2020-04-28
Nel Def calcoli sbagliati sul deficit. Ammanettati così i prossimi governi
Roberto Gualtieri (Getty images)
L'Aula vota lo scostamento per 55 miliardi, ma il saldo da finanziare è di 155. Quelli che ballano spunteranno dal 2022 quando le virgole faranno la differenza con l'Ue. E il decreto in arrivo ingabbia ancor più le imprese. Oggi inizia l'esame del Def, documento di finanza pubblica, da parte delle commissioni. Domani arriva in Aula assieme alla richiesta di scostamento di bilancio. Il Parlamento sarà tenuto a votare un testo che però contiene due errori. Uno tecnico e uno politico che rischia nei prossimi anni di impiccare l'Italia alle virgole del deficit, proprio quando le regole europee chiederanno il conto. Il Mef e di conseguenza il governo preannunciano per il terzo decreto in arrivo (si chiama ancora dl aprile ma rischia di vedere la luce a maggio) un incremento del deficit di 55 miliardi di euro. Mentre sempre secondo i tecnici il 2020 si chiuderà con un saldo netto da finanziare di ben 155 miliardi di euro. Da che mondo è mondo i due numeri non convergono mai esattamente. Il primo, il deficit, è semplicemente il saldo del conto economico, il secondo, invece, rappresenta le poste finanziarie. E quindi una posta temporale che può tranquillamente andare oltre l'anno corrente. Non a caso quando è stato varato il decreto Cura Italia, il testo ha previsto un deficit maggiore di circa 20 miliardi, mentre un saldo netto da finanziare più ampio: quasi 25 miliardi. Ma nel caso del Def si arriva a una forchetta esagerata e unica nella storia di Via XX Settembre. Ballano ben 100 miliardi. Di questa enorme somma, circa la metà dovrebbe consister in garanzia per Cdp e Simest ai fini di interventi in aziende o acquisizioni. L'altra metà riguarda le garanzie legate al decreto imprese del 17 marzo. Se la scelta di spostare la contabilizzazione sul defict dei primi 50 miliardi è corretta, ma discutibile dal punto di vista politica, per quanto riguarda gli altri 50 miliardi, il Paese va incontro a un errore tecnico. Si tratta infatti di garanzie standardizzate e quindi imputabili tutte al deficit del 2020. Che nei fatti passerebbe dal 10,4% al 14% circa. «Il trattamento contabile delle garanzie è affrontato in modo molto chiaro dal regolamento contabile europeo Sec 2010 e da Eurostat», spiega alla Verità Enrico Zanetti, ex vice ministro all'Economia e ora responsabile di Eutekne.info, distinguendo tra garanzie standardizzate e garanzie non standardizzate. Definire dunque in toto le garanzie collegate al decreto imprese appare come un errore da matita blu», prosegue Zanetti, «che avrà ripercussioni politiche nei prossimi anni». Al di là dei tecnicismi, stare bassi con la percentuale di deficit dichiarata quest'anno non aiuta certo nessuno. In piena emergenza da coronavirus Bruxelles non si metterà mai a fare distinzione tra un 10% di deficit o un 12 oppure un 14. Mentre nel 2022 quando sarà rientrata la pandemia il prossimo governo dovrà fare i conti con le norme Ue e il fiscal compact e a quel punto anche le virgole faranno la differenze. Con questa scelta di contabilità l'attuale governo ci impicca al futuro. Quando dovremo rendere conto dell'adesione al Mes o ad altri fondi europei, avere uno 0,5% in più di deficit sarà una corda attorno al collo. E per raggiungere tale percentuale ci vorrà davvero poco. Basti pensare che una volta scaduta la moratoria sui prestiti concessi tramite il decreto imprese, saranno migliaia le aziende fallite o non in grado di ripagare le banche. A quel punto, gli istituti escuteranno le garanzie pubbliche e quelle somme da saldo netto a finanziare diventeranno automaticamente deficit. Mettere in fila mancati pagamenti per 7 o 8 miliardi è molto probabile e, a quel punto, al futuro governo toccherà alzare il rapporto tra deficit e Pil di mezzo punto. E su questo Eurostat è inflessibile. «Meglio dunque un momento di riflessione in più, piuttosto che una riedizione di quanto accaduto nell'aprile del 2018, quando il Mef dovette correggersi (e correggere il bilancio) a seguito di un intervento Ue», conclude Zanetti, «sul cosiddetto decreto Banche venete dell'anno precedente». Oltre il danno, la beffa. Il decreto di maggio dovrà essere essere il seguito logico del Cura Italia però già rischia di portare con sé tutte le storture del suo precedessero e aggiungere pure un'eredità amara fatta di deficit aggiuntivo nel momento in cui l'Italia dovrà cominciare a correre. Quando pochi decimali di punto di deficit torneranno a fare la differenza in Europa e sui mercati. Magari per ridiscutere le condizioni dei fondi portati a casa in questi giorni e il riferimento non è solo al Mes. Nel frattempo, - e questo è bene ripeterlo - in termini di debito e percentuale rispetto al Pil, nulla cambia. Resta il 155% come previsto dal Def. Ciò che si deve temere adesso è che il decreto in via di approvazione riproponga le stesse modalità per gli anticipi della cassa integrazione e per i bonus destinati agli autonomi. Annunciati: 13 miliardi per la Cig a valere sul saldo netto da finanziare, 7 miliardi per l'aumento dell'indennità a partite Iva e autonomi da 600 a 800 euro (4 miliardi per il primo mese e 3 per il secondo a fronte di una riduzione della platea), un miliardo per il reddito di emergenza (pari a 500 euro per circa un milione di persone per due mesi), 1,3 miliardi per la Naspi a colf e badanti, 500 milioni per rafforzare i congedi e altri due miliardi per altre misure.Sono però tutti numeri che rischiano di essere gabbie burocratiche per aziende. Da un lato incentivi che non servono e dall'altro l'impossibilità di licenziare. O di riorganizzarsi per stare in piedi. Allora molti imprenditori preferiranno chiudere i battenti e non saperne più di notti insonni. Tanto più se fra due anni si troveranno pure a finanziare il rientro del deficit con patrimoniali o quant'altro.
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Ll’Assemblea nazionale francese (Ansa)