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2018-10-03
Nel Def il 2,4% di deficit non si tocca. E dall’Iva bloccata 12 miliardi in più
ANSA
Oggi la nota di aggiornamento al Def vedrà finalmente la luce, dopo il vertice di governo di ieri. Sintesi: indietro non si torna, il 2,4% di deficit non si tocca, mentre si lavora sul dosaggio di risorse e coperture.
Inequivocabili le parole di Matteo Salvini («In Italia nessuno si beve le minacce di Juncker, e io parlo con gente sobria») e quelle di Luigi Di Maio («Le minacce dell'Ue non ci fermano, noi il deficit lo restituiremo l'anno prossimo, perché con i tagli e la crescita abbasseremo il debito»). Nel caos di voci e smentite, proviamo a fissare nove punti fermi.
1 La Costituzione non impone il «pareggio di bilancio», come si legge qua e là, ma un meno rigido e ossificato «equilibrio di bilancio». Non è una distinzione di lana caprina: la seconda formula offre ai governi un margine di manovra che è stato sempre sfruttato. Non a caso, nelle ultime quattro leggi di bilancio (targate Renzi e Gentiloni), il rapporto deficit/Pil è stato del 3, del 2,6, del 2,5 e del 2,4%. Non si vede dunque perché il 2,4 di quest'anno debba creare scandalo.
2 Il Fiscal compact - di fatto - non c'è più. Duole ricordarlo agli «eurolirici», ma si tratta di un mero accordo intergovernativo che doveva essere recepito organicamente nei Trattati europei: cosa che non è avvenuta.
Perché in tutte le capitali, anche coloro che dicono di commuoversi ascoltando l'Inno alla gioia o avvolgendosi nei bandieroni europei - in realtà - non lo vogliono, e lo ritengono una camicia troppo stretta (per non dire una camicia di forza).
3 Che il capo dello Stato possa non firmare la legge di bilancio il 15 ottobre, appare surreale. Non solo perché - in quel caso - si innescherebbe un terremoto istituzionale e sui mercati, ma anche perché - tecnicamente - la manovra è un disegno di legge governativo. Ciò che occorre, dunque, è solo l'autorizzazione presidenziale a presentare il ddl alle Camere: come potrebbe il Quirinale negarla? Com'è sempre avvenuto, il Colle potrà esercitare la sua moral suasion fino all'ultimo: o perfino inviare un messaggio alle Camere. Ma la «non firma», evocata da commentatori e giornaloni, non sta né in cielo né in terra.
4 Non c'è dubbio: il governo è in ritardo, e avrebbe avuto tutto l'interesse a rendere pubblica la Nota di aggiornamento da giorni, anche per stoppare i «dichiaratori» seriali dell'Ue. Ma chi si impanca a moraleggiare fa finta di non sapere che - da decenni - la storia istituzionale italiana è piena di termini «ordinatori» (quindi non rispettati) o di atti approvati dal Cdm «salvo intese» (con successivi mercanteggiamenti di settimane sul testo, anche con gli uffici del Quirinale). La cosa non è bella ora, come non lo era in passato: ma indignarsi solo adesso è da sepolcri imbiancati.
5 Il governo Conte ha due problemi. Il più serio riguarda i mercati e gli investitori, che attendono di capire se la manovra avrà una portata «sviluppista» o se invece il peso delle misure assistenziali sarà soverchiante. Da qui alla presentazione della legge di bilancio questa è la partita: il dosaggio delle risorse tra tagli di tasse e sussidi. L'altro problema è il negoziato con la Commissione Ue, che politicamente è molto indebolita (dopo le elezioni europee del prossimo maggio, gli attuali commissari saranno solo un pallido ricordo), tecnicamente dispone solo dell'arma (diluita nel tempo) dell'apertura di una procedura d'infrazione, ma - in compenso - ha un potente strumento di ricatto: sparare dichiarazioni contro l'Italia per agitare i mercati, come accade da 36 ore. Su questo punto, però, sorprende che anche le più alte cariche istituzionali italiane non prendano posizione contro le sortite irresponsabili - sempre a Borse aperte, peraltro… - dei commissari Ue.
