2018-08-12
La scritta sulla parete del Colosseo per festeggiare il riconoscimento (Ansa)
- Certificato il valore culturale della tradizione gastronomica. Giorgia Meloni: sono fiera. Il riconoscimento sarà un volano economico.
- Dopo un surplus di produzione in Nuova Zelanda e Usa, al dicastero dell’Agricoltura è stata raggiunta un’intesa che fissa una nuova quotazione a 54 centesimi al litro per il prezzo del latte.
Lo speciale contiene due articoli
Aveva ragione Archibald Cronin, stavolta le stelle stanno a guardare. La cucina italiana è patrimonio mondiale immateriale dell’umanità dell’Unesco (la decisione, scontata visto che il comitato tecnico aveva detto già sì, è arrivata ieri a Nuova Dehli dove era riunito il board intergovernativo) e segna la rivincita della «pizza e mortazza» sulla spuma di mortadella. Il circo Barnum della gastronomia ricchi premi e cotillon deve fare professione di umiltà. Questo titolo - ci hanno lavorato tre ministeri: Agricoltura e Sovranità alimentare con Francesco Lollobrigida che ha fatto di tutto per sostenere il comitato promotore composto da Accademia della cucina, La cucina italiana e la fondazione Casa Artusi; Affari esteri con Antonio Tajani che, felicissimo, ha presenziato alla proclamazione e Cultura con Alessandro Giuli e il sottosegretario Gianmarco Mazzi - premia le ricette di casa, la straordinaria diversità gastronomica dei nostri territori e nulla ha a che fare con le basse temperature, le sferificazioni, gli esperimenti da piccolo chimico.
La rincorsa per arrivare a questo traguardo è stata presa cinque anni fa e il «mastino» dei dossier, il professor Pier Luigi Petrillo - è anche il presidente dell’Organo degli esperti mondiali dell’Unesco - non ha mai mollato la presa, anche perché la cucina italiana non è stata designata come pratica gastronomica, ma come valore culturale in forza della biodiversità espressa dalle tante cucine territoriali in rapporto all’ambiente agricolo. Ecco perché le stelle stanno a guardare. Ha vinto la tradizione, il braciere e non il sifone, non gli artifici che affascinano il bel mondo autoreferenziale dei presunti esperti. Hanno vinto i cuochi artusiani contro gli chef «astrusiani» o i cosiddetti cuochi d’artificio; hanno prevalso i salumifici, i caseifici, gli oleifici, i panettieri, gli allevatori e cerealicoltori, ha vinto l’Italia che suda la terra, fa la sfoglia e innova.
La motivazione parla chiaro: «La cucina italiana è patrimonio mondiale dell’umanità perché va oltre i piatti, rappresentando una forma di vita, un’identità culturale e un modello di socialità, sostenibilità e diversità. I motivi principali includono la trasmissione di saperi e affetti tra generazioni, l’equilibrio tra uomo e ambiente (biodiversità, antispreco), la convivialità che unisce comunità e famiglie, e il legame profondo con i territori e i loro prodotti».
Ma ha anche un altissimo valore culturale ed economico. Lo ha colto Giorgia Meloni che in un messaggio sottolinea: «È una notizia che mi riempie d’orgoglio», ha detto il presidente del consiglio. «Siamo i primi al mondo a ottenere questo riconoscimento che onora la nostra identità. Per noi italiani la cucina non è solo cibo, non è solo un insieme di ricette. È molto di più: è cultura, tradizione, lavoro, ricchezza. La nostra cucina nasce da filiere agricole che coniugano qualità e sostenibilità. Custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in generazione. Cresce nell’eccellenza dei nostri produttori e si trasforma in capolavoro nella maestria dei nostri cuochi. E viene presentata dai nostri ristoratori con le loro straordinarie squadre. Già oggi esportiamo 70 miliardi di euro di agroalimentare, e siamo la prima economia in Europa per valore aggiunto nell’agricoltura. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per nuovi traguardi. Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida, ringrazio prima di tutto i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier». «Ma è una partita», ha concluso Meloni, «che abbiamo vinto insieme al popolo italiano, insieme ai nostri connazionali all’estero, insieme a tutti coloro che nel mondo amano la nostra cultura, la nostra identità e il nostro stile di vita».
A fare due conti la ricaduta economica è consistente. I ristoranti italiani - sono quasi 200.000, non tutti di qualità, e il bollino Unesco ora obbliga a maggior qualità, cura e aderenza alla tradizione - fatturano 100 miliardi, quelli all’estero sono il 19% della ristorazione mondiale, il sistema agroalimentare allargato vale 700 miliardi e dà lavoro a 4,5 milioni di italiani.
Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida - in una telefonata ha registrato il compiacimento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - che è orgoglioso assai per questo traguardo sottolinea: «Questo riconoscimento produrrà una crescita dal punto di vista economico eccezionale, porterà vantaggi in termini di occupazione e lavoro, rafforza la posizione del nostro Paese anche sul fronte della situazione internazionale e dei dazi, per due ragioni: una è la promozione che permette di avere garanzia di vendere di più e meglio; l’altra è il contrasto all’Italian sounding (vale 130 miliardi, quasi il doppio del nostro export ndr), cioè alle imitazioni che ci derubano di quel sapere che ci è stato tramandato ed è stato protetto per generazioni».
Il che rende ancora più urgente in sede europea ottenere l’etichetta d’origine, l’estensione della tutela dei prodotti a marchio e la clausola di reciprocità sulle importazioni. L’Italia contava già sull’arte dei pizzaioli, sulle viti ad alberello di Pantelleria, sulla dieta mediterranea così come la Francia ha il riconoscimento per il pasto gastronomico, il Messico e la Corea per una cucina regionale, il Giappone per la cucina tradizionale, ma nessuno mai ha avuto riconosciuta la cucina come simbolo identitario. A significare che le mille e mille ricette messe insieme definiscono un valore unico: il vivere all’italiana.
Accordo ponte sul prezzo del latte
Per il latte che approda a una tregua si apre la crisi del pomodoro. È un momento di forti oscillazioni dei prezzi sui mercati agricoli dovute in gran parte a rallentamenti di domanda e d’incremento d’offerta dovuto all’import. Un surplus di produzione in Nuova Zelanda (più 3,2%) e negli Usa (più 1,8%) dove gli allevatori hanno deciso di lanciare un’offensiva sui mercati mondiali ha fatto crollare le quotazioni. Con gravi ripercussioni sulle quotazioni del Grana Padano e del burro.
Ma anche Germania, Francia e Olanda ci hanno messo del loro con forti aumenti di produzione. Tutto perché negli ultimi mesi del 2024 e nei primi di quest’anno c’era stata una forte impennata del prezzo. Si è arrivati a pagare un litro spot (in cisterna sfuso) fino a 73 centesimi e tutti si sono buttati a incrementare la produzione (nelle nostre tre Regioni di maggior peso Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto le consegne sono aumentate del 2,6% con punte anche del 4), il che ha determinato un crollo verticale del prezzo arrivato sotto i 48 centesimi al litro, una quotazione ritenuta insostenibile.
Così martedì si è aperto un paracadute sulle stalle. Al ministero dell’Agricoltura è stato raggiunto un accordo ponte che fissa un prezzo minimo del latte spot (sfuso alla stalla) a 54 euro a ettolitro per le consegne di gennaio, di 53 euro per febbraio e di 52 a marzo. L’accordo prevede anche aiuti all’internazionalizzazione e all’integrazione della filiera, acquisti di latte e di formaggi per gli indigenti, un’intesa sulle produzioni medie per evitare sforamenti.
Si è trattato di un intervento di emergenza messo in piedi dal ministro Francesco Lollobrigida perché a gennaio scade circa il 10% dei contratti di acquisto da parte dell’industria alimentare e c’era il rischio che non venissero rinnovati a causa delle massicce importazioni in dumping. Complessivamente sodisfatte le organizzazioni agricole: Coldiretti parla di pericolo scampato anche se gli allevatori restano con la guardia alzata. Una proposta innovativa viene da Giovanni Guarneri - presidente del settore lattiero-caseario di Confcooperative che mette insieme 14.000 stalle per 8 miliardi di fatturato - che chiede un’organizzazione comune di mercato a livello europeo (un po’ come col vino) perché «diversamente tra qualche mese saremo di nuovo con gli stessi problemi».
Se il latte supera la crisi si apre ora quella del pomodoro. Nonostante ci sia stato l’accordo sul prodotto da industria per il pomodoro fresco si è aperta una fase di forte flessione dei prezzi: meno 17% a ottobre e meno 20% a novembre con incremento di domanda (più 10% a ottobre e più 7% a novembre) che non riesce a compensare la perdita di valore. E anche qui, come per il latte, i problemi vengono dall’import dai Paesi del Nord Africa e dai prodotti lavorati che arrivano dalla Cina.
