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2018-04-11
Minniti esulta: «Gli sbarchi calano». In compenso arrivano terroristi con i gommoni
ANSA
Ieri, alla cerimonia per i 166 anni della fondazione della polizia di Stato, Marco Minniti era più raggiante del sole pallido di questa primavera. «Per il decimo mese consecutivo», ha proclamato orgoglioso il ministro, «si è registrato un calo degli sbarchi di migranti. Dal 1° luglio ad oggi sono arrivate 95.600 persone in meno rispetto all'anno precedente, un colpo straordinario ai trafficanti di esseri umani». Certo, ha aggiunto l'inquilino del Viminale, «nulla è mai acquisito una volta per tutte, ma i numeri ci dicono che quei processi possono essere governati. È innegabile che qualcosa stia cambiando». Già, qualcosa è mutato, nei flussi migratori. Approdano sulle nostre coste meno stranieri dalla Libia, in compenso però sbarcano jihadisti dai gommoni. Dev'essere un nuovo tipo di approccio basato sulla qualità: ne arrivano meno, ma sono più pericolosi. Un grande successo di cui vantarsi.
Proprio mentre Minniti si bullava delle sue conquiste, la Guardia di finanza diffondeva alla stampa i dettagli di un'operazione chiamata Scorpion fish 2. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo ed effettuate dai finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e della compagnia di Marsala, hanno permesso di fermare 13 persone «di nazionalità tunisina, italiana e marocchina, appartenenti ad un'organizzazione criminale di carattere transnazionale dedita al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e al contrabbando di tabacchi lavorati esteri».
In sostanza, è stata sgominata una banda «capeggiata da pericolosi pregiudicati tunisini», la quale «operava prevalentemente mediante trasporti veloci, per i quali utilizzava gommoni carenati con potenti motori fuoribordo ed esperti scafisti, nel braccio di mare tra la provincia tunisina di Nabeul e quella di Trapani, consentendo agli immigrati clandestini di raggiungere, in poco meno di 4 ore di navigazione, le coste italiane. Ogni viaggio, per il quale venivano imbarcate dalle 10 alle 15 persone, con costi pro capite tra i 3.000 e i 5.000 euro, prevedeva anche il trasporto di sigarette di contrabbando, destinate al mercato nero italiano ed in particolare a quello palermitano».
Secondo gli investigatori, il traffico era piuttosto redditizio. Ogni viaggio fruttava tra i 30.000 e i 70.000 euro. Le sigarette, che giungevano a quintali, venivano smerciati nei mercati rionali palermitani a circa 3 euro al pacchetto, producendo incassi per circa 17.000 euro ogni quintale. Ma il cuore degli affari erano, ovviamente, i migranti. Qui non stiamo parlando della marea umana in arrivo dalla Libia, ma di un altro tipo di viaggi. L'organizzazione criminale aveva creato «una efficiente rete organizzativa, che contava sull'operato di elementi tunisini, italiani e marocchini, in posizione subordinata, che si occupavano di fornire ai clandestini un vero e proprio servizio shuttle dalle spiagge di sbarco sino alle basi logistiche dell'organizzazione laddove, una volta rifocillati e forniti di vestiario, i migranti potevano liberamente raggiungere le destinazioni desiderate».
Erano viaggi in prima classe, rivolti a un target ben preciso. Gli stranieri a bordo dei gommoni potevano permettersi di sborsare cifre piuttosto elevate. Soprattutto, però, a costoro veniva garantito il totale anonimato. Viaggiando sui gommoni riuscivano ad evitare la trafila del recupero in mare da parte delle Ong, e potevano approdare in Italia evitando qualsiasi tipo di controllo.
Che genere di individuo ha bisogno di un servizio del genere? Di sicuro non un disperato che punta a raggiungere l'Europa in cerca di una vita migliore. Qui si tratta di clandestini che hanno parecchio denaro in tasca e in testa covano propositi non esattamente cristallini. Infatti, guarda un po', dell'organizzazione facevano parte anche due aspiranti jihadisti. Uno marocchino, l'altro tunisino. Entrambi vivevano in Sicilia con tanto di permesso di soggiorno, svolgendo lavori di copertura.
Intercettato dagli investigatori, il marocchino spiegava a uno dei suoi compari di essere intenzionato a recarsi in Francia, dove meditava di compiere «azioni pericolose», dopo le quali non avrebbe potuto fare ritorno in Italia. «Dio mi aiuti per quello che devo fare», diceva.
Quanto al tunisino, portava avanti un'intensa attività sui social network, gingillandosi con materiale di propaganda dello Stato islamico e con tutto l'armamentario ideologico tipico dei jihadisti. Per altro, quella di ieri non è nemmeno la prima operazione messa in campo per sgominare organizzazioni di import export di stranieri dalla Tunisia. La prima Scorpion fish, infatti, risale all'estate del 2017, ed è riuscita a fermare un gruppo di malviventi diverso e autonomo. I personaggi fermati ieri, molto probabilmente, hanno colmato il vuoto lasciato dagli altri criminali.
E non è affatto escluso (anzi, è molto probabile) che congreghe analoghe siano all'opera per gestire i cosiddetti «sbarchi fantasma». Il nostro giornale è stato tra i primi a denunciare il fenomeno. Già lo scorso settembre, sulle coste siciliane, sono approdate svariate migliaia di persone, provenienti per lo più da Tunisia e Algeria, noti serbatoi di combattenti islamici. Non per nulla il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, in un'intervista rilasciata a Repubblica lo scorso agosto, dichiarò che «non può escludersi la presenza di terroristi internazionali». Ora abbiamo la conferma che, in effetti, i jihadisti arrivavano sui gommoni, per poi far perdere le tracce una volta toccata la sabbia siciliana.