6 Tutte le persone avvedute sanno che vale l'opposto di ciò che ha sostenuto Juncker: non è vero che solo essendo duri con l'Italia «si salverà l'euro». Semmai, è vero il contrario: se qualcuno tentasse di affossare l'Italia, deciderebbe contestualmente la morte dell'euro.
7 La Verità è in grado di confermare che il governo sta cercando di posticipare le clausole di salvaguardia (12 miliardi) previste per il 2019, spostandole al 2021 (mantenendo però le altre clausole lasciate in eredità da Renzi-Gentiloni, quelle del 2020). Se il rinvio riuscisse, si renderebbero subito disponibili 12 miliardi.
8 Sembra invece (per fortuna) scongiurata l'idea di una «rimodulazione» dell'Iva, quindi di aumenti selettivi.
9 Può diventare decisivo, nel negoziato con l'Ue, valorizzare il tema degli investimenti. La Verità ha già scritto sulla volontà governativa di disboscare le procedure farraginose del Codice degli appalti, cosa che potrebbe sbloccare 15 miliardi di investimenti pubblici e altri 7 (già «cantierabili») da parte di giganti a partecipazione statale (a partire da Eni ed Enel).
Da segnalare infine una dichiarazione alla Reuters del sottosegretario Armando Siri, secondo cui la Lega insiste affinché i Conti individuali di risparmio (Cir), lo strumento per incentivare i contribuenti italiani ad aumentare gli investimenti in Btp, siano inseriti nel decreto legge collegato alla manovra.
Daniele Capezzone
Continua l’eurominaccia contro il governo
Quello andato in scena ieri è stato un attacco in piena regola all'Italia, come non si ricordava da tempo. E il braccio di ferro tra il governo guidato da Giuseppe Conte e i burocrati europei, considerati i toni, sembra destinato a durare ancora a lungo. Dalle parti di Bruxelles non devono proprio aver digerito la decisione dell'esecutivo di fissare al 2,4% la percentuale del rapporto deficit/Pil nella prossima manovra. Da qui la decisione di far partire un martellamento incessante, iniziato venerdì scorso con le minacce del commissario agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, sul fatto che il «conto» delle misure espansive annunciate dal governo avrebbe finito per pagarlo il popolo. Sembrava in un primo momento che quelle di Moscovici dovessero rimanere affermazioni isolate, e invece la polemica è montata con violenza.
La giornata di ieri è iniziata con i mercati che si sono trovati a dover reagire alle dichiarazioni rilasciate nella tarda serata di lunedì dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker: «Dobbiamo evitare che l'Italia reclami condizioni speciali che, se concesse a tutti, significherebbero la fine dell'euro», ha affermato l'ex primo ministro lussemburghese intervenuto durante un convegno a Friburgo, in Germania, aggiungendo che in questa situazione occorre «essere molto rigidi». Juncker ha poi spiegato che «l'Italia si allontana dagli obiettivi di bilancio che abbiamo approvato insieme a livello europeo», aggiungendo che «non vorrei che dopo aver superato la crisi greca ricadessimo nella stessa crisi con l'Italia». Dichiarazioni di fuoco sulle quali ha cercato di gettare acqua il nostro ministro dell'Economia, Giovanni Tria, il quale ha puntualizzato che «non ci sarà nessuna fine dell'euro» e che il pensiero espresso dal presidente della Commissione è semplicemente una «sua opinione». Nonostante il tentativo di Tria, i mercati hanno reagito nervosamente, con lo spread schizzato in partenza a 311 punti base (contro i 281 di lunedì sera) e Piazza Affari che in apertura ha lasciato sul terreno quasi il 2%. Ma le parole più taglienti nei confronti di Juncker sono arrivate dal vicepremier Matteo Salvini: «Parlo solo con persone sobrie, che non fanno paragoni che non stanno né in cielo né in terra», ha tagliato corto il leader della Lega, facendo evidente riferimento alla «sciatalgia» che affliggerebbe Jean-Claude Juncker.
Salvini ha poi lanciato un altro strale nei confronti del presidente della Commissione, stavolta tramite i social. «Le parole e le minacce di Juncker e di altri burocrati europei continuano a far salire lo spread», ha scritto il ministro dell'Interno su Facebook e Twitter, «con l'obiettivo di attaccare il governo e l'economia italiane? Siamo pronti a chiedere i danni a chi vuole il male dell'Italia».