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Da sinistra, Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron (Ansa)
- Il «Washington Post»: nel piano di pace, l’adesione dell’Ucraina è anticipata al 2027. Telefonata tra Donald Trump, Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron. Colloquio di Volodymyr Zelensky con i delegati Usa e Larry Fink. BlackRock sulla ricostruzione. Oggi nuova riunione dei volenterosi.
- Bart De Wever: «Tensione alta». Intanto spunta pure la grana degli arbitrati per 53 miliardi.
Lo speciale contiene due articoli
Il processo diplomatico ucraino è a una svolta? Per il momento, non è facile dare una risposta. Ieri, Volodymyr Zelensky ha annunciato che Kiev era pronta a inoltrare agli Stati Uniti la propria versione della proposta di pace. «Parallelamente, stiamo ultimando i lavori su 20 punti di un documento fondamentale che può determinare i parametri per porre fine alla guerra e prevediamo di trasferire il documento agli Stati Uniti nel prossimo futuro, dopo il nostro lavoro congiunto con la squadra del presidente Trump e i partner in Europa», ha affermato. Sempre ieri, il presidente ucraino ha reso noto di aver avuto una discussione «produttiva» sulla ricostruzione dell’Ucraina con il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, con il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e con il ceo di BlackRock, Larry Fink.
Nel frattempo, il Washington Post ha riferito che gli Stati Uniti punterebbero a risolvere la crisi ucraina, ricorrendo a uno scenario di tipo coreano. In altre parole, si stabilirebbe un cessate il fuoco lungo l’attuale linea di contatto e verrebbe successivamente istituita una zona demilitarizzata. In questo quadro, l’Ucraina risulterebbe «una nazione sovrana, i cui confini sono protetti da garanzie di sicurezza internazionali, che fa parte dell’Unione europea e che ricostruirà la sua economia con grandi investimenti da parte degli Stati Uniti e dell’Europa». Secondo la testata americana, l’amministrazione Trump riterrebbe probabile un ingresso di Kiev nell’Ue nel 2027, superando il veto dell’Ungheria. Dall’altra parte, le garanzie di sicurezza fornite all’Ucraina ricalcherebbero quelle dell’articolo 5 della Nato. Inoltre, la centrale nucleare di Zaporizhia non cadrebbe in mani russe, ma potrebbe essere direttamente gestita dagli Stati Uniti. Infine, i beni russi congelati dovrebbero essere trasferiti, almeno in parte, all’Ucraina, per renderne possibile la ricostruzione e rilanciarne lo sviluppo economico. A tal proposito, BlackRock potrebbe creare un fondo di sviluppo per la ricostruzione dal valore di 400 miliardi di dollari. Non è tuttavia al momento chiaro come verrà risolta la spinosissima questione dei territori. «Stiamo pensando di rinunciare a qualche territorio? Non ne abbiamo alcun diritto legale - secondo la legge ucraina, secondo la nostra Costituzione, secondo il diritto internazionale - e onestamente, non ne abbiamo nemmeno alcun diritto morale», ha dichiarato Zelensky lunedì scorso, ribadendo una posizione in contrasto con quella della Casa Bianca. Donald Trump sta infatti cercando di convincere da tempo il presidente ucraino a cedere alcune aree, a partire dal Donbass. Nel frattempo, ieri è tornato a parlare il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «Risponderemo a qualsiasi azione ostile, incluso il dispiegamento di contingenti militari europei in Ucraina e l’espropriazione di beni russi. E siamo già preparati a questa risposta», ha dichiarato. Oltre ad accusare gli europei di «ostacolare artificialmente» i negoziati di pace, Lavrov ha anche definito Trump come «l’unico leader occidentale» che «comprende le ragioni che hanno reso inevitabile la guerra in Ucraina». Frattanto, sempre ieri, Trump ha avuto un colloquio telefonico con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron. «I leader hanno discusso le ultime novità sui colloqui di pace in corso guidati dagli Stati Uniti, accogliendo con favore i loro sforzi per raggiungere una pace giusta e duratura per l’Ucraina e per porre fine alle uccisioni», ha reso noto Downing Street, per poi aggiungere: «Hanno convenuto che questo è un momento critico per l’Ucraina, il suo popolo e per la sicurezza condivisa nella regione euro-atlantica». Il colloquio di ieri è arrivato dopo giorni di tensione tra la Casa Bianca e il Vecchio Continente. Basti pensare che, in una recentissima intervista a Politico, il presidente americano aveva bollato i leader europei come «deboli». Tutto questo, mentre, negli scorsi giorni, è tornata a crescere l’irritazione di Trump verso Zelensky, il quale ha annunciato per oggi una nuova riunione dei volenterosi.