Mentre noi raccontavamo ciò che stava avvenendo, Minniti continuava a ripetere che gli sbarchi erano in calo. Il ministro, del resto, prima di assumere l'incarico al Viminale, andava in giro a dire che di terroristi sui barconi non se n'erano mai visti. Ha dovuto ricredersi.
Infatti, qualche settimana fa, ha dichiarato in un'intervista: «Ciò che solo alcuni mesi fa sembrava impossibile, ossia il fatto che i combattenti dell'Isis si imbarcassero su dei gommoni fatiscenti, è ora diventato possibile. Si richiede pertanto la massima allerta». La tardiva scoperta, a quanto pare, non gli ha impedito di continuare a vantarsi dei risultati ottenuti, come ha fatto ieri. Chissà, forse pensa che la strategia migliore per affrontare i jihadisti in arrivo sulle spiagge sia nascondere la testa sotto la sabbia.
Francesco Borgonovo
Richiedenti asilo allo sbando nelle città italiane
Richiedenti asilo che vivono in strada, o in case occupate, o ancora in realtà e situazioni che neanche immaginiamo. È la fotografia che emerge dal Rapporto annuale 2018 del Centro Astalli, presentato nei giorni scorsi a Roma. «Continuiamo a registrare», è la denuncia, «un numero crescente di persone che restano escluse dal sistema di accoglienza e vivono per strada. Si tratta in molti casi di richiedenti asilo che hanno abbandonato i Centri di accoglienza straordinaria dove erano stati inizialmente accolti e che, avendo ricevuto la revoca delle misure di accoglienza, restano tagliati fuori da ogni forma di supporto, materiale e legale».
Non è raro anche il caso in cui la procedura d'asilo risulti sospesa o compromessa, aggravando le loro condizioni di precarietà. Non è la prima volta che viene evidenziata questa incongruenza: come avevamo visto a suo tempo, il numero di marzo del mensile Altreconomia ha contato, tra il 2016 e il 2017, almeno 22.000 migranti che hanno perso il diritto di essere ospitati nei centri. Ed erano solo i dati di 35 prefetture su un centinaio. Facendo una proiezione, possiamo ipotizzare un numero di circa 80.000 immigrati nella stessa situazione. Dati ipotetici perché, spiegava Altreconomia, «in Italia, a oggi, il ministero dell'Interno non sa quanti siano».
Ma come accade che gli immigrati escano dal circuito dell'accoglienza? In alcuni casi sembra si tratti di un esodo volontario, il che è abbastanza strano, dato che tali soggetti escono da un circuito imperfetto finché si vuole, ma comunque tutelato e garantito, per andare per lo più a condurre una vita fatta di espedienti, con il forte sospetto che ci sia dietro l'attrazione del mondo criminale. In altri casi si tratta invece di persone espulse dai centri per condotte delinquenziali. Il caso di Innocent Oseghale, il presunto assassino di Pamela Mastropietro, è eloquente: il nigeriano «uscì dal percorso protettivo» all'inizio del 2017, a causa della sua abitudine conclamata a rituffarsi nel giro dello spaccio, evidentemente ritenuto più redditizio del famosi 35 euro al giorno con cui le cooperative dovrebbero sfamare i richiedenti asilo.
Di certo la presenza di una quota crescente di persone a cui, secondo la legge, lo Stato dovrebbe protezione e che invece si trovano in un limbo fatto di illegalità pone un bel rompicapo anche giuridico. Del resto il Centro Astalli fa riferimento ad alcuni sgomberi di edifici occupati in cui erano presenti anche titolari di protezione internazionale: «Fa riflettere», scrivono gli estensori del rapporto, «il fatto che quelle occasioni siano state l'unico temporaneo momento di attenzione e visibilità per i moltissimi migranti che vivono, ormai da anni, ai margini delle nostre città. Non possiamo fare a meno di constatare che molti di loro sono privi di punti di riferimento sul territorio e che in misura maggiore rispetto al passato la loro stessa presenza è ignota non soltanto alle istituzioni ma anche agli enti di tutela». Di sicuro le occupazioni illegali, gestite per lo più da centri sociali, non possono risolvere la situazione.
Fabrizio La Rocca
La triste fine del modello Riace: «Ci tocca chiudere»
Il colpo che ha definitivamente ucciso il «modello Riace» è arrivato con la gara per lo Sprar. Ce l'aveva in canna la stazione unica appaltante di Reggio Calabria, che ha dichiarato la gara infruttuosa, escludendo l'associazione temporanea d'imprese guidata da Città futura, la Coop «amica» del sindaco Domenico «Mimmo» Lucano.
Era stato propagandato come il sindaco dell'accoglienza e delle buone pratiche pro migranti. Era il cocco di Laura Boldrini. Sulle sue gesta la Rai voleva fare una fiction. Poi è arrivata l'inchiesta della Procura di Locri per truffa ai danni dello Stato e dell'Ue, per concussione e per abuso d'ufficio e da Viale Mazzini hanno fatto un passo indietro. L'unica gara d'appalto sull'accoglienza bandita a Riace, coincidenza, lo stesso giorno della perquisizione in municipio era andata deserta. E ora che anche l'ultima speranza di portare a Riace i quasi 4 milioni di euro per il progetto Sprar è naufragata, il «modello Riace» è al collasso. Qualche giorno fa il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, è stato nel piccolo paese della Locride per sostenere il sindaco durante un'assemblea pubblica infarcita della solita retorica pro accoglienza.