A un risveglio brusco ha fatto seguito una giornata non da meno. Nella mattinata hanno sollevato un polverone le parole di Claudio Borghi, presidente della Commissione Bilancio della Camera, che nel corso di un'intervista rilasciata a Radio1 ha dichiarato di essere «straconvinto che l'Italia con una propria moneta risolverebbe gran parte dei propri problemi». «Il fatto di avere il controllo sui propri mezzi di politica monetaria», ha aggiunto il deputato leghista, «è condizione necessaria - ma non sufficiente - per realizzare l'ambizioso ed enorme programma di risanamento». Apriti cielo. Secondo i media mainstream le parole di Borghi hanno fatto, testuali parole, «colare a picco» l'euro sui mercati. La moneta unica, pur avvicinandosi alla soglia psicologica di 1,15 contro il dollaro, ieri ha chiuso la serata su valori pressoché stabili rispetto alla giornata precedente.
L'attacco all'Italia ha preso corpo con le pesantissime parole del vicepresidente della Commissione Ue, il lettone Valdis Dombrovskis. «Discutiamo con il governo italiano, ma i piani presentati non sembrano rispettare il Patto», ha spiegato Dombrovskis. «La Commissione ha introdotto una comunicazione sull'uso della flessibilità, e l'Italia è il Paese che ne ha più beneficiato, ma le discussioni sulla manovra vanno in una direzione che sostanzialmente oltrepassa questa flessibilità». Curioso, certo, che parole così dure e in grado di condizionare in maniera tanto forte i mercati arrivino in una fase nella quale si conosce solamente «quel» numero, ovvero la percentuale di debito/Pil, e senza che la Commissione abbia potuto esaminare con attenzione i contenuti della manovra, valutandone dunque anche gli impatti sulla crescita.
Ciò dimostra che il processo, più che ai contenuti, gli euroburocrati lo stiano facendo alle intenzioni, portando avanti una battaglia di natura squisitamente politica. Ecco dunque Lars Feld, economista consigliere di Angela Merkel, che sempre ieri ha retwittato un articolo pubblicato su Diepresse, nel quale si invoca la «punizione» (bestrafen) su Roma. E infine Olli Rehn, predecessore di Pierre Moscovici e da sempre avverso all'Italia, che in una dichiarazione ha giudicato la decisione del governo di strappare sul deficit foriera di «gravi preoccupazioni».
A mettere pressione ci si è messo anche il ministro delle Finanze austriaco e presidente di turno dell'Ecofin, Hartwig Löger: « Il 15 ottobre sarà il giorno giusto per stabilire in che modo reagiremo». Il politico di spicco di un govenro che sulla questione migranti ha molte affinità con i gialloblù ha proseguito sulla falsa riga delle minacce non tanto velate: «L'Eurogruppo è un Unione monetaria, siamo insieme in questa famiglia e dobbiamo risolvere insieme la situazione della stabilità». «Abbiamo reso chiaro che ci sono regole a cui tutti devono obbedire», ha detto il collega belga, Johan Van Overtveldt.
Non si può dire però che all'escalation di dichiarazioni ostili di ieri abbia fatto seguito la catastrofe sui mercati. Lo spread ha chiuso a 301, un valore comunque inferiore all'apertura, mentre l'indice Ftse-Mib ha terminato la serata sostanzialmente stabile a -0,23%. A dispetto dei tifosi del «forza spread», valori lontani anni luce dalla tempesta speculativa che colpì il nostro Paese nel 2011.
Antonio Grizzuti
Savona in missione a Strasburgo trova il muro di Tajani
«Questa manovra va cambiata». C'è qualcosa di simile a quel tal matrimonio manzoniano (che non s'avea da fare) nella frase che Antonio Tajani ha riservato a Paolo Savona nel suo ufficio di Strasburgo. Il presidente del Parlamento europeo è il primo politico d'alto rango al quale il ministro per gli Affari europei ha stretto la mano nel suo viaggio in Europa, organizzato come se fosse un road show per convincere i vertici dell'Unione che proprio «questa manovra» sta in piedi e sarà il punto di ripartenza del Paese.