In tutto questo, ieri il presidente ucraino ha lanciato l’allarme sui legami tra Mosca e Pechino. «La Cina sta adottando misure per intensificare la cooperazione con la Russia, in particolare nel campo dell’industria militare. I servizi di intelligence dei partner dispongono di informazioni simili», ha dichiarato. Ricordiamo che, appena pochi giorni fa, Macron si è recato nella Repubblica popolare cinese, dove, cercando di imbastire un processo diplomatico alternativo a quello della Casa Bianca, ha chiesto a Xi Jinping di fare pressioni sul Cremlino, per convincerlo ad accettare un cessate il fuoco. Del resto, è proprio l’atteggiamento dell’inquilino dell’Eliseo a costituire una delle principali cause degli attuali attriti tra Stati Uniti e Vecchio Continente. Oltre a creare fibrillazioni con tra gli europei e Washington, il presidente francese rischia adesso di scontentare anche lo stesso Zelensky, di cui, almeno a parole, si professa un alleato granitico. È infatti tutto da dimostrare che Pechino auspichi realmente una conclusione della crisi ucraina.
Ursula tira dritto sugli asset russi ma il Belgio minaccia di fare ricorso
Mentre Bruxelles, sorda agli avvertimenti di Euroclear, della Bce, e del premier belga Bart De Wever, continua la sua crociata kamikaze per utilizzare i beni russi congelati a sostegno di Kiev, emergono pure degli arbitrati che dovrebbero essere più che sufficienti per considerare una marcia indietro.
La European trade justice coalition (Etjc), ovvero la rete europea di Ong e gruppi della società civile che monitora le politiche commerciali Ue, ha messo in luce che gli oligarchi russi e le aziende colpite dalle sanzioni hanno avviato arbitrati in Europa per oltre 53 miliardi di euro. Si tratta di una cifra enorme: basti pensare che raggiunge quasi l’assistenza militare fornita dall’Ue all’Ucraina dall’inizio della guerra. Trovandosi con i propri beni congelati, gli oligarchi usano il meccanismo per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati, denominato Isds: previsto nell’ambito di Trattati bilaterali di investimento (Bit) tra due Paesi, permette agli investitori internazionali «danneggiati» da cambiamenti giuridici o politici di rivolgersi al tribunale arbitrale internazionale. Questa dinamica non dovrebbe essere presa sottogamba, visto che solamente nel 2025 è stata avviata o annunciata più della metà dei 28 ricorsi, tramite società registrate sul territorio europeo.
Uno dei casi più rilevanti riguarda la richiesta di 13,7 miliardi di euro avanzata dall’oligarca russo, Mikhail Fridman, contro il Lussemburgo. Passando al Belgio, quattro investitori russi con i fondi bloccati in Euroclear hanno notificato a settembre la volontà di avviare arbitrati. D’altronde a ottobre, lo stesso De Wever ha fatto presente ai leader europei che l’iniziativa della Commissione sugli asset congelati avrebbe potuto violare gli accordi bilaterali di investimenti con la Russia. Proseguendo con i casi citati da Etjc, la compagnia petrolifera russa Rosneft ha minacciato una causa contro la Germania per aver messo sotto tutela i suoi beni per quasi 6 miliardi di euro. E anche in Francia e nel Regno Unito sono state avviate azioni legali.
Quest’ultimo tassello pare non frenare Bruxelles. Secondo il Financial Times, l’Ue mira ad approvare già questa settimana la decisione per immobilizzare a tempo indeterminato i beni russi congelati. In questo modo, scavalcando il rinnovo delle sanzioni ogni sei mesi, non servirebbe il voto all’unanimità, aggirando quindi il veto del premier ungherese, Viktor Orbán. A promettere battaglia contro Bruxelles è De Wever. «La partita non è finita e la tensione rimarrà alta fino all’ultimo momento» ha detto alla Camera dei rappresentanti, annunciando che non esclude un’azione legale qualora l’Ue procedesse senza considerare i rischi che gravano sul Belgio. Ha anche reso noto che Euroclear sta valutando la possibilità di ricorrere alla Corte europea.