«Siamo obbligati a chiudere», ha dovuto ammettere Lucano, cercando di far leva sui presenti con la scusa dei posti di lavoro. Che per gli ispettori della Prefettura, però, in alcuni casi sono stati assegnati ad amici e parenti dell'amministrazione. «Riace», ha gridato Lucano (aiutato dalla propaganda del solito cordone protettivo della stampa amica), «rimarrà un paese fantasma». Sui 1.600 abitanti, 500 degli attuali residenti sono arrivati lì con i progetti d'accoglienza.
Oliverio ha invitato il sindaco a non mollare. Ma in quel momento, forse, il governatore non era informato che anche nell'ultima gara pubblica le coop dell'accoglienza erano andate al tappeto. «Sono solo le solite lagne sulle istituzioni che hanno congelato prudentemente le erogazioni assegnate al Progetto Riace, attese le gravi irregolarità emerse dopo le ispezioni prefettizie e che sono oggetto di indagine giudiziaria», tuonano dalla segreteria regionale di Fiamma tricolore.
Ora da destra sperano che il disastro economico certificato poco più di un mese fa da Corte dei conti e Prefettura non ricada sui cittadini. La gara per lo Sprar, come riportato nel bando della Stazione unica appaltante, avrebbe garantito alle casse comunali 3.747.689 euro oltre Iva, dei quali 1.510.000 euro erano da destinare alle spese per il personale. L'unico criterio stabilito era quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Unica anche la ditta partecipante che, se avesse centrato l'offerta, avrebbe di sicuro ottenuto l'incasso. E invece l'Ati, con a capo Città futura, seguita dall'associazione Welcome e da Work cooperativa sociale Onlus, è stata esclusa e, colpo di grazia, la gara è stata dichiarata infruttuosa. L'ultima carta per il sindaco ormai alla canna del gas l'ha giocata Oliverio rivolgendosi al prefetto e al governo: «Le risposte alle attese devono essere e rapide». Parole che a molti sono suonate come il canto del cigno.
Fabio Amendolara
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Il ministro si vanta di aver ridotto i flussi migratori. Ma c'è poco da esultare: scoperta in Sicilia un'organizzazione che importava jihadisti dalla Tunisia.Aumentano gli stranieri che hanno perso il diritto all'accoglienza ma rimangono qui senza fissa dimora.Finisce anche il modello Riace: le coop del «paese dell'accoglienza» falliscono l'ultima gara d'appalto e, senza fondi pubblici, sono a secco.Lo speciale contiene tre articoli. Ieri, alla cerimonia per i 166 anni della fondazione della polizia di Stato, Marco Minniti era più raggiante del sole pallido di questa primavera. «Per il decimo mese consecutivo», ha proclamato orgoglioso il ministro, «si è registrato un calo degli sbarchi di migranti. Dal 1° luglio ad oggi sono arrivate 95.600 persone in meno rispetto all'anno precedente, un colpo straordinario ai trafficanti di esseri umani». Certo, ha aggiunto l'inquilino del Viminale, «nulla è mai acquisito una volta per tutte, ma i numeri ci dicono che quei processi possono essere governati. È innegabile che qualcosa stia cambiando». Già, qualcosa è mutato, nei flussi migratori. Approdano sulle nostre coste meno stranieri dalla Libia, in compenso però sbarcano jihadisti dai gommoni. Dev'essere un nuovo tipo di approccio basato sulla qualità: ne arrivano meno, ma sono più pericolosi. Un grande successo di cui vantarsi. Proprio mentre Minniti si bullava delle sue conquiste, la Guardia di finanza diffondeva alla stampa i dettagli di un'operazione chiamata Scorpion fish 2. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo ed effettuate dai finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e della compagnia di Marsala, hanno permesso di fermare 13 persone «di nazionalità tunisina, italiana e marocchina, appartenenti ad un'organizzazione criminale di carattere transnazionale dedita al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e al contrabbando di tabacchi lavorati esteri». In sostanza, è stata sgominata una banda «capeggiata da pericolosi pregiudicati tunisini», la quale «operava prevalentemente mediante trasporti veloci, per i quali utilizzava gommoni carenati con potenti motori fuoribordo ed esperti scafisti, nel braccio di mare tra la provincia tunisina di Nabeul e quella di Trapani, consentendo agli immigrati clandestini di raggiungere, in poco meno di 4 ore di navigazione, le coste italiane. Ogni viaggio, per il quale venivano imbarcate dalle 10 alle 15 persone, con costi pro capite tra i 3.000 e i 5.000 euro, prevedeva anche il trasporto di sigarette di contrabbando, destinate al mercato nero italiano ed in particolare a quello palermitano». Secondo gli investigatori, il traffico era piuttosto redditizio. Ogni viaggio fruttava tra i 30.000 e i 70.000 euro. Le sigarette, che giungevano a quintali, venivano smerciati nei mercati rionali palermitani a circa 3 euro al pacchetto, producendo incassi per circa 17.000 euro ogni quintale. Ma il cuore degli affari erano, ovviamente, i migranti. Qui non stiamo parlando della marea umana in arrivo dalla Libia, ma di un altro tipo di viaggi. L'organizzazione criminale aveva creato «una efficiente rete organizzativa, che contava sull'operato di elementi tunisini, italiani e marocchini, in posizione subordinata, che si occupavano di fornire ai clandestini un vero e proprio servizio shuttle dalle spiagge di sbarco sino alle basi logistiche dell'organizzazione laddove, una volta rifocillati e forniti di vestiario, i migranti potevano liberamente raggiungere le destinazioni desiderate». Erano viaggi in prima classe, rivolti a un