Lo scetticismo di Bruxelles è lo stesso di Tajani, cortesia istituzionale a parte. E il vicepresidente di Fi non lo manda a dire con giri di parole, anzi fa sapere ciò che pensa ancor prima che l'aereo di Savona atterri. «Sono ben lieto che il ministro Savona venga al Parlamento europeo, io gli dirò quello che penso cioè che questa manovra va cambiata, che l'Italia è un Paese fondamentale per l'Europa e per il mondo e che certe scelte di politica economica danneggiano i cittadini». Sembra che gli euroburocrati si siano passati la parola, il mood è quello della paura e l'arma di distrazione di massa è ancora una volta lo spread, arrivato ieri a 302 punti prima di defluire leggermente. Ancora Tajani, ancora una stilettata a Matteo Salvini e Luigi Di Maio: «Il problema non sono i commissari europei, ma i risparmi dei cittadini italiani».
In questo clima da trincea con gli elmetti che spuntano dai sacchi di sabbia, Paolo Savona prova a convincere i parrucconi e i mercati dall'alto della sua autorevolezza internazionale. Nonostante lo scetticismo iniziale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che aveva fatto di tutto per non averlo fra i piedi, l'economista nato a Cagliari 82 anni fa (60 anni di esperienza in prima linea) è il punto di riferimento numero uno per l'Economia. Proprio per questo, in una staffetta ideale con il ministro Giovanni Tria, sarà Savona oggi a spiegare agli eurodeputati di tutti i partiti il cuore della manovra della discordia, con grafici, tabelle, numeri sulla sostenibilità del Def italiano. Entrato nella partita in quota Lega, in questi mesi è diventato un guru anche per i pentastellati, che non fanno mistero di fidarsi più di lui che del timido Tria. E vorrebbero perfino invertire i loro ruoli.
L'incontro fra Savona e Tajani ha avuto un forte peso specifico per tre buoni motivi. Il primo è la dialettica necessaria fra Paese sovrano e Parlamento europeo, rappresentato dal suo massimo esponente, con probabile richiesta incorporata da parte del rappresentante di Roma all'Europa di non continuare con la filosofia del niet preventivo, sulla linea del commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che dopo l'estate si è esibito in un crescendo rossiniano di critiche, culminate con quell'inquietante «piccoli Mussolini crescono».
Il secondo motivo d'interesse nel vedere l'anziano fuoriclasse euroscettico e il più italiano degli euroburocrati seduti allo stesso tavolo sta in ciò che rappresentano nella politica nazionale: un ministro in quota Lega (quindi maggioranza di governo) e un politico diretta emanazione di Fi, che in questa fase tumultuosa della vita parlamentare pende più verso l'opposizione che verso una «neutralità responsabile» com'era stata battezzata all'inizio della legislatura.
Il terzo motivo di questa matrioska politica dalle sfaccettature da decifrare è il dialogo tutto interno al centrodestra, poiché il ministro Savona è espressione di un movimento da oltre un ventennio alleato più o meno di ferro della coalizione inventata, consolidata, resa vincente da Silvio Berlusconi. È verosimile che alla fine un colonnello di Forza Italia faccia lo sgambetto a un ministro vicino alla Lega? E se alla fine del percorso europeo di Savona ciò dovesse accadere con conseguenze fragorose, con quale formazione e con quale uso di Bostik i due partiti si affacceranno alle prossime elezioni europee? In trincea si intuiscono gli elmetti, ma non si vede se dietro i sacchi di sabbia ci siano soldati che caricano i fucili o giocano a carte (coperte).