Un altro paradosso riguarda la fornitura di armi all’Ucraina. Sono in corso, infatti, le trattative tra Varsavia e Kiev: la Polonia invierebbe i jet MiG-29 all’Ucraina che, in cambio, trasferirebbe a Varsavia la tecnologia per droni. A tal proposito, su X, lo Stato Maggiore delle forze armate polacche ha dichiarato che «questa solidarietà deve essere reciproca». Ma la «solidarietà reciproca» non è tanto a vantaggio di Kiev, visto che si tratta di aerei da mandare in pensione. Il ministro della Difesa polacco, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, ha detto in radio: «Tra qualche tempo, gli aerei MiG-29 non saranno più in servizio nell’aeronautica militare polacca a causa della loro vita operativa ormai esaurita». Sulla stessa linea, lo Stato Maggiore dell’esercito della Polonia ha spiegato che l’eventuale trasferimento deriva dalla mancanza di iniziative per modernizzare i vecchi caccia di progettazione sovietica.
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2025-12-11
Le mosse di Pignatone e dei suoi «utili idioti». Così hanno affossato i dossier mafia-appalti
Giuseppe Pignatone (Imagoeconomica)
Interrogatori di non iscritti, omissis rivelati, inchieste a matrioska: il fascicolo di Caltanissetta inguaia il super pm.
Inchieste costruite come scatole cinesi, indagini che procedono a compartimenti stagni, atti mandati al macero, magistrati che mal si sopportano e carte che spuntano oggi, ma che nessuno aveva mai visto. C’è anche questo nel fascicolo della Procura di Caltanissetta che sta ricercando i moventi occulti della morte di Paolo Borsellino. E più si scava e più aumentano le ombre sulla condotta di Giuseppe Pignatone, un magistrato che ha sfiorato la beatificazione da vivo e che adesso è caduto in disgrazia. Attualmente è indagato con infamanti accuse di vicinanza alle cosche e dalle agiografie che lo aspergevano d’incenso si è passati agli atti giudiziari che, in fase preliminare, hanno sempre il sentore dello zolfo.
Ma per capire bene di cosa stiamo parlando bisogna immergersi nella Palermo dei primi anni Novanta, quando la Procura di Gian Carlo Caselli aveva iniziato una guerra di trincea contro la mafia dopo le stragi del 1992-‘93.
Un fortino che mal sopportava le interferenze dall’esterno. L’ex procuratore generale di Cagliari e Catania, Roberto Saieva, venne spedito a lavorare con Pignatone & c. dall’allora procuratore Antimafia, Bruno Siclari, per occuparsi di criminalità economica mafiosa. Ma Saieva e la collega Ilda Boccassini, spedita anche lei a Palermo come rinforzo, ricevettero un’accoglienza piuttosto fredda. «Caselli non era molto d’accordo su questa iniziativa […] non fece mistero del fatto che questa applicazione era sgradita al suo ufficio, perché tutti i magistrati della Procura di Palermo ritenevano che l’iniziativa del dottor Siclari fosse un atto di interferenza» ha dichiarato a verbale Saieva lo scorso 5 giugno. E ha aggiunto: «I rapporti con i colleghi sono stati minimi, ridotti all’essenziale. Rapporti assolutamente formali, ma sicuramente del tutto sporadici. Io non ricordo che di essermi seduto con il dottor Pignatone o con altri colleghi».
Nei pochi mesi in cui Saieva e Boccassini resistettero in città si videro affidare due procedimenti. Uno riguardava una rogatoria in Svizzera e l’altro, più importante, scandagliava gli affari di alcuni mafiosi con la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in particolare all’interno delle cave di marmo di Massa Carrara.
Un fascicolo che il procuratore nisseno Salvo De Luca ha definito a più riprese «tecnicamente morto». E il «dottor Morte» dell’inchiesta sarebbe stato Pignatone, il quale, insieme con i suoi famigliari, dai boss in affari con la Calcestruzzi, aveva comprato decine di immobili negli anni Ottanta. Ciò non gli avrebbe impedito di occuparsi dell’indagine, commettendo, a detta dei testimoni, madornali errori procedurali, che portarono l’inchiesta su un binario morto, con conseguente rapida archiviazione di tre dei quattro manager indagati del gruppo Ferruzzi.
A verbale, De Luca obietta che, però, a chiedere il proscioglimento non era stato Pignatone, che non risultava nemmeno «co-assegnatario» del procedimento, bensì lo stesso Saieva, la Boccassini e ad altri due colleghi che Caselli gli aveva affiancato. L’ex pm della Dna ribatte che «quegli atti furono compiuti dal dottor Pignatone […] che era il principale pubblico ministero che si occupava del procedimento». Ma, forse, senza comparire ufficialmente.