target ben preciso. Gli stranieri a bordo dei gommoni potevano permettersi di sborsare cifre piuttosto elevate. Soprattutto, però, a costoro veniva garantito il totale anonimato. Viaggiando sui gommoni riuscivano ad evitare la trafila del recupero in mare da parte delle Ong, e potevano approdare in Italia evitando qualsiasi tipo di controllo. Che genere di individuo ha bisogno di un servizio del genere? Di sicuro non un disperato che punta a raggiungere l'Europa in cerca di una vita migliore. Qui si tratta di clandestini che hanno parecchio denaro in tasca e in testa covano propositi non esattamente cristallini. Infatti, guarda un po', dell'organizzazione facevano parte anche due aspiranti jihadisti. Uno marocchino, l'altro tunisino. Entrambi vivevano in Sicilia con tanto di permesso di soggiorno, svolgendo lavori di copertura. Intercettato dagli investigatori, il marocchino spiegava a uno dei suoi compari di essere intenzionato a recarsi in Francia, dove meditava di compiere «azioni pericolose», dopo le quali non avrebbe potuto fare ritorno in Italia. «Dio mi aiuti per quello che devo fare», diceva. Quanto al tunisino, portava avanti un'intensa attività sui social network, gingillandosi con materiale di propaganda dello Stato islamico e con tutto l'armamentario ideologico tipico dei jihadisti. Per altro, quella di ieri non è nemmeno la prima operazione messa in campo per sgominare organizzazioni di import export di stranieri dalla Tunisia. La prima Scorpion fish, infatti, risale all'estate del 2017, ed è riuscita a fermare un gruppo di malviventi diverso e autonomo. I personaggi fermati ieri, molto probabilmente, hanno colmato il vuoto lasciato dagli altri criminali. E non è affatto escluso (anzi, è molto probabile) che congreghe analoghe siano all'opera per gestire i cosiddetti «sbarchi fantasma». Il nostro giornale è stato tra i primi a denunciare il fenomeno. Già lo scorso settembre, sulle coste siciliane, sono approdate svariate migliaia di persone, provenienti per lo più da Tunisia e Algeria, noti serbatoi di combattenti islamici. Non per nulla il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, in un'intervista rilasciata a Repubblica lo scorso agosto, dichiarò che «non può escludersi la presenza di terroristi internazionali». Ora abbiamo la conferma che, in effetti, i jihadisti arrivavano sui gommoni, per poi far perdere le tracce una volta toccata la sabbia siciliana. Mentre noi raccontavamo ciò che stava avvenendo, Minniti continuava a ripetere che gli sbarchi erano in calo. Il ministro, del resto, prima di assumere l'incarico al Viminale, andava in giro a dire che di terroristi sui barconi non se n'erano mai visti. Ha dovuto ricredersi. Infatti, qualche settimana fa, ha dichiarato in un'intervista: «Ciò che solo alcuni mesi fa sembrava impossibile, ossia il fatto che i combattenti dell'Isis si imbarcassero su dei gommoni fatiscenti, è ora diventato possibile. Si richiede pertanto la massima allerta». La tardiva scoperta, a quanto pare, non gli ha impedito di continuare a vantarsi dei risultati ottenuti, come ha fatto ieri. Chissà, forse pensa che la strategia migliore per affrontare i jihadisti in arrivo sulle spiagge sia nascondere la testa sotto la sabbia.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/minniti-sbarchi-terroristi-gommoni-borgonovo-2558734706.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="richiedenti-asilo-allo-sbando-nelle-citta-italiane" data-post-id="2558734706" data-published-at="1766426439" data-use-pagination="False"> Richiedenti asilo allo sbando nelle città italiane Richiedenti asilo che vivono in strada, o in case occupate, o ancora in realtà e situazioni che neanche immaginiamo. È la fotografia che emerge dal Rapporto annuale 2018 del Centro Astalli, presentato nei giorni scorsi a Roma. «Continuiamo a registrare», è la denuncia, «un numero crescente di persone che restano escluse dal sistema di accoglienza e vivono per strada. Si tratta in molti casi di richiedenti asilo che hanno abbandonato i Centri di accoglienza straordinaria dove erano stati inizialmente accolti e che, avendo ricevuto la revoca delle misure di accoglienza, restano tagliati fuori da ogni forma di supporto, materiale e legale». Non è raro anche il caso in cui la procedura d'asilo risulti sospesa o compromessa, aggravando le loro condizioni di precarietà. Non è la prima volta che viene evidenziata questa incongruenza: come avevamo visto a suo tempo, il numero di marzo del mensile Altreconomia ha contato, tra il 2016 e il 2017, almeno 22.000 migranti che hanno perso il diritto di essere ospitati nei centri. Ed erano solo i dati di 35 prefetture su un centinaio. Facendo una proiezione, possiamo ipotizzare un numero di circa 80.000 immigrati nella stessa situazione. Dati ipotetici perché, spiegava Altreconomia, «in Italia, a oggi, il ministero dell'Interno non sa quanti siano». Ma come accade che gli immigrati escano dal circuito dell'accoglienza? In alcuni casi sembra si tratti di un esodo volontario, il che è abbastanza strano, dato che tali soggetti escono da un circuito imperfetto finché si vuole, ma comunque tutelato e garantito, per andare per lo più a condurre una vita fatta di espedienti, con il forte sospetto che ci sia dietro l'attrazione del mondo criminale. In altri casi si tratta invece di persone espulse dai centri per condotte delinquenziali. Il caso di Innocent Oseghale, il presunto assassino di Pamela Mastropietro, è eloquente: il nigeriano «uscì dal percorso protettivo» all'inizio del 2017, a