Giorgio Gandola
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Riduci
Dopo il summit di maggioranza, oggi la nota di aggiornamento vede la luce. Gli investimenti restano un punto fermo. L'obiettivo è spostare dal 2019 al 2021 le clausole di salvaguardia. Piano per Btp «scontati» agli italiani. Continua l'eurominaccia contro il governo. Bruxelles prosegue i suoi attacchi a manovra assente. Valdis Dombrovskis: «State superando i limiti della flessibilità». Il presidente Ecofin: «Il 15 ottobre decideremo come reagire». Un consigliere di Angela Merkel tifa per una «punizione». Nonostante ciò, la Borsa non affonda. Paolo Savona in missione a Strasburgo trova il muro di Antonio Tajani. Prima uscita europea per perorare la manovra gialloblù. L'azzurro, presidente del Parlamento, lo stoppa: «La dovete cambiare». Lo speciale contiene tre articoli. Oggi la nota di aggiornamento al Def vedrà finalmente la luce, dopo il vertice di governo di ieri. Sintesi: indietro non si torna, il 2,4% di deficit non si tocca, mentre si lavora sul dosaggio di risorse e coperture. Inequivocabili le parole di Matteo Salvini («In Italia nessuno si beve le minacce di Juncker, e io parlo con gente sobria») e quelle di Luigi Di Maio («Le minacce dell'Ue non ci fermano, noi il deficit lo restituiremo l'anno prossimo, perché con i tagli e la crescita abbasseremo il debito»). Nel caos di voci e smentite, proviamo a fissare nove punti fermi. 1 La Costituzione non impone il «pareggio di bilancio», come si legge qua e là, ma un meno rigido e ossificato «equilibrio di bilancio». Non è una distinzione di lana caprina: la seconda formula offre ai governi un margine di manovra che è stato sempre sfruttato. Non a caso, nelle ultime quattro leggi di bilancio (targate Renzi e Gentiloni), il rapporto deficit/Pil è stato del 3, del 2,6, del 2,5 e del 2,4%. Non si vede dunque perché il 2,4 di quest'anno debba creare scandalo. 2 Il Fiscal compact - di fatto - non c'è più. Duole ricordarlo agli «eurolirici», ma si tratta di un mero accordo intergovernativo che doveva essere recepito organicamente nei Trattati europei: cosa che non è avvenuta. Perché in tutte le capitali, anche coloro che dicono di commuoversi ascoltando l'Inno alla gioia o avvolgendosi nei bandieroni europei - in realtà - non lo vogliono, e lo ritengono una camicia troppo stretta (per non dire una camicia di forza). 3 Che il capo dello Stato possa non firmare la legge di bilancio il 15 ottobre, appare surreale. Non solo perché - in quel caso - si innescherebbe un terremoto istituzionale e sui mercati, ma anche perché - tecnicamente - la manovra è un disegno di legge governativo. Ciò che occorre, dunque, è solo l'autorizzazione presidenziale a presentare il ddl alle Camere: come potrebbe il Quirinale negarla? Com'è sempre avvenuto, il Colle potrà esercitare la sua moral suasion fino all'ultimo: o perfino inviare un messaggio alle Camere. Ma la «non firma», evocata da commentatori e giornaloni, non sta né in cielo né in terra. 4 Non c'è dubbio: il governo è in ritardo, e avrebbe avuto tutto l'interesse a rendere pubblica la Nota di aggiornamento da giorni, anche per stoppare i «dichiaratori» seriali dell'Ue. Ma chi si impanca a moraleggiare fa finta di non sapere che - da decenni - la storia istituzionale italiana è piena di termini «ordinatori» (quindi non rispettati) o di atti approvati dal Cdm «salvo intese» (con successivi mercanteggiamenti di settimane sul testo, anche con gli uffici del Quirinale). La cosa non è bella ora, come non lo era in passato: ma indignarsi solo adesso è da sepolcri imbiancati. 5 Il governo Conte ha due problemi. Il più serio riguarda i mercati e gli investitori, che attendono di capire se la manovra avrà una portata «sviluppista» o se invece il peso delle misure assistenziali sarà soverchiante. Da qui alla presentazione della legge di bilancio questa è la partita: il dosaggio delle risorse tra tagli di tasse e sussidi. L'altro problema è il negoziato con la Commissione Ue, che politicamente è molto indebolita (dopo le elezioni europee del prossimo maggio, gli attuali commissari saranno solo un pallido ricordo), tecnicamente dispone solo dell'arma (diluita nel tempo) dell'apertura di una procedura d'infrazione, ma - in compenso - ha un potente strumento di ricatto: sparare dichiarazioni contro l'Italia per agitare i mercati, come accade da 36 ore. Su questo punto, però, sorprende che anche le più alte cariche istituzionali italiane non prendano posizione contro le sortite irresponsabili - sempre a Borse aperte, peraltro… - dei commissari Ue. 6 Tutte le persone avvedute sanno che vale l'opposto di ciò che ha sostenuto Juncker: non è vero che solo essendo duri con l'Italia «si salverà l'euro». Semmai, è vero il contrario: se qualcuno tentasse di affossare l'Italia, deciderebbe contestualmente la morte dell'euro. 7 La Verità è in grado di confermare che il governo sta cercando di posticipare le clausole di salvaguardia (12 miliardi) previste per il 2019, spostandole al 2021 (mantenendo però le altre clausole lasciate in eredità da Renzi-Gentiloni, quelle del 2020). Se il rinvio riuscisse, si renderebbero subito disponibili 12 miliardi. 8 Sembra invece (per fortuna) scongiurata l'idea di una «rimodulazione» dell'Iva, quindi di aumenti selettivi. 9 Può diventare decisivo, nel negoziato con l'Ue, valorizzare il tema degli investimenti. La Verità ha già scritto sulla volontà governativa di disboscare le procedure farraginose del Codice degli appalti, cosa che potrebbe sbloccare 15 miliardi di investimenti pubblici e altri 7 (già «cantierabili») da parte di giganti a partecipazione statale (a partire da Eni ed Enel). Da segnalare infine una dichiarazione alla Reuters del sottosegretario Armando Siri, secondo cui la Lega insiste affinché i Conti individuali di risparmio (Cir), lo strumento per incentivare i contribuenti italiani ad aumentare gli investimenti in Btp, siano inseriti nel decreto legge collegato alla manovra. Daniele Capezzone<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nel-def-il-2-4-di-deficit-non-si-tocca-e-dalliva-bloccata-12-miliardi-in-piu-2609612874.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="continua-leurominaccia-contro-il-governo" data-post-id="2609612874" data-published-at="1765644724" data-use-pagination="False"> Continua l’eurominaccia contro il governo Quello andato in scena ieri è stato un attacco in piena regola all'Italia, come non si ricordava da tempo. E il braccio di ferro tra il governo guidato da Giuseppe Conte e i burocrati europei, considerati i toni, sembra destinato a durare ancora a lungo. Dalle parti di Bruxelles non devono proprio aver digerito la decisione dell'esecutivo di fissare al 2,4% la percentuale del rapporto deficit/Pil nella prossima manovra. Da qui la decisione di far partire un martellamento incessante, iniziato venerdì scorso con le minacce del commissario agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, sul fatto che il «conto» delle misure espansive annunciate dal governo avrebbe finito per pagarlo il popolo. Sembrava in un primo momento che quelle di Moscovici dovessero rimanere affermazioni isolate, e invece la polemica è montata con violenza. La giornata di ieri è iniziata con i mercati che si sono trovati a dover reagire alle dichiarazioni rilasciate nella tarda serata di lunedì dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker: «Dobbiamo evitare che l'Italia reclami condizioni speciali che, se concesse a tutti, significherebbero la fine dell'euro», ha affermato l'ex primo ministro lussemburghese intervenuto durante un convegno a Friburgo, in Germania, aggiungendo che in questa situazione occorre «essere molto rigidi». Juncker ha poi spiegato che «l'Italia si allontana dagli obiettivi di bilancio che abbiamo approvato insieme a livello europeo», aggiungendo che «non vorrei che dopo aver superato la crisi greca ricadessimo nella stessa crisi con l'Italia». Dichiarazioni di fuoco sulle quali ha cercato di gettare acqua il nostro ministro dell'Economia, Giovanni Tria, il quale ha puntualizzato che «non ci sarà nessuna fine dell'euro» e che il pensiero espresso dal presidente della Commissione è semplicemente una «sua opinione». Nonostante il tentativo di Tria, i mercati hanno reagito nervosamente, con lo spread schizzato in partenza a 311 punti base (contro i 281 di lunedì sera) e Piazza Affari che in apertura ha lasciato sul terreno quasi il 2%. Ma le parole più taglienti nei confronti di Juncker sono arrivate dal vicepremier Matteo Salvini: «Parlo solo con persone sobrie, che non fanno paragoni