2023-01-11
Stoltenberg: armi finite, diamone altre a Kiev
Jens Stoltenberg (Getty Images)
Il segretario Nato rivela che gli arsenali dell’Alleanza e dell’Ue son vuoti. Ma rivendica di aver consegnato tutte le scorte all’Ucraina e chiede agli Stati di produrne di più, col plauso di Ursula Von Der Leyen. Un flop clamoroso da chi dava per certa la sconfitta russa in poco tempo.«Mannaggia, sono finite le bombe». E questo è un guaio perché anche se quelle Nato sono difensive, profumano d’incenso e servono per una causa giusta, l’improvvisa assenza crea smarrimento. Come quando la massaia apre il frigorifero e scopre che mancano le uova. L’ammissione di Jens Stoltenberg, la casalinga con l’elmetto e le stellette, deprime il campo amico per due motivi. Annacqua la certezza delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Occidente in guerra contro l’orso russo e anticipa qualcosa di prevedibile, anzi di scontato: la richiesta di soldi ai contribuenti. Perché per continuare a fare frittate ucraine qualcuno, le uova, dovrà pure comprarle. C’è qualcosa di surreale nell’ultima conferenza ufficiale del segretario generale e comandante in capo dell’Alleanza, avvenuta ieri a Bruxelles alla presenza dell’azionista di minoranza dell’armata Ursula Von der Leyen (quello di maggioranza sta a Washington). «È vero, i Paesi della Nato e dell’Unione europea hanno esaurito le loro scorte per fornire aiuti all’Ucraina», ha ammesso Stoltenberg. «Ed è stata la cosa giusta da fare perché si tratta della nostra sicurezza. Ho sempre detto che tra rispettare le linee guida della Nato sulle scorte di armi o sostenere l’Ucraina è più importante scegliere l’Ucraina». Al di là della singolare informazione regalata ai generali di Vladimir Putin e del generoso slancio umanitario, spicca la dura realtà: gli arsenali sono vuoti e sarà difficile convincere gli americani a riempirli gratis. In più l’affermazione non dimostra propriamente una lungimiranza strategica della Nato nel condurre gli approvvigionamenti in caso di conflitto a lungo termine. Chi si aspettava la seconda frase «quindi mi dimetto all’istante» è destinato a rimanere deluso. Nessuno gli chiede di chiudersi in bagno e tirarsi un eroico colpo davanti allo specchio come farebbe un generale prussiano, ma Stoltenberg non ha neppure intenzione di dirigersi alla porta d’uscita. Anzi, visto che non ha saputo fare i conti chiede altro denaro a tutti, italiani compresi. «Nel lungo periodo la soluzione ora è aumentare la produzione di armamenti e i ministri della Difesa e della Nato hanno preso la decisione di incrementare lo stock». Il che significa altri stanziamenti milionari, altri impegni parlamentari, altri cespiti di spesa, altri sacrifici per chi sta già pagando gli onori della guerra con gli oneri delle bollette triplicate e del pieno della Punto diesel parificato a quello di un Riva Aquarama. Sono finite le armi e servono fondi per produrne di nuove. Anche questo, si chiederebbe la Cei, «è bene comune»? Di sicuro lo conferma la baronessa Von der Leyen che ascolta l’intervento dello stolto Stoltenberg e interviene a completarlo dal punto di vista politico. «Al momento stiamo lavorando con gli Stati membri a una task force congiunta con il Servizio europeo per l’azione esterna e l’Agenzia europea per la difesa per comprendere quali siano le necessità per il riempimento delle scorte di armi». Poi la presidente Ue aggiunge, con uno sfoggio keynesiano da terza media: «Dobbiamo anche capire di cosa ha bisogno l’industria per produrle perché non basta la domanda, ci vuole anche l’offerta. Questo sarà un altro passo avanti per organizzare e armonizzare la risposta comune europea di difesa». È tutto chiaro, se va bene siamo rovinati. Abbiamo capito che alla Nato urgono lanciarazzi e bravi magazzinieri, che dobbiamo pagarli noi e che i vertici politico-militari stanno giocando a Risiko al buio. Chiamati in causa come persone già da tempo informate dei fatti, sarebbe interessante sapere cosa pensano dell’emergenza scorte e dell’ennesima questua il ministro degli Esteri Antonio Tajani e quello della Difesa Guido Crosetto. La faccenda somiglia sinistramente a quella dei satelliti Starlink che in autunno Elon Musk non voleva più pagare come favore al Pentagono per mantenere le comunicazioni strategiche ucraine. L’amministrazione americana chiese a Bruxelles di sostituirlo nel coprire i 120 milioni di dollari con i fondi comunitari ricevendo l’adesione entusiasta di Von der Leyen. Per fortuna, incalzato dalla Casa Bianca alla quale non poteva dire di no, l’eccentrico magnate alla fine si è arreso: «Continueremo a sostenere gratis il governo dell’Ucraina».L’immagine degli arsenali Nato desolatamente vuoti suscita un paio di riflessioni. La prima riguarda la credibilità della propaganda mediatica che da mesi dipinge l’armata russa in rotta, Putin in perenne crisi interna, i generali russi incapaci continuamente sostituiti, l’organizzazione militare vetusta e farraginosa. Con il risultato che i primi a finire le munizioni siamo noi. La seconda riguarda la portata dell’imbarazzante ammissione in termini geopolitici e anche un po’ fantascientifici (del resto la geopolitica confina con la fantascienza). Se domani mattina uno Stato canaglia o semplicemente l’Isis ricostituita decidessero di muovere guerra a una nazione europea, a chi chiederemmo in prestito le armi? Dopo la bella notizia le opzioni sono due: alla Beretta o direttamente a Napoleone Zelensky.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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