causa della sua abitudine conclamata a rituffarsi nel giro dello spaccio, evidentemente ritenuto più redditizio del famosi 35 euro al giorno con cui le cooperative dovrebbero sfamare i richiedenti asilo. Di certo la presenza di una quota crescente di persone a cui, secondo la legge, lo Stato dovrebbe protezione e che invece si trovano in un limbo fatto di illegalità pone un bel rompicapo anche giuridico. Del resto il Centro Astalli fa riferimento ad alcuni sgomberi di edifici occupati in cui erano presenti anche titolari di protezione internazionale: «Fa riflettere», scrivono gli estensori del rapporto, «il fatto che quelle occasioni siano state l'unico temporaneo momento di attenzione e visibilità per i moltissimi migranti che vivono, ormai da anni, ai margini delle nostre città. Non possiamo fare a meno di constatare che molti di loro sono privi di punti di riferimento sul territorio e che in misura maggiore rispetto al passato la loro stessa presenza è ignota non soltanto alle istituzioni ma anche agli enti di tutela». Di sicuro le occupazioni illegali, gestite per lo più da centri sociali, non possono risolvere la situazione. Fabrizio La Rocca <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/minniti-sbarchi-terroristi-gommoni-borgonovo-2558734706.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-triste-fine-del-modello-riace-ci-tocca-chiudere" data-post-id="2558734706" data-published-at="1766426439" data-use-pagination="False"> La triste fine del modello Riace: «Ci tocca chiudere» Il colpo che ha definitivamente ucciso il «modello Riace» è arrivato con la gara per lo Sprar. Ce l'aveva in canna la stazione unica appaltante di Reggio Calabria, che ha dichiarato la gara infruttuosa, escludendo l'associazione temporanea d'imprese guidata da Città futura, la Coop «amica» del sindaco Domenico «Mimmo» Lucano. Era stato propagandato come il sindaco dell'accoglienza e delle buone pratiche pro migranti. Era il cocco di Laura Boldrini. Sulle sue gesta la Rai voleva fare una fiction. Poi è arrivata l'inchiesta della Procura di Locri per truffa ai danni dello Stato e dell'Ue, per concussione e per abuso d'ufficio e da Viale Mazzini hanno fatto un passo indietro. L'unica gara d'appalto sull'accoglienza bandita a Riace, coincidenza, lo stesso giorno della perquisizione in municipio era andata deserta. E ora che anche l'ultima speranza di portare a Riace i quasi 4 milioni di euro per il progetto Sprar è naufragata, il «modello Riace» è al collasso. Qualche giorno fa il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, è stato nel piccolo paese della Locride per sostenere il sindaco durante un'assemblea pubblica infarcita della solita retorica pro accoglienza. «Siamo obbligati a chiudere», ha dovuto ammettere Lucano, cercando di far leva sui presenti con la scusa dei posti di lavoro. Che per gli ispettori della Prefettura, però, in alcuni casi sono stati assegnati ad amici e parenti dell'amministrazione. «Riace», ha gridato Lucano (aiutato dalla propaganda del solito cordone protettivo della stampa amica), «rimarrà un paese fantasma». Sui 1.600 abitanti, 500 degli attuali residenti sono arrivati lì con i progetti d'accoglienza. Oliverio ha invitato il sindaco a non mollare. Ma in quel momento, forse, il governatore non era informato che anche nell'ultima gara pubblica le coop dell'accoglienza erano andate al tappeto. «Sono solo le solite lagne sulle istituzioni che hanno congelato prudentemente le erogazioni assegnate al Progetto Riace, attese le gravi irregolarità emerse dopo le ispezioni prefettizie e che sono oggetto di indagine giudiziaria», tuonano dalla segreteria regionale di Fiamma tricolore. Ora da destra sperano che il disastro economico certificato poco più di un mese fa da Corte dei conti e Prefettura non ricada sui cittadini. La gara per lo Sprar, come riportato nel bando della Stazione unica appaltante, avrebbe garantito alle casse comunali 3.747.689 euro oltre Iva, dei quali 1.510.000 euro erano da destinare alle spese per il personale. L'unico criterio stabilito era quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Unica anche la ditta partecipante che, se avesse centrato l'offerta, avrebbe di sicuro ottenuto l'incasso. E invece l'Ati, con a capo Città futura, seguita dall'associazione Welcome e da Work cooperativa sociale Onlus, è stata esclusa e, colpo di grazia, la gara è stata dichiarata infruttuosa. L'ultima carta per il sindaco ormai alla canna del gas l'ha giocata Oliverio rivolgendosi al prefetto e al governo: «Le risposte alle attese devono essere e rapide». Parole che a molti sono suonate come il canto del cigno. Fabio Amendolara
iStock
Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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Ecco #DimmiLaVerità del 22 dicembre 2025. La deputata di Azione Federica Onori illustra gli ultimi provvedimenti per gli italiani all'estero a partire da novità su Imu e Tari.
La cerimonia di apertura della Coppa d'Africa 2025 a Rabat (Ansa)
Ieri ha preso il via in Marocco la 35ª edizione della Coppa d’Africa delle Nazioni, aperta dal successo 2-0 dei padroni di casa sulle Comore. Un torneo che conferma il crescente livello tecnico, la qualità organizzativa con nove stadi all’avanguardia in vista del Mondiale 2030 e l’ampia competitività tra le squadre.
Il calcio africano ha riacceso i riflettori in Marocco, dove è cominciata la Coppa d'Africa delle Nazioni 2025, torneo che negli ultimi anni ha ampliato pubblico, peso e attenzione ben oltre i confini del continente.