che non stanno né in cielo né in terra», ha tagliato corto il leader della Lega, facendo evidente riferimento alla «sciatalgia» che affliggerebbe Jean-Claude Juncker. Salvini ha poi lanciato un altro strale nei confronti del presidente della Commissione, stavolta tramite i social. «Le parole e le minacce di Juncker e di altri burocrati europei continuano a far salire lo spread», ha scritto il ministro dell'Interno su Facebook e Twitter, «con l'obiettivo di attaccare il governo e l'economia italiane? Siamo pronti a chiedere i danni a chi vuole il male dell'Italia». A un risveglio brusco ha fatto seguito una giornata non da meno. Nella mattinata hanno sollevato un polverone le parole di Claudio Borghi, presidente della Commissione Bilancio della Camera, che nel corso di un'intervista rilasciata a Radio1 ha dichiarato di essere «straconvinto che l'Italia con una propria moneta risolverebbe gran parte dei propri problemi». «Il fatto di avere il controllo sui propri mezzi di politica monetaria», ha aggiunto il deputato leghista, «è condizione necessaria - ma non sufficiente - per realizzare l'ambizioso ed enorme programma di risanamento». Apriti cielo. Secondo i media mainstream le parole di Borghi hanno fatto, testuali parole, «colare a picco» l'euro sui mercati. La moneta unica, pur avvicinandosi alla soglia psicologica di 1,15 contro il dollaro, ieri ha chiuso la serata su valori pressoché stabili rispetto alla giornata precedente. L'attacco all'Italia ha preso corpo con le pesantissime parole del vicepresidente della Commissione Ue, il lettone Valdis Dombrovskis. «Discutiamo con il governo italiano, ma i piani presentati non sembrano rispettare il Patto», ha spiegato Dombrovskis. «La Commissione ha introdotto una comunicazione sull'uso della flessibilità, e l'Italia è il Paese che ne ha più beneficiato, ma le discussioni sulla manovra vanno in una direzione che sostanzialmente oltrepassa questa flessibilità». Curioso, certo, che parole così dure e in grado di condizionare in maniera tanto forte i mercati arrivino in una fase nella quale si conosce solamente «quel» numero, ovvero la percentuale di debito/Pil, e senza che la Commissione abbia potuto esaminare con attenzione i contenuti della manovra, valutandone dunque anche gli impatti sulla crescita. Ciò dimostra che il processo, più che ai contenuti, gli euroburocrati lo stiano facendo alle intenzioni, portando avanti una battaglia di natura squisitamente politica. Ecco dunque Lars Feld, economista consigliere di Angela Merkel, che sempre ieri ha retwittato un articolo pubblicato su Diepresse, nel quale si invoca la «punizione» (bestrafen) su Roma. E infine Olli Rehn, predecessore di Pierre Moscovici e da sempre avverso all'Italia, che in una dichiarazione ha giudicato la decisione del governo di strappare sul deficit foriera di «gravi preoccupazioni». A mettere pressione ci si è messo anche il ministro delle Finanze austriaco e presidente di turno dell'Ecofin, Hartwig Löger: « Il 15 ottobre sarà il giorno giusto per stabilire in che modo reagiremo». Il politico di spicco di un govenro che sulla questione migranti ha molte affinità con i gialloblù ha proseguito sulla falsa riga delle minacce non tanto velate: «L'Eurogruppo è un Unione monetaria, siamo insieme in questa famiglia e dobbiamo risolvere insieme la situazione della stabilità». «Abbiamo reso chiaro che ci sono regole a cui tutti devono obbedire», ha detto il collega belga, Johan Van Overtveldt. Non si può dire però che all'escalation di dichiarazioni ostili di ieri abbia fatto seguito la catastrofe sui mercati. Lo spread ha chiuso a 301, un valore comunque inferiore all'apertura, mentre l'indice Ftse-Mib ha terminato la serata sostanzialmente stabile a -0,23%. A dispetto dei tifosi del «forza spread», valori lontani anni luce dalla tempesta speculativa che colpì il nostro Paese nel 2011. Antonio Grizzuti <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nel-def-il-2-4-di-deficit-non-si-tocca-e-dalliva-bloccata-12-miliardi-in-piu-2609612874.