2020-11-13
Nei ramoscelli d’ulivo del Pd all’opposizione la crisi di un governo sempre più debole
Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini (Getty images)
C'è la necessità di trovare voti, frenare l'ondata di impopolarità e disarticolare il centrodestra. Fi tentenna, fermi Matteo Salvini e Giorgia Meloni.Si dice che tre indizi facciano una prova. Il primo indizio è venuto da Nicola Zingaretti diversi giorni fa, in un intervento su Repubblica del 28 ottobre («Il governo dialoghi con l'opposizione»). Il secondo indizio è arrivato l'altro ieri sempre dal segretario del Pd, in forma ancora più esplicita: «Tutte le opposizioni devono essere coinvolte». Salvo poi individuare più specificamente un interlocutore: «Silvio Berlusconi, chiedendo di scrivere insieme la legge di bilancio, ha fatto una buona proposta che va accolta. Siamo in una fase straordinaria, maggioranza e centrodestra collaborino». E il terzo indizio è venuto ieri dal capogruppo al Senato del Pd, Andrea Marcucci: «Ci sono tutte le condizioni per avviare un dialogo permanente con le opposizioni. Aspettiamo le decisioni dei presidenti Casellati e Fico e speriamo di avere identificato un luogo parlamentare definito, prima della legge di bilancio. Il Pd considera questa opzione come prioritaria».Tra le ipotesi in campo c'è quella di una conferenza dei capigruppo congiunta Camera-Senato (già ribattezzata «supercapigruppo»), che potrebbe incontrare con una qualche regolarità i rappresentanti del governo per un maggiore coordinamento sui provvedimenti, ferma restando una chiara distinzione dei ruoli (nelle Commissioni e in Aula) tra maggioranza e opposizione. A questa ipotesi Fi ha già detto un mezzo sì con Anna Maria Bernini («Bene la conferenza unificata come sede di confronto, che non deve però essere solo formale). Un'altra ipotesi è quella di una «bicameralina», anche se poi non si comprende a cosa servirebbero a quel punto le commissioni ordinarie. Come va interpretata questa iniziativa di dialogo? Essenzialmente con quattro chiavi di lettura. La prima è meramente aritmetica: è alle viste un nuovo scostamento di bilancio e occorre la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento, dunque il governo per qualche giorno andrà in giro porgendo ramoscelli d'ulivo. La seconda ha a che fare con la consapevolezza sempre più netta, nella maggioranza, della debolezza nel Paese del governo di Giuseppe Conte. Tutti sanno che, in condizioni normali, l'esecutivo sarebbe già stato spazzato via. Se dunque è il Covid, cioè l'emergenza, a tenere vivo un esecutivo fragilissimo, c'è però una clamorosa differenza rispetto alla scorsa primavera: l'effetto «rally around the flag», cioè la naturale tendenza di un Paese sotto attacco a unirsi intorno a chi è in quel momento al governo è ormai tramontato. E semmai nel Paese la paura è stata sostituita dalla rabbia: tutti si rendono conto che il lockdown strisciante in cui ci troviamo è anche e soprattutto il frutto del cattivo operato del governo. Dunque, il Pd cerca una sponda, non foss'altro che nel tentativo di chiamare le opposizioni a condividere una prevedibile ondata di impopolarità. La terza chiave di lettura è più interna alla maggioranza, ed è legata all'insofferenza del Nazareno verso Conte in persona. Il quale a parole sembra sempre accomodante, ma nei fatti difende lo status quo, cioè l'attuale governo e l'attuale maggioranza, sapendo bene che in qualunque altro schema lui sarebbe il primo a saltare, a essere sostituito. La quarta chiave è un evidente tentativo di disarticolare il centrodestra. Per mesi, la sinistra ci ha provato usando l'argomento del Mes, che però oggi - con i rendimenti negativi dei titoli nazionali - è sempre più complicato per gli eurolirici presentare come un'opzione conveniente. Peraltro, nelle ultime settimane, una serie di riunioni del centrodestra (suggellate da una recente dichiarazione congiunta di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi) avevano dato l'immagine di un'opposizione compatta, non solo nel percorso di scelta dei candidati verso le amministrative di primavera ma pure nel lavoro parlamentare. L'altro ieri, certo, l'incidente sul voto su un emendamento rilevante per il sistema radiotelevisivo (con la Lega che si è schierata contro in Commissione, salvo poi astenersi in Aula), ha determinato per qualche ora una certa tensione con Forza Italia, che però le parti assicurano essere stata superata di slancio. Resta tuttavia la questione di fondo. Oltre a predicare unità e dialogo, il governo intende prendere in esame le richieste dell'opposizione (Lega in testa, mentre anche Giorgia Meloni ha presentato ieri quelle di Fdi) oppure no? La reiterata proposta di anno bianco fiscale è ancora lì, come anche l'idea di un taglio Iva presentata due giorni fa dalla Lega. Senza dire della scadenza fiscale del 16 prossimo, devastante per le partite Iva, su cui il governo non ha ancora fatto chiarezza, o dei ristori alle imprese che paiono drammaticamente inadeguati. Senza passi in avanti concreti su questi fronti, il resto rischia di essere solo gestualità politica fine a sé stessa. Qualcuno in Forza Italia (Antonio Tajani) ha evocato l'idea di un doppio relatore per la manovra: ma il punto è se il governo - apparenze e forme a parte - dirà sì alle proposte di merito del centrodestra, o se invece userà il solito meccanismo strozzadibattito (maxiemendamento di maggioranza più la frusta della fiducia). Scettica la Meloni: «Non indebiterò i nostri figli a scatola chiusa». E ancora: «Sfido il governo su alcune proposte, le porteremo in Parlamento, vediamo se ci rispondono visto che finora le hanno bocciate». Molto netto anche Matteo Salvini, che ai suoi ha ribadito la linea di sempre: «C'è il Parlamento, ci sono le commissioni, noi presentiamo i nostri emendamenti, il governo si esprima sulle nostre proposte».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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