Quello strano fascicolo, denominato Calcestruzzi, a parere di Saieva, «aveva delle evidenti criticità». Quali? «Secondo la nostra valutazione, per la maggior parte degli indagati i termini di indagine erano scaduti ed erano scaduti da tempo prima dell’arrivo mio e della dottoressa Boccassini». Ma non ci sarebbe stato solo questo problema a rendere «inutilizzabili» gli atti. Pignatone avrebbe interrogato i manager della Ferruzzi con l’assistenza di un difensore, «anche se sarebbero stati iscritti molto tempo dopo» puntualizza Saieva. Che in un altro passaggio ribadisce: «Quegli atti di interrogatorio sono stati compiuti, che io ricordi, dal dottore Pignatone, cioè gli interrogatori di Panzavolta, Bini e… Pironi».
E questi errori da matita blu avrebbero affossato l’inchiesta.
Tali sbagli sono stati commessi per incompetenza o con dolo? Nella testa degli inquirenti la risposta pare abbastanza chiara.
Per gli inquirenti c’è da registrare un’altra anomalia: l’inchiesta era stata affidata al Servizio centrale operativo della polizia di Stato e alla Guardia di finanza, ma non ai carabinieri del Ros che, per primi, si erano occupati dei rapporti tra mafia e imprenditoria.
All’epoca Saieva aveva interloquito con il futuro capo della Polizia, Alessandro Pansa, anche «sulla possibilità di una rivitalizzazione di questo procedimento Calcestruzzi dopo l’archiviazione di tre indagati su quattro».
L’ex pm della Dna ha riferito a De Luca che il super poliziotto gli avrebbe raccontato di avere «constatato che esistevano diverse trascrizioni nei registri immobiliari dai quali risultava che dal gruppo Piazza erano stati venduti molti appartamenti alla famiglia Pignatone» e, per questo, avrebbe «ravvisato una qualche difficoltà» a procedere con le investigazioni, «riferite subito al dottor Caselli». Quest’ultimo avrebbe rassicurato il poliziotto, promettendo di occuparsi personalmente della cosa. In realtà lo Sco, a detta di Saieva, avrebbe trovato un muro: ai poliziotti sarebbero state negate intercettazioni, perquisizioni e una rogatoria internazionale per ottenere informazioni sull’attentato subito ad Atene dall’ex governatore della Banca Nazionale greca, Michalis Vranopoulos, un omicidio che gli investigatori italiani collegavano a un affare portato avanti dal gruppo Ferruzzi unitamente a Cosa nostra nella Penisola ellenica.
L’ex magistrato ha anche detto: «Quando abbiamo conferito con Pansa emerse in modo plastico ed evidente che c’era stata una difficoltà di interlocuzione tra l’ufficio di polizia procedente e l’ufficio del pubblico ministero». Saieva ha anche confermato che dagli atti risultava «che molte richieste della polizia giudiziaria erano state rigettate».
Per il testimone, Pignatone «avrebbe potuto valutare le ragioni di convenienza di una sua astensione e non l’aveva fatto, avrebbe potuto farlo il capo dell’ufficio (Caselli, ndr), ma anche lui aveva ritenuto che questa ragione di astensione non ci fosse».
Pure Pansa è stato sentito a Caltanissetta, ma il suo verbale è infarcito di non ricordo.
Durante il verbale di sommarie informazioni, De Luca ha mostrato a Saieva un documento in quattro punti, datato 20 maggio 1995, che sarebbe stato a lui inviato da Pignatone nell’ambito del procedimento Calcestruzzi e che è stato prodotto dalla difesa dell’ex procuratore di Roma. Una lettera di cui, però, gli inquirenti non hanno trovato traccia negli atti.
Il documento quasi scagiona Pignatone e il collega Gioacchino Natoli dalla primigenia accusa di favoreggiamento alla mafia, contestata per il discusso ordine di «smagnetizzazione delle bobine» e «la distruzione dei brogliacci» delle intercettazioni captate nel procedimento sugli affari del gruppo Ferruzzi con la mafia.
Una storia che per due anni ha tenuto Pignatone e Natoli sul banco degli imputati anche a livello mediatico. Ma adesso l’ex procuratore di Roma estrae dal cilindro una carta che rimette tutto in discussione. Ecco il testo che Pignatone avrebbe firmato nel 1995: «L’ufficio Intercettazioni mi ha comunicato, salvo l’esito di ulteriori verifiche, che i nastri e i brogliacci relativi alle intercettazioni telefoniche disposte nell’ambito del procedimento originariamente iscritto al numero 3589/91 non sono stati ancora distrutti». E non sarebbero stati cancellati «in ossequio a una prassi instaurata a quel tempo dalla dirigenza dell’ufficio e per la quale si ritardava l’esecuzione della distruzione di tale materiale nei procedimenti relativi alla criminalità di tipo mafioso; successivamente è stato deciso di non ordinare più la distruzione di nastri e brogliacci».
