2020-04-11
Monoposto ferme ai box la grande opportunità di una Formula da rivedere
Dopo 70 anni emozionanti, la F1 è oggi a un bivio. La sosta forzata deve servire a riscoprire i valori del suo successo mondiale. Il primo fra tutti è lo spettacolo.«Box, box, box!» La voce del team principal risuona nella radio di bordo della monoposto. È un ordine, un imperativo categorico che non può essere contraddetto. Il pilota ha una sola opzione: fermarsi. Da quel momento in poi saranno altri a occuparsi della sua auto. Un richiamo che rischia di estendersi all'intera Formula 1. E che anche in questo caso non sembra materia di contrattazione. Il «cigno nero», annuncio di catastrofe per gli economisti, ha proiettato la sua ombra sulla F1. Prendendo la forma di un virus imprevisto e imprevedibile. Proprio per questo, capace di generare conseguenze catastrofiche. Con il mondiale in bilico, come un atleta in attesa del colpo di pistola di uno starter indeciso, anche il circus iridato affronta i suoi fantasmi. L'attività sportiva più globale che ci sia rischia di perdersi in un labirinto di incertezze. Quelle esterne, generate dalla imprevedibile diffusione del coronavirus e quelle, in apparenza meno aggressive ma altrettanto pericolose, che la percorrono sul piano tecnico e sportivo. Ci vuole coraggio e senso di responsabilità per debellare l'infezione. Due qualità che sembrano difettare alla Formula 1. Almeno a giudicare dalla scomposta rissa che ha preceduto e seguito l'annullamento del Gran premio d'Australia, momento emblematico in quanto primo atto della stagione. La necessaria riflessione sulla gravità della situazione e i conseguenti pericoli per gli attori dello spettacolo: piloti, tecnici e, soprattutto, spettatori hanno ceduto il passo a un «tutti contro tutti» dove agli interessi personali, tecnici e commerciali, di costruttori e organizzatori hanno fatto riscontro i balbettii della Fia. Una federazione così impegnata nella lotta per la successione, ormai alle porte, del presidente Jean Todt, da rifugiarsi in un'atarassica indifferenza. Eppure proprio la drammaticità del momento rende indifferibile avviare un processo di autocritica da parte di una specialità che da tempo non fa che nascondere sotto il tappeto tutte le tensioni accumulate. Col risultato di indebolire sempre di più quegli anticorpi che le hanno consentito di festeggiare in buona salute i suoi primi settant'anni. Operazione necessaria ma certamente non facile, perché l'ambiente all'interno del quale sono chiamati a operare i diversi attori dello spettacolo, è sempre più aggressivo. Paradossalmente sono proprio i grandi costruttori, gli stessi che hanno consentito alla Formula 1 di affiancare ai contenuti sportivi un ruolo guida nello sviluppo tecnico e tecnologico dell'auto, i «batteri» che rischiano di comprometterne la salute. Trasferendo il confronto che nasce dalla naturale e reciproca aggressività sportiva in pista, in prove di forza da consumarsi «in privato», lontano da occhi indiscreti. E poco importa che la maggioranza di quegli «indiscreti» compongano la comunità degli spettatori, senza i quali lo spettacolo perde ogni significato. Una rappresentazione sempre meno comprensibile, dove raramente la percezione dell'appassionato coincide con la realtà dei fatti. Alimentando uno scetticismo pronto a sconfinare nel disinteresse.A Barcellona, durante lo svolgimento dei test premondiale, abbiamo assistito dal vivo a una di queste prove di forza. Protagoniste: Ferrari e Mercedes, impegnate in una serie di mosse e contromosse, sia sul piano tecnico sia su quello sportivo, ai limiti di una sterile provocazione che non può non incidere negativamente su quell'immagine di marca che costituisce il loro più prezioso patrimonio. Qualche anno fa tutta la Formula 1 sarebbe scesa in guerra. E invece un silenzio assordante. Con Fia e Liberty Media che sono state alla finestra. Trovando una paradossale giustificazione nell'impenetrabile complessità di un regolamento che loro stessi hanno contribuito a redigere. Ancora una volta molto meglio nascondere tutto sotto il tappeto e rimandare il momento di sollevarlo per passare un potente aspirapolvere. Ma l'imperativa chiamata ai box, complice il coronavirus, è arrivata. Fare finta di nulla, come dimostra il Gran premio d'Australia, non può che portare al fallimento. Solo che questa volta a rischiare non è una sola gara ma il futuro stesso di tutta la Formula 1. Perché procedere a tentoni nel labirinto di un calendario destinato a smentirsi giorno dopo giorno, non può che incidere sulla sua credibilità. Annullare il campionato per concentrarsi su quel 2021 che vedrà il varo di un nuovo regolamento (che pure presenta ancora molti punti da definire), ricomporre