Il torneo, giunto alla 35ª edizione, si è aperto domenica sera con il successo dei padroni di casa contro le Comore e accompagnerà il calcio africano fino al 18 gennaio, quando allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat si assegnerà il titolo. Un mese intenso, nel cuore della stagione europea, che racconta meglio di qualsiasi slogan come il torneo continentale africano sia ormai diventato - al di là di ogni polemica relativa al calendario - un appuntamento globale, seguito con attenzione anche in Italia e nel resto d’Europa. Nel nostro Paese, la Coppa d’Africa sarà visibile in chiaro ed esclusiva su Sportitalia, che per la seconda edizione consecutiva ha acquisito i diritti, confermando l’interesse crescente anche nel nostro pubblico.
Il format è quello ormai consolidato: 24 nazionali divise in sei gironi, passaggio agli ottavi per le prime due di ciascun gruppo e per le quattro migliori terze. Da lì, eliminazione diretta fino alla finale. La Costa d’Avorio arriva da campione in carica, ma l’impressione è che questa Coppa d’Africa sia più aperta che mai, con un equilibrio diffuso e diverse squadre attrezzate per arrivare in fondo.
Il Marocco, spinto dal fattore campo e da una struttura organizzativa imponente, parte inevitabilmente tra i favoriti. Non solo per i risultati, ma per il contesto: nove stadi, sei città coinvolte e un piano infrastrutturale che guarda già al Mondiale 2030. La Coppa d'Africa 2025 si gioca infatti in impianti che rappresentano il nuovo volto del calcio marocchino, tra arene ultramoderne appena inaugurate e stadi storici rinnovati. Un investimento enorme, non privo di tensioni sociali interne, che però consegna al torneo una cornice di primo livello. Il cuore pulsante della manifestazione è Rabat, con il nuovo Prince Moulay Abdellah destinato a ospitare tutte le partite della nazionale di casa e la finale. Casablanca resta il tempio della tradizione con il Mohammed V, mentre Tangeri chiude il cerchio con l’impianto più grande del Paese. Marrakech, Agadir e Fès completano una mappa che racconta un torneo diffuso e strategico, anche politicamente.
Sul campo, la sensazione è che la Coppa d'Africa di quest'anno non abbia un copione già scritto. L’Egitto si affida ancora una volta alla stella Mohamed Salah, alla ricerca di un titolo che gli è sempre sfuggito e di un riscatto personale dopo le ultime vicissitudini che lo hanno portato ai ferri corti con il Liverpool, mentre la Nigeria si presenta con Victor Osimhen e Ademola Lookman come riferimenti offensivi e l’obbligo di cancellare la delusione per il mancato accesso ai Mondiali. Senegal, Algeria e Costa d’Avorio restano certezze, ma il margine tra big e outsider si è assottigliato. Ed è proprio questo uno dei segreti del fascino della Coppa d’Africa. Accanto alle grandi potenze storiche, emergono squadre capaci di complicare i piani a chiunque. L’Angola arriva da un percorso di qualificazione impeccabile, il Benin e l’Uganda hanno mostrato solidità e organizzazione, mentre Zambia e Guinea Equatoriale rappresentano le classiche mine vaganti. Anche il Mali, pur con qualche incognita legata alla condizione dei suoi uomini chiave, resta una nazionale di grande qualità. Poi ci sono le storie più fragili e simboliche, come Sudan, Zimbabwe o Botswana, per le quali la sola partecipazione è già un traguardo. Contesti difficili, problemi strutturali, crisi interne: la Coppa d’Africa è anche questo, uno specchio fedele di un continente complesso, che trova nel calcio uno spazio di espressione e riscatto.
L’interesse italiano passa inevitabilmente anche dai tanti giocatori impegnati nei nostri campionati. La Serie A e le serie minori forniscono un contributo significativo al torneo, con convocati che vanno dai top club fino alla Serie D. Un filo diretto che spiega perché la Coppa d'Africa non sia più percepita come un evento lontano, ma come una competizione che incide concretamente sul calcio europeo, sugli equilibri dei club e sull’immaginario degli appassionati.
Sette titoli dell’Egitto, cinque del Camerun, quattro del Ghana: l’albo d’oro racconta la storia della competizione. Il Marocco - che avrebbe dovuto ospitare anche il torneo del 2015, ma si ritirò per timori legati all’epidemia di Ebola in alcuni paesi africani - ospita la Coppa d’Africa per la seconda volta nella sua storia, dopo aver organizzato il torneo nel 1988, e punta a bissare l’unico successo della sua storia del 1976, contando sul fattore campo e sul sostegno del pubblico. In ogni caso ora la Coppa d’Africa sembra muoversi in una direzione più precisa rispetto al passato, fatta di equilibrio, infrastrutture rinnovate e una competitività sempre più trasversale. In Marocco si gioca un torneo che non chiede più attenzione per curiosità o emergenza, ma per valore tecnico, organizzazione e impatto reale sul calcio globale.
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José Antonio Kast, neo presidente cileno (Ansa)
La vittoria schiacciante di José Antonio Kast al ballottaggio per le elezioni presidenziali del Cile il 14 dicembre scorso consolida l’allineamento del Sudamerica con l’era Trump, dimostrando che l’esasperazione per il crimine e l’immigrazione illegale pesa più delle ideologie del passato. Si può etichettare il voto cileno come nostalgia autoritaria, come stanno facendo in molti? Questa semplificazione eccessiva taglia fuori gran parte della realtà di quei Paesi in cui ciò che emerge è il più chiaro ripudio della sinistra, tra difficoltà economiche e violenza di strada.