Quindi se oggi la Procura di De Luca è riuscita a trovare le bobine il merito sarebbe, in parte, dello stesso Pignatone.
Saieva è spiazzato: «Purtroppo non ricordo nulla». De Luca chiosa: «Il documento non risulta, però, pervenuto a lei». Per il procuratore di Caltanissetta «è un po’ strano» che non sia stato indirizzato, per esempio, anche alla Boccassini o agli altri titolari del fascicolo Calcestruzzi.
Saieva concorda: «Anch’io mi sorprendo perché tutti gli atti sono stati compiuti da me e dalla dottoressa Boccassini». Pure «Ilda la rossa», a verbale, ha espresso dubbi sull’arma segreta di Pignatone: «Non ricordo la nota che mi mostrate. Non so se il collega Saieva ne abbia avuto conoscenza, ma debbo dire che entrambi avevamo l’abitudine di mettere su ogni atto il “pervenuto” nelle rispettive segreterie, con data e orario».
Dunque il documento depositato dalla difesa di Pignatone è un fantasma che aleggia sull’inchiesta.
Ma sulle iniziative originali dell’ex giudice di papa Francesco nei fascicoli che riguardavano i mafiosi che gli avevano venduto casa è stato sentito anche il suo ex collega ed amico Guido Lo Forte.
Per esempio De Luca contesta che in un’istanza di arresto firmata da lui e dall’ex presidente del Tribunale vaticano «alcune parti considerevoli riguardanti indagati completamente non toccati dalla richiesta cautelare come ad esempio Antonino Buscemi non vennero omissate compresi gli intrecci societari». In pratica, uno dei due fratelli Buscemi (il capo mandamento Salvatore ha venduto casa a Pignatone) venne indirettamente informato delle indagini che lo riguardavano.
De Luca ricorda che su uno dei due Buscemi vengono iscritti due procedimenti gemelli che «viaggiano separati da una muraglia cinese», che vengono «riaperti e gestiti separatamente», ma «da qualunque ricerca di segreteria emergeva la doppia iscrizione di Buscemi». Stranezze.
Il procuratore chiede lumi a Lo Forte anche su un altro fascicolo, il 1500/93, che riguardava i soliti noti. De Luca osserva: «Avete riaperto il procedimento di Natoli. Siccome la prima volta avete mandato a Natoli, stavolta vi tenete il procedimento, fate indagini , archiviate. Come mai?». Il teste dice di non ricordare.
Il procuratore di Caltanisetta sottopone al pm una delega inviata allo Sco e Lo Forte si smarca nuovamente, quasi fosse stato un passante: «Non ho seguito personalmente, mi sono limitato a mettere una firma».
Il testimone ribadisce che del fascicolo 1550/93 non ricorda nulla. E allora De Luca gli fa notare che l’attuale pg di Cagliari, Luigi Patronaggio, cui era stato coassegnato il fascicolo, ha dichiarato: «Hanno fatto tutto Lo Forte e Pignatone. Io sono stato solo un utile idiota». Pure in questo caso il teste non sa darsi una spiegazione. Resta la sensazione che a Palermo, trent’anni fa, gli «utili idioti» a disposizione di Pignatone fossero più d’uno.
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Il rapporto di Reporter senza frontiere 2025 registra 67 giornalisti uccisi, quasi l’80% in guerre o per mano della criminalità organizzata. Gaza è il teatro più pericoloso, seguita da Messico, Ucraina e Sudan. La denuncia: impunità diffusa e assenza di protezioni efficaci.
Il nuovo rapporto di Reporters without borders (Rsf) non lascia spazio a miti consolatori: il 2025 è stato un anno tragicamente letale per chi fa informazione. Secondo l’ong, 67 professionisti dei media sono stati uccisi nell’ultimo anno, e quasi quattro su cinque (almeno 53) lo sono stati in contesti di guerra o per mano di reti criminali. È una cifra che non si limita a misurare le vittime: indica un sempre più inquietante e preciso disegno di silenziare coloro che dedicano la loro esistenza a diffondere la verità.
