2022-03-17
Nella Carta ucraina la Nato è un impegno
Per provare a smentire i presunti putiniani d’Italia, Antonio Scurati sostiene che la Costituzione predichi «imparzialità». Del Patto atlantico insomma non ci sarebbero tracce. Nella riforma approvata dal Parlamento nel 2019 però c’è scritto il contrario.Passino gli opinionisti con l’elmetto, che imbracciano la penna al posto del fucile. Passino i triti parallelismi tra Vladimir Putin e Adolf Hitler, Kiev e i Sudeti, il 2022 e il 1938. Magari, Antonio Scurati ha ragione: lo zar attaccherà la Polonia. E chi «lo sta a guardare», con «la tentazione di dire che non si spingerà oltre», si sentirà come Neville Chamberlain dopo l’appeasement con i nazisti. Però su un dettaglio, affatto irrilevante, l’autore della saga di M. ha di sicuro torto: l’Ucraina non è neutrale per Costituzione. Intervistato dalla Stampa, Scurati ha provato a fare il pelo «a qualche fautore del pacifismo a ogni costo, spero in buona fede». Evidentemente, l’alternativa è essere tout court dei fiancheggiatori di Putin. Lo scrittore, quindi, ha pontificato: «L’Ucraina non aveva scelto di entrare nella Nato […]. Non c’è nessuna procedura per l’ingresso. La neutralità che si invoca è scritta nella Costituzione ucraina». Davvero? Immerso negli studi per preparare i suoi monumentali volumi sul Duce, Scurati dev’essersi perso qualche passaggio. Ricordiamo anzitutto che, nel 2008, l’Ucraina lanciò ufficialmente un Membership action plan, cioè un programma di assistenza, supporto pratico e consulenza riservato ai Paesi che vogliono aderire all’Alleanza atlantica. Era presidente il filoccidentale Viktor Jushenko, protagonista della rivoluzione arancione di quattro anni prima. Il tentativo fu abortito quando tornò al potere Viktor Yanukovych, più vicino a Mosca. È in seguito agli eventi di Euromaidan del 2014 e allo scoppio della guerra nel Donbass, che il nuovo presidente, Petro Poroshenko, rispolverò la vecchia ambizione. Accadde proprio quel che Scurati ignora: fu avviata una riforma costituzionale, per cristallizzare l’avvicinamento dell’Ucraina a Nato e Unione europea. Gli emendamenti alla Carta fondamentale vennero autorizzati dalla Corte costituzionale il 22 novembre 2018. Il 7 febbraio 2019, la Verchovna Rada, cioè il Parlamento ucraino, con 335 voti favorevoli su 450, approvò definitivamente la nuova Costituzione. A beneficio di Scurati e di quelli che - in buona fede, eh - non ne sono al corrente, illustriamo in breve il contenuto di quelle modifiche. Nel preambolo, si parla di riaffermare «l’identità europea del popolo ucraino e l’irreversibilità del percorso europeo ed euroatlantico dell’Ucraina». Ancora più esplicito il quinto paragrafo dell’articolo 85, che tra le competenze della Verchovna Rada, annovera «la determinazione dei principi di politica interna ed estera, l’attuazione del percorso strategico dello Stato verso l’acquisizione della piena adesione dell’Ucraina all’Unione europea e all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord». Appunto, la Nato (North atlantic treaty organization). All’articolo 102, si specifica inoltre che «il presidente dell’Ucraina è il garante dell’attuazione» del suddetto percorso: Volodymyr Zelensky avrebbe l’onere di assicurare l’ingresso del Paese nell’Ue e nella Nato. Infine, l’articolo 116 assegna al gabinetto dei ministri il compito di garantire, di nuovo, «l’attuazione della rotta strategica dello Stato per l’acquisizione della piena adesione dell’Ucraina» a Europa e Alleanza atlantica. Un recente articolo di Startmag segnalava che, secondo alcuni studiosi, gli emendamenti alla Costituzione sarebbero addirittura «ridondanti e privi di qualsiasi valore giuridico», perché la legislazione esistente è già orientata al perseguimento dell’integrazione euroatlantica. Con il bombardamento russo sulla base di Yavoriv, usata dagli istruttori occidentali per gli addestramenti allo sminamento, abbiamo scoperto che, in effetti, personale Nato, in qualche modo, già operava entro i confini ucraini. Tutto ciò serve a giustificare l’invasione da parte delle truppe di Mosca? A minimizzare i massacri dei civili perpetrati dalle bombe di Putin? Nemmeno per sogno. Ci limitiamo a ristabilire dei dati di fatto. E a usarli per provare a elaborare un pensiero articolato, benché, dopo anni di menate contro i populisti semplificatori, da Massimo Gramellini abbiamo appreso che chi ragiona sulla complessità è un utile idiota della «Pax putiniana». Il punto è che, oltre alle sacrosante regole del diritto internazionale, oltre al desiderio degli ucraini di «condividere i nostri valori e gli stili di vita democratici e liberali», come dice Scurati, esistono la geopolitica e la logica di potenza. Esiste una dottrina consolidata nell’élite russa, secondo cui l’avvicinamento dell’Ucraina alla Nato integra una minaccia intollerabile. Ed esistono precedenti storici, di cui al Cremlino conserveranno memoria, in cui la Nato, alla faccia dello status di alleanza difensiva, è passata all’attacco, anche senza l’ok dell’Onu (vedi operazione Allied force, in Kosovo). Ora, la Carta ucraina, formalmente, pone un ostacolo ai negoziati con la Federazione. La bozza del trattato di pace, anticipata ieri dal Financial Times, includerebbe infatti la rinuncia, da parte di Kiev, ai propositi di adesione alla Nato. Tuttavia, l’articolo 9 del Testo fondamentale stabilisce che accordi internazionali incostituzionali possono essere ratificati «solo dopo aver introdotto emendamenti pertinenti» alla Costituzione stessa. Per carità, le Costituzioni sono pezzi di carta, sempre appese a una volontà politica. Visione troppo cinica? Può darsi. Ma la realtà, con buona pace dei Gramellini, è davvero un po’ più complessa.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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