Il conservatore (per alcuni, ultraconservatore) Kast ha vinto il ballottaggio con uno squillante 58,16% dei voti, superando nettamente la comunista Jeannette Jara. Questo risultato non è solo un cambio della guardia, dal presidente di sinistra Gabriel Boric al conservatore Kast, ma segna per il Cile un rifiuto storico della sinistra che ha radici profonde.
Kast viene spesso definito di estrema destra, ma la sua elezione è stata accompagnata da toni misurati e concilianti nel discorso di vittoria, volto a rassicurare gli elettori moderati. Il presidente eletto ha promesso di essere un leader conservatore di destra «misurato, ragionevole, sensato e di buon senso», che invita i cileni a lavorare sodo, a rispettare le istituzioni e le regole, con un messaggio ironico e chiaro: «Rendiamo di nuovo il Cile noioso». Nondimeno, il successo elettorale consolida la tendenza che ha visto quasi il 70% degli elettori sostenere candidati di destra al primo turno.
Un fattore cruciale che ha pesato sul risultato elettorale è stata la reintroduzione del voto obbligatorio per le elezioni presidenziali cilene. L’introduzione di questo sistema (con multe dai 30 ai 160 euro a chi non si reca a votare, cifre elevate nel contesto del reddito mensile cileno) ha mobilitato un’ampia fascia dell’elettorato che era generalmente disimpegnata dalla politica e profondamente diffidente nei confronti delle élite politiche. L’affluenza è stata dell’85%, il doppio dell’elezione precedente.
L’obbligo di voto si è rivelato essere chiaramente correlato a uno spostamento dell’elettorato verso destra.
Il vero motore di questa decisa virata non è stato un ritorno ideologico, ma una profonda e diffusa frustrazione popolare nei confronti dell’aumento della criminalità e dell’insicurezza. Il Cile, sebbene rimanga uno dei Paesi più sicuri della regione, è scosso da episodi di violenza e rapine brutali un tempo assai rari. La paura del crimine è diventata la principale preoccupazione dei cileni, con circa il 63% che la considera tale, un dato tra i più alti al mondo.
Gran parte di questo allarme è direttamente collegato all’afflusso di immigrati irregolari, in particolare dal Venezuela, con la popolazione residente nata all’estero che ha raggiunto circa il 10%, rispetto al 2,1% del 2010. Una vera e propria esplosione, cui è correlato un aumento della criminalità.
L’arrivo di violente bande transnazionali come il Tren de Aragua, originaria del centro penitenziario di Tocorón in Venezuela e coinvolta in rapimenti a scopo di estorsione, omicidi, tratta di esseri umani e torture, ha introdotto nel Cile reati un tempo sconosciuti.
Kast, cogliendo in pieno il sentimento anti immigrazione e le richieste di mano dura contro il crimine, ha promesso un governo di emergenza poiché il Paese «cade a pezzi». La sua agenda di sicurezza è intransigente e si ispira apertamente al modello adottato dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che gode di un indice di popolarità positivo tra oltre il 70% dei cileni. Da quando Bukele è entrato in carica (nel 2019) gli omicidi nel Salvador sono diminuiti del 90%. Come? Arresti di massa, sospensione di alcuni diritti costituzionali, una mega prigione di massima sicurezza.
Le promesse di Kast in questo senso non sono da meno e includono la militarizzazione della frontiera settentrionale con la costruzione di fossati, muri e recinzioni elettriche per contrastare l’immigrazione clandestina e i traffici. Il suo approccio è chiaro e afferma che i migranti irregolari dovranno andarsene o saranno espulsi. In un avvertimento diretto, Kast ha detto agli immigrati irregolari che possono andarsene «con i soli vestiti che hanno addosso», o saranno detenuti ed espulsi in seguito senza i loro averi.
Kast ha strategicamente evitato di porre i suoi valori sociali da fervente cattolico padre di nove figli (come l’opposizione all’aborto e al matrimonio omosessuale) al centro della campagna. Ma il ricordo del passato autoritario non è lontano, in Cile, come evidenziato dalla sua dichiarazione secondo cui l’ex dittatore Augusto Pinochet «voterebbe per me se fosse vivo». Una dichiarazione che risale a quasi dieci anni fa, ma che ancora pesa nel dibattito. Voci insistenti dicono che il padre di Kast, tedesco emigrato in Cile nel 1950 all’età di 26 anni, abbia fatto parte del Partito nazista tedesco. Tutti elementi che hanno scandalizzato la sinistra ma che non hanno influito sul consenso alle elezioni.
I sondaggi rivelano che gli elettori di Kast mostrano alti livelli di nostalgia autoritaria, con circa il 50% tra i suoi sostenitori che si dichiara d’accordo con l’idea che se i politici cileni seguissero gli ideali di Pinochet, il Paese recupererebbe il suo posto nel mondo. Questa «nostalgia» (che raggiunge il 30% dell’elettorato totale in Cile) è significativamente più alta dell’analoga «malinconia per il franchismo» registrata anche recentemente in Spagna (circa il 15% nel 2023).
Dall’altra parte, la candidata sconfitta Jeannette Jara, membro del Partito comunista fin dall’età di 14 anni, difendeva un modello sociale contestato ed era strettamente associata al governo uscente di Gabriel Boric, che ha registrato tassi di approvazione bassi (intorno al 30%) ed è stato percepito come inefficiente e incapace di affrontare la crisi di sicurezza.
Il Cile è strategicamente cruciale: è il primo produttore mondiale di rame e detiene circa un terzo delle riserve globali di litio, materiali indispensabili per l’elettrificazione e le tecnologie di difesa. Kast, la cui piattaforma economica è vigorosamente pro mercato, ha promesso un taglio dell’imposta sulle società (dal 27% al 23%), una drastica riduzione della spesa pubblica di 6 miliardi di dollari in 18 mesi e una crescita economica annua del 4%.