La statistica più agghiacciante del report è chiara e netta: quasi la metà (43%) dei giornalisti uccisi nel periodo considerato è avvenuta nella Striscia di Gaza, secondo Rsf il più pericoloso teatro operativo per i giornalisti nel 2025.
Se i bombardamenti in corso a Gaza continuano a mietere vittime di ogni sorta, in Messico il nemico è meno riconoscibile ma altrettanto letale: gruppi di criminalità organizzata e cartelli hanno fatto del giornalismo locale un target sistematico. Rsf segnala che il Messico è diventato il secondo Paese più pericoloso per i giornalisti nel 2025, con almeno nove cronisti uccisi nel corso dell’anno. Qui la strategia di dissuasione è chirurgica: omicidi mirati, sparizioni e intimidazioni, tutto il necessario per rendere il diritto di informazione il principale rischio alla vita quotidiana. Le notizie devono essere sepolte sotto un’irremovibile coltre di paura.
Non si torna indenni neppure dai teatri di guerra tradizionali. In Ucraina, gli scontri tra le forze armate di Kiev e quelle di Mosca continuano a essere intensi e senza quartiere. I giornalisti, stranieri e locali, si sono trovati troppo spesso a dovere trovare rifugio per non finire nel fuoco incrociato. In questo scenario è avvenuto, in diverse occasioni, che i reporter venissero presi di mira deliberatamente, rendendo estremamente pericoloso l’esercizio della loro professione. Allo stesso modo, il conflitto sudanese tra forze regolari e milizie paramilitari ha reso il Paese «eccezionalmente letale»: complessi scenari di guerra urbana e attacchi indiscriminati hanno causato vittime tra i cronisti e reso difficilissima la copertura indipendente.
Una tragica tendenza sottolineata da Rsf: la maggior parte delle vittime erano giornalisti che lavoravano nel proprio paese. Solo due stranieri risultano tra i morti nel periodo preso in esame. Questo ribalta la narrazione romantica del corrispondente «eroe» e mostra come la repressione, la violenza e l’imperversare del crimine colpiscano in primo luogo chi resta a raccontare vicino a casa, spesso con meno protezioni e meno visibilità internazionale.
Reporter senza frontiere punta il dito contro diverse cause oramai divenute sistemiche.
Ormai troppi eserciti e molteplici forze paramilitari non rispettano più la distinzione combattente/civile, beffandosi di qualsivoglia norma di diritto internazionale. L’impunità strutturale che sostiene queste realtà criminali con l’avvio di pochissime indagini, molte delle quali si conclude in un nulla di fatto, non fa altro che esasperare un quadro già tragico.
La costante e continua espansione dilagante dei cartelli criminali, che vanno sempre più a sostituirsi allo Stato, crea dei vuoti di giurisdizione e ordine dove la prima vittima divengono i dispensatori di verità. Da non sottovalutare nemmeno il potere delle campagne diffamatorie, di sorveglianza e l’intero apparato di attacchi digitali che oggi, ancora più di ieri, minano la sicurezza di testate e cronisti, riducendo di molto le reti di protezione professionale.
In molti casi, l’uccisione di un collega non è un singolo episodio isolato, ma la punta visibile di un’azione organizzata col chiaro obiettivo di spegnere sul nascere inchieste scomode o paralizzare il giornalismo nativo.
Questo resoconto è il mezzo con il quale Reporter senza frontiere e le realtà che si occupano della libertà di stampa ci parlano.
Il rapporto non è solo un «conta-vittime»: è un appello a istituzioni e governi. Rsf invoca indagini indipendenti, protezioni materiali e meccanismi internazionali più efficaci per chi lavora in zone a rischio; richiede specialmente che gli Stati belligeranti rispondano dei danni causati ai giornalisti e che la comunità internazionale metta pressione su governi e milizie per rispettare il diritto umanitario. Senza misure concrete (protezioni, responsabilità, e cooperazione giudiziaria globale) il bilancio dei morti potrà solo che peggiorare.
Le cifre del 2025 raccontano una verità buia e scomoda: dove la violenza cresce, muore anche la possibilità collettiva di conoscere. Uccidere un giornalista non è soltanto togliere una vita; è cancellare testimoni, bloccare inchieste, piegare la società all’opacità. Se vogliamo che la verità continui a circolare, nelle strade di Gaza come nei villaggi messicani, servono più che parole: servono protezioni, giustizia e la volontà politica di fare della sicurezza dei giornalisti una priorità. Rsf ha fatto il suo conteggio. Tocca al mondo rispondere.
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