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2024-02-13
Sulla Nato un coro di ipocriti contro Trump
Donald Trump (Getty Images)
Si è abbattuto un putiferio su Donald Trump per le parole da lui recentemente pronunciate sulla Nato. Parlando a un comizio in South Carolina, l’ex presidente ha raccontato di aver detto in passato al leader di un «grande Paese» dell’Alleanza atlantica che non avrebbe protetto i membri europei della Nato se questi ultimi non avessero contribuito adeguatamente all’Alleanza stessa sul piano economico. «“Non avete pagato? Siete morosi? No, non vi proteggerei”. In effetti, li incoraggerei a fare quello che diavolo vogliono. Dovete pagare i vostri conti», ha affermato. Neanche a dirlo, Trump è stato subito tacciato di incoraggiare Mosca ad aggredire i Paesi della Nato. Joe Biden ha parlato di parole «spaventose e pericolose», accusando il rivale di voler abbandonare gli alleati in caso di attacco russo. Critici di Trump si sono mostrati anche il commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, e il vicepremier polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz. A definire «sconsiderate» le affermazioni di Trump è poi stato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Sulla stessa linea, si è collocato il ministero degli Esteri tedesco, che ha twittato: «Uno per tutti e tutti per uno. Questo credo della Nato mantiene al sicuro più di 950 milioni di persone, da Anchorage a Erzurum». Strali a Trump, infine, sono arrivati anche dal senatore di Italia viva, Enrico Borghi, e dalla deputata del Pd, Lia Quartapelle.
Ora, cerchiamo di capire che cosa è realmente successo. Trump ha detto quelle parole durante un comizio rivolto agli elettori delle primarie in South Carolina. Proprio gli elettori delle primarie sono spesso isolazionisti e ben poco inclini ad accettare le spese internazionali. Tenendo conto del contesto, Trump ha quindi estremizzato comunicativamente un concetto che ripete da sempre: se gli alleati europei vogliono protezione in seno alla Nato, è necessario che contribuiscano maggiormente all’Alleanza sul piano economico. D’altronde, lo stesso senatore repubblicano Marco Rubio, che ha sponsorizzato un disegno di legge volto a impedire che un presidente possa ritirarsi unilateralmente dalla Nato, ha minimizzato le affermazioni di Trump. In secondo luogo, l’idea che gli alleati europei debbano contribuire maggiormente non è stata avanzata solo da Trump: a partire dal 2014, Barack Obama, di cui Biden era vice, ha più volte esortato gli alleati a incrementare le loro spese per l’Alleanza atlantica. A luglio 2016, Reuters riportò di tensioni tra l’allora presidente dem e alcuni Paesi della Nato a causa di questa questione.
Ma non è tutto. Eh sì, perché è impossibile non scorgere una certa ipocrisia da parte di chi ha criticato Trump per le sue parole sull’Alleanza atlantica. Breton è diventato commissario europeo su proposta di quell’Emmanuel Macron che, nel 2019, definì la Nato «cerebralmente morta». In quell’occasione, fu proprio Trump a difendere l’Alleanza, bollando le affermazioni del presidente francese come «odiose». Tra l’altro, Macron fa parte di Renew Europe: formazione europea a cui fa capo il partito di Enrico Borghi. Senza infine trascurare che, a luglio, proprio Macron si oppose all’apertura di un ufficio di collegamento della Nato in Giappone, per non irritare la Cina.
Passiamo alla Germania. Secondo lo Spiegel, Olaf Scholz, quando nel 2019 era ministro delle Finanze, si oppose alla richiesta di Trump di aumentare al 2% il contributo di Berlino alla Nato. Tra l’altro Scholz fu anche vicecancelliere di Angela Merkel e quindi corresponsabile dell’appeasement energetico tedesco verso la Russia. E che dire di Kosiniak-Kamysz? L’attuale vicepremier polacco fu ministro del Lavoro nel secondo gabinetto di Donald Tusk. Quel Tusk che, durante la sua prima esperienza da premier, contribuì di fatto a far naufragare l’Eis: uno scudo missilistico americano che, promosso da George W. Bush, era al contrario temuto da Mosca. Nel 2010, Euobserver riferì inoltre che il governo di Tusk aveva finalizzato un accordo sul gas con la Russia. Una certa incoerenza riguarda anche Michel che, nel 2018, quando era premier belga, andò in visita da Vladimir Putin e criticò Trump per essersi ritirato dall’accordo sul nucleare con l’Iran: un accordo voluto da Mosca, che, oltre a essere supportato dalla Quartapelle, Michel ha continuato a difendere anche da presidente del Consiglio europeo.
