2018-04-13
Nel caso Consip la Procura per fare ricorso contro Scafarto tira in ballo pure Kant
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Non hanno accettato la revisione della versione ufficiale e per riaffermare l'esistenza del complotto la Procura ha impugnato la decisione del Tribunale del Riesame che scagionava il carabiniere di Consip. L'ex capitano del Noe Gianpaolo Scafarto (ora maggiore, indagato per falso, depistaggio e rivelazione del segreto d'ufficio), secondo i magistrati della Procura di Piazzale Clodio, «voleva inchiodare Tiziano Renzi alle sue responsabilità» fino ad arrestarlo, «travisando i fatti e violando regole giuridiche».Leggi qui il ricorso del pubblico ministero.pdf Le parole dei giudici del Riesame, che nell'attività del capitano Scafarto avevano visto sì e no qualche svista involontaria, devono aver ferito profondamente la trimurti della Procura di Roma che firma il ricorso per cassazione: il procuratore Giuseppe Pignatone, l'aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi. Dalle 15 pagine di ricorso traspare una gran voglia di rivincita. A partire dalla premessa: «L'impugnata ordinanza trasforma orrori di sicuro rilievo penale in errori». Per la Procura di Roma la decisione dei colleghi del Riesame è priva di «logica e di buon senso». E per affermarlo scomodano addirittura il filosofo Immanuel Kant, sostenendo che in uno dei passaggi dell'ordinanza «l'efficienza casuale » degli elementi valutati dai giudici apparteneva «alla sfera del noumeno in senso kantiano del termine», poiché i giudici su quell'argomento avevano glissato. Nel provvedimento depositato alla Suprema corte i pm ricostruiscono la vicenda che coinvolge l'ufficiale dell'Arma a cominciare da quanto compare nell'informativa da lui redatta il 9 gennaio del 2017. Scafarto, per la Procura romana, voleva incastrare Tiziano Renzi, un obiettivo che «l'indagato si rappresentava, così come si deduce da alcuni messaggi whatsapp e dalle conclusioni a cui si giunge nelle informative del 9 gennaio e del 3 febbraio 2017». Inoltre, rilevano i magistrati, persino il reato contestato a Renzi senior era contro ogni logica del diritto e tentava di scavalcare le prerogative del pm con «una qualificazione giuridica del fatto» che, secondo la Procura, «autorizzava la custodia cautelare in carcere, contro ogni logica giuridica e probatoria al fine di espropriare l'autorità giudiziaria di qualificare il fatto stesso». E giù botte sulle brutte abitudini degli investigatori: «Sul piano logico è noto che in subculture presenti anche in organi di polizia giudiziaria il culmine dell'attività investigativa non è il processo, quanto piuttosto gli esiti cautelari immediati, con l'inevitabile eco mediatico. Peraltro nel caso in cui questi esiti cautelari siano sconfessati nelle fasi dibattimentali dal rilievo di errori involontari accertati solo successivamente essi generano ricadute sugli organi giudiziari che hanno promosso o asservato nelle diverse funzioni le iniziative cautelari medesime, dunque, se si accogliesse l'ipotesi d'accusa nessun istinto suicida del poliziotto infedele ma solo la produzione di esiti giudiziari infetti, la cui responsabilità sarebbe finita per gravare tutta sugli organi giudiziari titolari dei relativi procedimenti». Insomma gli indizi a carico di Scafarto sono costituiti dalla «enunciazione della nota del 9 gennaio dall'esistenza nella nota in questione di un'induzione che ha come premessa la presenza di uomini degli apparati e come conclusione il fatto che tale presenza, unitamente a tutte le anomalie rilevate nel capitolo relativo alla presenza dei servizi segreti, ivi compresa la comunicazione a Tiziano Renzi di essere intercettato, fosse dovuta all'intervento dell'allora presidente del Consiglio, che avrebbe messo in campo tutte le forze disponibili per proteggere il padre». Una circostanza, secondo i pm, che se fosse stata vera avrebbe introdotto un profilo cautelare significativo nella valutazione dei risultati dell'informativa. La rappresentazione dell'accertamento negativo del fatto, invece, valutano in Procura, «era assolutamente rilevante nell'economia della narrazione e la sua omissione non può che costituire il reato di falso». Niente errori, insomma, come invece ritenuto dai giudici del Riesame che avevano più volte sottolineato la presenza di fatti simili in ogni documento giudiziario e in ogni informativa di reato.La stoccata finale, quindi, è un colpo di teatro e affonda le sue radici nella cultura classica: «Un argomentare, quello dell'ordinanza del Riesame», chiosa la Procura, «che ricorda il paradosso del cretese, secondo il quale tutti i cretesi mentono». E la palla passa ai giudici della Cassazione.
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