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="savona-in-missione-a-strasburgo-trova-il-muro-di-tajani" data-post-id="2609612874" data-published-at="1765644724" data-use-pagination="False"> Savona in missione a Strasburgo trova il muro di Tajani «Questa manovra va cambiata». C'è qualcosa di simile a quel tal matrimonio manzoniano (che non s'avea da fare) nella frase che Antonio Tajani ha riservato a Paolo Savona nel suo ufficio di Strasburgo. Il presidente del Parlamento europeo è il primo politico d'alto rango al quale il ministro per gli Affari europei ha stretto la mano nel suo viaggio in Europa, organizzato come se fosse un road show per convincere i vertici dell'Unione che proprio «questa manovra» sta in piedi e sarà il punto di ripartenza del Paese. Lo scetticismo di Bruxelles è lo stesso di Tajani, cortesia istituzionale a parte. E il vicepresidente di Fi non lo manda a dire con giri di parole, anzi fa sapere ciò che pensa ancor prima che l'aereo di Savona atterri. «Sono ben lieto che il ministro Savona venga al Parlamento europeo, io gli dirò quello che penso cioè che questa manovra va cambiata, che l'Italia è un Paese fondamentale per l'Europa e per il mondo e che certe scelte di politica economica danneggiano i cittadini». Sembra che gli euroburocrati si siano passati la parola, il mood è quello della paura e l'arma di distrazione di massa è ancora una volta lo spread, arrivato ieri a 302 punti prima di defluire leggermente. Ancora Tajani, ancora una stilettata a Matteo Salvini e Luigi Di Maio: «Il problema non sono i commissari europei, ma i risparmi dei cittadini italiani». In questo clima da trincea con gli elmetti che spuntano dai sacchi di sabbia, Paolo Savona prova a convincere i parrucconi e i mercati dall'alto della sua autorevolezza internazionale. Nonostante lo scetticismo iniziale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che aveva fatto di tutto per non averlo fra i piedi, l'economista nato a Cagliari 82 anni fa (60 anni di esperienza in prima linea) è il punto di riferimento numero uno per l'Economia. Proprio per questo, in una staffetta ideale con il ministro Giovanni Tria, sarà Savona oggi a spiegare agli eurodeputati di tutti i partiti il cuore della manovra della discordia, con grafici, tabelle, numeri sulla sostenibilità del Def italiano. Entrato nella partita in quota Lega, in questi mesi è diventato un guru anche per i pentastellati, che non fanno mistero di fidarsi più di lui che del timido Tria. E vorrebbero perfino invertire i loro ruoli. L'incontro fra Savona e Tajani ha avuto un forte peso specifico per tre buoni motivi. Il primo è la dialettica necessaria fra Paese sovrano e Parlamento europeo, rappresentato dal suo massimo esponente, con probabile richiesta incorporata da parte del rappresentante di Roma all'Europa di non continuare con la filosofia del niet preventivo, sulla linea del commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che dopo l'estate si è esibito in un crescendo rossiniano di critiche, culminate con quell'inquietante «piccoli Mussolini crescono». Il secondo motivo d'interesse nel vedere l'anziano fuoriclasse euroscettico e il più italiano degli euroburocrati seduti allo stesso tavolo sta in ciò che rappresentano nella politica nazionale: un ministro in quota Lega (quindi maggioranza di governo) e un politico diretta emanazione di Fi, che in questa fase tumultuosa della vita parlamentare pende più verso l'opposizione che verso una «neutralità responsabile» com'era stata battezzata all'inizio della legislatura. Il terzo motivo di questa matrioska politica dalle sfaccettature da decifrare è il dialogo tutto interno al centrodestra, poiché il ministro Savona è espressione di un movimento da oltre un ventennio alleato più o meno di ferro della coalizione inventata, consolidata, resa vincente da Silvio Berlusconi. È verosimile che alla fine un colonnello di Forza Italia faccia lo sgambetto a un ministro vicino alla Lega? E se alla fine del percorso europeo di Savona ciò dovesse accadere con conseguenze fragorose, con quale formazione e con quale uso di Bostik i due partiti si affacceranno alle prossime elezioni europee? In trincea si intuiscono gli elmetti, ma non si vede se dietro i sacchi di sabbia ci siano soldati che caricano i fucili o giocano a carte (coperte). Giorgio Gandola
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Riduci
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Riduci
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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