gli equilibri dei diversi attori dello spettacolo e ridefinire strategie economiche che non hanno ottenuto gli obiettivi che ci si erano proposti, è un'operazione ormai indifferibile.Una somma di criticità che non risparmia nessuno, da Liberty Media ai costruttori, dai piloti agli spettatori per innescare una micidiale reazione a catena. Che inizia nel 2016 quando John C. Malone, colosso della Tv via cavo, decide di investire poco meno di nove miliardi di dollari per rilevare la Formula 1 dalle mani di Bernie Ecclestone. Uomo di comunicazione, non nasconde l'intenzione di implementare i contenuti spettacolari della F1 rispetto a quelli tecnici. Non per nulla, alla presidenza di quella che nel frattempo è diventata Formula one group sale Chase Carey, che in precedenza ha lavorato per case cinematografiche come la 21st Century Fox. Ma prima di tutto bisogna giustificare il costo di acquisto agli azionisti, non tutti d'accordo sulla cifra sborsata. E il sospetto che si tratti di una polpetta avvelenata prende piede. La soluzione è allora quella di moltiplicare gli eventi. Si passa così in breve tempo dalle 18 alle 22 gare all'anno e per trovare organizzatori disponibili a versare cifre dell'ordine dei 40/50 milioni di dollari per assicurarsi un gran premio, bisogna cercare nuovi, più esotici, mercati: la Cina, il Vietnam e Singapore in prima fila. Ma in questi Paesi la Formula 1 è un oggetto misterioso e per renderla comprensibile bisogna fare un'operazione di semplificazione, che non fa che stridere contro la volontà dei costruttori ben decisi a tenere ben alta la bandiera della tecnologia. Per tutta risposta, Liberty Media decide di sovrapporsi alla Fia nominando Ross Brown, un passato alla Ferrari e alla Mercedes, suo commissario tecnico, e a questo punto gli interessi di organizzatore, federazione e costruttori cominciano a divergere. Il risultato è la sempre più frequente sovrapposizione tra il regolamento sportivo e quello tecnico. Con il secondo al servizio del primo e piegato alle ragioni dello spettacolo. Il risultato è un ognuno per sé che trasforma la Formula 1 in un vaso di cristallo, che il coronavirus rischia di infrangere. A tutto questo si aggiunga la delusione degli appassionati. Che hanno dovuto prendere atto della trasformazione di quei duelli in pista che di anno in anno ne hanno rinvigorito la storia, in confronti ancora più serrati ma celati agli occhi degli appassionati. Monoposto e piloti si fanno da parte per lasciare spazio alle lotte di potere tra i costruttori, magari meno appassionanti ma certamente più redditizie, che la Fia rinuncia a mediare per sposare, di volta in volta, una delle parti in gioco. Spettatori vittime di una complessità che finisce per inficiarne le capacità di percezione dell'evento.Ma siamo davvero così sicuri che sia necessario capire tutto fino in fondo? Forse è arrivato il momento di recuperare e rispettare i diversi ruoli dei protagonisti e degli spettatori, gli uni sul palco gli altri in platea, che sono all'origine di ogni forma di spettacolo. Al contrario, è quantomeno paradossale che all'eccessiva complessità della Formula 1 faccia riscontro un'analoga complessità della comunicazione. Che abbandona la sua naturale subordinazione all'evento per entrare in competizione con esso. Una sorta di confronto che coinvolge protagonisti e comunicatori ma che finisce per escludere lo spettatore. Che è un appassionato. Deluso di quelle attenzioni che mandano in visibilio la ridotta comunità dei super tecnici per deludere la massa. Perché mettere da parte il racconto, fatto di parole ma anche di pause e silenzi, per un'ansia comunicativa che nulla ha a che fare con quella sintesi naturale senza la quale non può esserci comprensione globale dell'evento, è vissuto come un affronto. Ridurre la Formula 1 a una sorta di ipertesto, dove ogni parola è soltanto l'inizio di un altro racconto, finisce per confonderne il significato primario. Lo spettacolo è in pista e in pista deve rimanere. Se una telecronaca si trasforma in un manuale delle giovani marmotte per aspiranti tecnici di Formula 1, evidentemente c'è qualcosa che non va. La F1 è essenzialmente divertimento: fatto di quella combinazione tra pericolo, talento e confronto che ne ha fatto uno spettacolo ineguagliabile. Un crogiolo di sentimenti che si raffredda quando dalla sintesi si passa all'analisi. Con le monoposto in pista ridotte a un insipido contorno di un piatto sempre più difficile da digerire. Troppi conti da regolare per fare finta di niente, eppure il rischio è quello di andare avanti comunque, «indebitandosi» ulteriormente. Fino a quando gli spettatori terranno aperta la borsa del credito.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)