Infine attenzione a Biden. È stato infatti l’attuale presidente ad azzoppare la deterrenza statunitense nei confronti della Russia, revocando le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 a maggio 2021 e ritirando i diplomatici americani da Kiev a febbraio 2022. Dall’altra parte, anche nel 2016 si diceva che Trump avrebbe abbandonato la Nato. Eppure ciò non è accaduto. Putin, sotto di lui, non aggredì l’Ucraina, mentre, nel novembre 2019, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, definì l’Alleanza atlantica come «fondamentale». Quello stesso anno, Npr riportò che, rispetto a Obama, Trump aveva triplicato la spesa a favore della European Deterrence Initiative: il programma di rassicurazione per gli alleati della Nato volto a dissuadere Mosca da eventuali attacchi. Insomma, Trump ha avuto sicuramente delle turbolenze nei suoi rapporti con l’Alleanza atlantica. Ma almeno con lui la deterrenza occidentale verso Russia, Iran e Cina funzionava.
Biden cerca voti dai giovani su TikTok. Ma ai federali vietò il social cinese
Dopo aver vietato TikTok ai dipendenti statali, adesso Joe Biden sbarca sul social network cinese per cercare di fare breccia nel cuore dei giovani elettori. L’obiettivo è quello di ribaltare i sondaggi e vincere le elezioni del prossimo novembre, che a meno di stravolgimenti giudiziari lo vedrà contrapporsi a Donald Trump. Di fronte a tanto obiettivo, si può anche creare un profilo sulla piattaforma che, non molto più di un anno fa, era stata bandita dai telefoni dei dipendenti pubblici federali per proteggere la sicurezza nazionale da possibili fughe di dati verso il Dragone. È «lol hey guys», cioè «lol (lot of laughs, ovvero «tante risate», ndr) hey ragazzi», la scritta che accompagna il primo video del nuovo account su TikTok del presidente Biden, «bidenhq». Il profilo è curato dal suo team della comunicazione, che deve cercare di intercettare i voti delle frange più giovani dell’elettorato, offrendo contenuti per loro accattivanti. Il primo filmato, in realtà, risulta abbastanza tragicomico, e ritrae un uomo di 81 anni che risponde ad alcune domande sul Super Bowl andato in scena nella notte tra domenica e lunedì, poste da un intervistatore fuori campo. Il tentativo è quello di mostrare un presidente simpatico, alla mano, con il filmato che termina con la domanda: «Trump o Biden?». «Mi prendi in giro?», risponde sorridendo il presidente, che dopo una pausa scenica riempita con una risatina decide: «Biden». Segno che per quanto si fingano più raffinati, anche loro sanno che mostrarsi come una persona comune aiuta ad avvicinarti alla gente. Ciò che allarma i democratici, infatti, è che alcuni sondaggi danno in vantaggio Trump anche nelle fasce di popolazione più giovani, tendenzialmente più predisposte verso posizioni progressiste.Nei giorni scorsi, intanto, il presidente degli Stati Uniti si è reso protagonista di una serie di uscite che hanno destato delle preoccupazioni. Sempre più irritato verso Benyamin Netanyahu a causa delle azioni militari a Gaza, secondo Nbc News si sarebbe lasciato andare, con i suoi collaboratori, a insulti verso il primo ministro israeliano. Stando a quanto trasmesso dall’emittente americana, Biden talvolta si riferisce a Netanyahu con espressioni come «quel ragazzo» e, in almeno tre occasioni, lo avrebbe etichettato come «asshole» (traducibile come «stronzo»). Dal canto suo, il Consiglio per la sicurezza nazionale Usa ha immediatamente smentito la notizia, ma si sa che una smentita può semplicemente essere una notizia data due volte. D’altra parte non c’era nemmeno molto bisogno di smentire, dal momento che ormai le parole di Biden non possono più essere prese molto sul serio, tant’è che perfino i media progressisti stanno iniziando a scaricarlo, dubitando della sua lucidità. L’ultima di una lunga serie di gaffe è di qualche settimana fa, quando durante un comizio a Las Vegas ha raccontato di quando, al suo primo vertice del G7 dopo la sua elezione nel 2020, ha incontrato «Mitterrand della Germania». Peccato che François Mitterrand sia morto nel 1996 e fosse presidente della Francia, non il cancelliere tedesco. Il presidente si è poi corretto sulla provenienza, ma non sulla persona. Insomma, difficile cercare coerenza nelle scelte di un presidente che ci ha abituato a gaffe di questo tipo e la cui autorità a livello geopolitico vacilla, come dimostra il comportamento del primo ministro israeliano. Con una mano attacca TikTok, che essendo in mani cinesi desta comprensibili preoccupazioni nel mondo occidentale, e con l’altra si iscrive alla piattaforma social per cercare di battere Trump. Il tutto, mentre i malumori in area dem per la posizione americana sul conflitto in Palestina si fanno sempre più pressanti. Una caduta a livello simbolico, che difficilmente pagherà sul piano elettorale.
