un centinaio rischia la sorveglianza speciale. I procedimenti disciplinari a carico degli agenti, invece, proseguono. E il decreto Bonafede per riportare dentro i boss finisce alla Consulta.I rapporti che contenevano le dettagliate relazioni sugli eventi violenti che a marzo hanno messo in subbuglio gli istituti di pena sono stati consegnati ai consigli di disciplina, ma sui 6.000 detenuti segnalati dalla polizia penitenziaria per le rivolte di marzo solo un centinaio è finito sotto procedimento disciplinare per l'aggravamento della misura detentiva. Anche per le azioni più gravi, quelle che portarono alle evasioni, alle aggressioni di agenti della polizia penitenziaria (ne rimasero feriti una sessantina), a sequestri di persona tra agenti e personale sanitario e a saccheggi e devastazioni, finirà tutto in cavalleria. Per quelle sommosse, che si sono verificate in contemporanea in 70 strutture detentive in tutta Italia, ci sono Procure che ipotizzano l'esistenza di una regia. Alla quale sarebbe seguita, si ipotizza da più fronti, una trattativa con il governo, che avrebbe poi portato alle scarcerazioni dei boss e alle concessioni sui colloqui con i familiari tramite telefoni cellulari e tablet. Tutte richieste che erano finite nei papelli consegnati dai detenuti alle autorità. Ma già dopo le prime rassicurazioni le rivolte, coincidenza, si placarono. E ora emerge l'ennesimo dato inquietante che dà forza alla teoria della trattativa: solo un centinaio di ribelli è finito sotto disciplinare, qualcuno è stato anche trasferito. Per gli altri, però, c'è stato un salvacondotto: senza circolari o disposizioni. Le autorità si sono fatte scadere i termini. Hanno fatto finta di dimenticarsene o di essere arrivate in ritardo. E c'è chi sospetta che anche i procedimenti penali siano finiti sotto il tappeto. Giuseppe Moretti, presidente dell'Unione sindacati di polizia penitenziaria, per esempio, sostiene: «Non abbiamo notizie dei procedimenti penali che pure devono essere contestati a chi ha messo a repentaglio non solo la sicurezza degli istituti con danneggiamenti che superano i 30 milioni di euro e oltre 60 feriti tra gli agenti (senza parlare dei 14 morti tra i detenuti), ma con sequestri di persona perseguibili ai sensi dell'articolo 605 del codice penale». Al contrario, il bastone nei confronti di chi quelle rivolte le ha sedate è sempre puntato. La direzione generale del personale del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria oggi diretto da Dino Petralia ma al tempo delle rivolte da Francesco Basentini, ha inviato una circolare ai provveditori regionali con la quale si è preoccupata di mantenere in piedi, mediante procedure telematiche, i procedimenti disciplinari a carico dei poliziotti penitenziari. Due pesi e due misure. Gli agenti, ovviamente, non l'hanno presa bene. «Ci si preoccupa di impartire disposizioni perché l'azione disciplinare in danno dei poliziotti penitenziari, mai come in questi periodi veemente e indiscriminata, prosegua imperterrita», denuncia Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, l'Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria. E alla Verità conferma: «C'è una volontà politica. Mentre si preferisce non creare tensioni con i detenuti, che se la scappottano, non viene presa in considerazione la possibilità di procedere a un generale condono delle sanzioni e dei procedimenti disciplinari a carico del personale, laddove può ritenersi almeno contraddittorio che benefici vengano concessi a chi ha distrutto almeno il 20 per cento delle carceri italiane e d'altro canto si continui a vessare chi ha agito con sacrifici e sprezzo del pericolo a tutela della collettività nazionale». Eppure, il regolamento penitenziario parla chiaro: a chi ha compromesso la sicurezza o ha turbato l'ordine in una struttura detentiva va applicato, in via cautelare, il regime di sorveglianza particolare: una forma individuale del trattamento (prevista dal comma 4 dell'articolo 14 bis dell'ordinamento penitenziario), basata sulla personalità del soggetto e sulla sua pericolosità. Insomma, è uno strumento che permette di cucire addosso al ribelle il regime detentivo più appropriato. «Il senso di impunità che circola tra i detenuti», spiega ancora Beneduci, «poi lo pagano gli agenti che tutti i giorni sono sul campo». Le organizzazioni sindacali hanno inviato decine di lamentele al capo del Dap e al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, «ma», afferma Beneduci, «sono cadute nel vuoto».E, come se non bastasse, la toppa che Bonafede ha cercato di mettere per riportare in carcere i boss scarcerati dalla circolare soprannominata svuota carceri, rischia di essere peggiore del buco: il decreto è finito davanti alla Consulta, nella parte in cui prevede che «si proceda a rivalutazione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all'emergenza sanitaria da Covid-19». È stato un giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto a sollevare la questione di legittimità costituzionale. Nelle 19 pagine dell'ordinanza il giudice di sorveglianza di Spoleto trattava il caso di un detenuto condannato a cinque anni di carcere che era finito ai domiciliari. L'uomo è stato sottoposto a un trapianto di organi «con la necessità», si legge nel provvedimento, «di continuare il trattamento con immunosoppressore e immunoglobuline anti Hbv». Il detenuto era stato ritenuto a rischio per il coronavirus e dopo la richiesta del legale scarcerato e mandato ai domiciliari. Ma dopo la norma voluta da Bonafede la sua vicenda è tornata al magistrato di sorveglianza per la revoca dei domiciliari e il ritorno in carcere. Un cortocircuito che sembra ancora difficile da isolare.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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