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Pioggia di critiche sul repubblicano, che ha invitato gli alleati a contribuire di più alle spese dell’Alleanza atlantica. Al netto dei toni, Obama chiese la stessa cosa. E sul possibile assist fatto alla Russia di Putin, Macron e Scholz dovrebbero prima recitare mea culpa. Intanto è gelo con Netanyahu: privatamente gli avrebbe dato tre volte dello «str...».Lo speciale contiene due articoli.Si è abbattuto un putiferio su Donald Trump per le parole da lui recentemente pronunciate sulla Nato. Parlando a un comizio in South Carolina, l’ex presidente ha raccontato di aver detto in passato al leader di un «grande Paese» dell’Alleanza atlantica che non avrebbe protetto i membri europei della Nato se questi ultimi non avessero contribuito adeguatamente all’Alleanza stessa sul piano economico. «“Non avete pagato? Siete morosi? No, non vi proteggerei”. In effetti, li incoraggerei a fare quello che diavolo vogliono. Dovete pagare i vostri conti», ha affermato. Neanche a dirlo, Trump è stato subito tacciato di incoraggiare Mosca ad aggredire i Paesi della Nato. Joe Biden ha parlato di parole «spaventose e pericolose», accusando il rivale di voler abbandonare gli alleati in caso di attacco russo. Critici di Trump si sono mostrati anche il commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, e il vicepremier polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz. A definire «sconsiderate» le affermazioni di Trump è poi stato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Sulla stessa linea, si è collocato il ministero degli Esteri tedesco, che ha twittato: «Uno per tutti e tutti per uno. Questo credo della Nato mantiene al sicuro più di 950 milioni di persone, da Anchorage a Erzurum». Strali a Trump, infine, sono arrivati anche dal senatore di Italia viva, Enrico Borghi, e dalla deputata del Pd, Lia Quartapelle.Ora, cerchiamo di capire che cosa è realmente successo. Trump ha detto quelle parole durante un comizio rivolto agli elettori delle primarie in South Carolina. Proprio gli elettori delle primarie sono spesso isolazionisti e ben poco inclini ad accettare le spese internazionali. Tenendo conto del contesto, Trump ha quindi estremizzato comunicativamente un concetto che ripete da sempre: se gli alleati europei vogliono protezione in seno alla Nato, è necessario che contribuiscano maggiormente all’Alleanza sul piano economico. D’altronde, lo stesso senatore repubblicano Marco Rubio, che ha sponsorizzato un disegno di legge volto a impedire che un presidente possa ritirarsi unilateralmente dalla Nato, ha minimizzato le affermazioni di Trump. In secondo luogo, l’idea che gli alleati europei debbano contribuire maggiormente non è stata avanzata solo da Trump: a partire dal 2014, Barack Obama, di cui Biden era vice, ha più volte esortato gli alleati a incrementare le loro spese per l’Alleanza atlantica. A luglio 2016, Reuters riportò di tensioni tra l’allora presidente dem e alcuni Paesi della Nato a causa di questa questione.Ma non è tutto. Eh sì, perché è impossibile non scorgere una certa ipocrisia da parte di chi ha criticato Trump per le sue parole sull’Alleanza atlantica. Breton è diventato commissario europeo su proposta di quell’Emmanuel Macron che, nel 2019, definì la Nato «cerebralmente morta». In quell’occasione, fu proprio Trump a difendere l’Alleanza, bollando le affermazioni del presidente francese come «odiose». Tra l’altro, Macron fa parte di Renew Europe: formazione europea a cui fa capo il partito di Enrico Borghi. Senza infine trascurare che, a luglio, proprio Macron si oppose all’apertura di un ufficio di collegamento della Nato in Giappone, per non irritare la Cina. Passiamo alla Germania. Secondo lo Spiegel, Olaf Scholz, quando nel 2019 era ministro delle Finanze, si oppose alla richiesta di Trump di aumentare al 2% il contributo di Berlino alla Nato. Tra l’altro Scholz fu anche vicecancelliere di Angela Merkel e quindi corresponsabile dell’appeasement energetico tedesco verso la Russia. E che dire di Kosiniak-Kamysz? L’attuale vicepremier polacco fu ministro del Lavoro nel secondo gabinetto di Donald Tusk. Quel Tusk che, durante la sua prima esperienza da premier, contribuì di fatto a far naufragare l’Eis: uno scudo missilistico americano che, promosso da George W. Bush, era al contrario temuto da Mosca. Nel 2010, Euobserver riferì inoltre che il governo di Tusk aveva finalizzato un accordo sul gas con la Russia. Una certa incoerenza riguarda anche Michel che, nel 2018, quando era premier belga, andò in visita da Vladimir Putin e criticò Trump per essersi ritirato dall’accordo sul nucleare con l’Iran: un accordo voluto da Mosca, che, oltre a essere supportato dalla Quartapelle, Michel ha continuato a difendere anche da presidente del Consiglio europeo.Infine attenzione a Biden. È stato infatti l’attuale presidente ad azzoppare la deterrenza statunitense nei confronti della Russia, revocando le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 a maggio 2021 e ritirando i diplomatici americani da Kiev a febbraio 2022. Dall’altra parte, anche nel 2016 si diceva che Trump avrebbe abbandonato la Nato. Eppure ciò non è accaduto. Putin, sotto di lui, non aggredì l’Ucraina, mentre, nel novembre 2019, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, definì l’Alleanza atlantica come «fondamentale». Quello stesso anno, Npr riportò che, rispetto a Obama, Trump aveva triplicato la spesa a favore della European Deterrence Initiative: il programma di rassicurazione per gli alleati della Nato volto a dissuadere Mosca da eventuali attacchi. Insomma, Trump ha avuto sicuramente delle turbolenze nei suoi rapporti con l’Alleanza atlantica. 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Di fronte a tanto obiettivo, si può anche creare un profilo sulla piattaforma che, non molto più di un anno fa, era stata bandita dai telefoni dei dipendenti pubblici federali per proteggere la sicurezza nazionale da possibili fughe di dati verso il Dragone. È «lol hey guys», cioè «lol (lot of laughs, ovvero «tante risate», ndr) hey ragazzi», la scritta che accompagna il primo video del nuovo account su TikTok del presidente Biden, «bidenhq». Il profilo è curato dal suo team della comunicazione, che deve cercare di intercettare i voti delle frange più giovani dell’elettorato, offrendo contenuti per loro accattivanti. Il primo filmato, in realtà, risulta abbastanza tragicomico, e ritrae un uomo di 81 anni che risponde ad alcune domande sul Super Bowl andato in scena nella notte tra domenica e lunedì, poste da un intervistatore fuori campo. Il tentativo è quello di mostrare un presidente simpatico, alla mano, con il filmato che termina con la domanda: «Trump o Biden?». «Mi prendi in giro?», risponde sorridendo il presidente, che dopo una pausa scenica riempita con una risatina decide: «Biden». Segno che per quanto si fingano più raffinati, anche loro sanno che mostrarsi come una persona comune aiuta ad avvicinarti alla gente. Ciò che allarma i democratici, infatti, è che alcuni sondaggi danno in vantaggio Trump anche nelle fasce di popolazione più giovani, tendenzialmente più predisposte verso posizioni progressiste.Nei giorni scorsi, intanto, il presidente degli Stati Uniti si è reso protagonista di una serie di uscite che hanno destato delle preoccupazioni. Sempre più irritato verso Benyamin Netanyahu a causa delle azioni militari a Gaza, secondo Nbc News si sarebbe lasciato andare, con i suoi collaboratori, a insulti verso il primo ministro israeliano. Stando a quanto trasmesso dall’emittente americana, Biden talvolta si riferisce a Netanyahu con espressioni come «quel ragazzo» e, in almeno tre occasioni, lo avrebbe etichettato come «asshole» (traducibile come «stronzo»). Dal canto suo, il Consiglio per la sicurezza nazionale Usa ha immediatamente smentito la notizia, ma si sa che una smentita può semplicemente essere una notizia data due volte. D’altra parte non c’era nemmeno molto bisogno di smentire, dal momento che ormai le parole di Biden non possono più essere prese molto sul serio, tant’è che perfino i media progressisti stanno iniziando a scaricarlo, dubitando della sua lucidità. L’ultima di una lunga serie di gaffe è di qualche settimana fa, quando durante un comizio a Las Vegas ha raccontato di quando, al suo primo vertice del G7 dopo la sua elezione nel 2020, ha incontrato «Mitterrand della Germania». Peccato che François Mitterrand sia morto nel 1996 e fosse presidente della Francia, non il cancelliere tedesco. Il presidente si è poi corretto sulla provenienza, ma non sulla persona. Insomma, difficile cercare coerenza nelle scelte di un presidente che ci ha abituato a gaffe di questo tipo e la cui autorità a livello geopolitico vacilla, come dimostra il comportamento del primo ministro israeliano. Con una mano attacca TikTok, che essendo in mani cinesi desta comprensibili preoccupazioni nel mondo occidentale, e con l’altra si iscrive alla piattaforma social per cercare di battere Trump. Il tutto, mentre i malumori in area dem per la posizione americana sul conflitto in Palestina si fanno sempre più pressanti. Una caduta a livello simbolico, che difficilmente pagherà sul piano elettorale.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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