Mentre il Cile, anche sotto Boric, aveva lanciato la sua Strategia nazionale del litio per aumentare il controllo statale, la nuova amministrazione si troverà nel mezzo della competizione tra Stati Uniti e Cina per le risorse critiche. Sebbene la Cina sia il principale partner commerciale del Cile, gli Stati Uniti stanno aumentando la pressione per costruire una catena di approvvigionamento di litio slegata dalla lavorazione cinese. L’elezione di Kast segnala che il Cile è pronto a schierarsi con l’ondata conservatrice e pro mercato che sta rimodellando il continente sudamericano, promettendo ordine e prosperità in un’alleanza strategica con Washington.
Primo per il rame, secondo per il litio. Ma il tesoro di Santiago costa troppo
Con l’ascesa di José Antonio Kast il Cile non è solo un laboratorio politico della nuova destra sudamericana, ma anche il fulcro della competizione globale per i minerali critici. La sua immensa ricchezza geologica, fatta soprattutto di rame e dal litio, è la posta in gioco nella rinnovata rivalità tra Stati Uniti e Cina, che cercano di assicurarsi le forniture essenziali per la transizione energetica e le tecnologie di difesa.
Il Cile è da tempo un pilastro del settore minerario globale. È il primo produttore mondiale di rame, con una produzione che nel 2024 rappresentava circa il 24% dell’offerta mondiale, e detiene circa il 31% delle riserve globali del metallo. Per quanto riguarda il litio, il Cile è il secondo produttore globale e le sue vaste saline, come il Salar de Atacama, contengono circa un terzo delle riserve mondiali. Le salamoie cilene sono rinomate per le loro concentrazioni eccezionalmente elevate, che superano le 7.000 parti per milione.
Questa abbondanza di risorse ha reso il Cile un obiettivo strategico per entrambe le superpotenze. La Cina è il principale partner commerciale del Cile, arrivando a essere la destinazione del 66% delle esportazioni minerarie cilene nel 2024. La società cinese Tianqi detiene una partecipazione significativa (tra il 22% e il 24%) in Sqm (Sociedad Química y Minera), uno dei maggiori produttori di litio del Paese.
L’amministrazione Trump, che considera l’emisfero occidentale la sfera di influenza degli Stati Uniti, sta cercando di contenere questa penetrazione. Gli Stati Uniti intendono costruire una catena di fornitura di litio che sia indipendente dalla lavorazione cinese. A tal fine, Washington sfrutta l’accordo di libero scambio (Fta) con il Cile, offrendo alle esportazioni cilene di litio la possibilità di beneficiare di agevolazioni fiscali previste dalla legislazione statunitense. Un incentivo inteso a incoraggiare Santiago a uscire dalle catene di fornitura cinesi.
Il precedente governo di sinistra di Gabriel Boric aveva inaugurato una Strategia nazionale del litio. L’obiettivo era raddoppiare la produzione di litio in dieci anni e creare una Compagnia nazionale del litio statale. Il perno di questa strategia è stato l’accordo per una joint venture tra l’azienda statale Codelco e Sqm per lo sfruttamento del Salar de Atacama, con Codelco che avrebbe ottenuto la maggioranza (50% più un’azione) a partire dal 2031. Questo accordo era finalizzato a limitare l’influenza della cinese Tianqi in Sqm.
Tuttavia, l’approccio di Boric ha generato un intenso dibattito per la mancanza di trasparenza (trattativa diretta anziché gara d’appalto). Inoltre, i progetti per attrarre la lavorazione a valle (come gli impianti di catodi e batterie con Byd e Tsingshan) sono stati sospesi a causa del calo dei prezzi del litio e dei ritardi normativi, evidenziando i limiti dell’utilizzo degli investimenti diretti dall’estero per il rilancio industriale.
Il presidente eletto Kast, che ha più volte lodato Donald Trump, si muoverà in direzione opposta, promettendo un approccio chiaramente favorevole al mercato per incoraggiare gli investimenti. Il suo consulente economico, Jorge Quiroz, ha negato l’ispirazione diretta da Javier Milei, ma l’agenda è fortemente improntata a un liberismo fiscale e regolatorio.
Kast ha promesso di ridurre l’aliquota dell’imposta sulle società dal 27% al 23%. Inoltre, intende semplificare i permessi per i progetti, un’azione fondamentale dato che l’autorizzazione mineraria in Cile può richiedere dagli 8 agli 11 anni. Kast ha anche in programma di verificare le finanze e le operazioni di Codelco, un passo che riflette il suo orientamento anti statalista e la critica verso la precedente gestione.
Nonostante l’attrattiva del Cile, la corsa allo sfruttamento delle risorse è ostacolata da ostacoli normativi e sociali, riassunti nel trilemma minerario: sicurezza nazionale, fattibilità economica e sostenibilità.
Uno dei problemi più acuti è il conflitto socio-ambientale, che ha visto i contenziosi legati all’estrazione mineraria in Cile quasi quadruplicare tra il 2000 e il 2020. La principale fonte di preoccupazione è l’elevato consumo di acqua nell’estrazione, in particolare di litio, in un contesto di stress idrico in regioni aride come Atacama.
Inoltre, sebbene il Cile abbia cercato di attirare investimenti, le sue attuali royalty per il litio (circa il 40%) sono significativamente più alte rispetto ai regimi aperti al mercato di altri Paesi come l’Argentina (che applica una royalty del 3%), rendendo Buenos Aires una destinazione più attraente per gli investimenti.
Oltre alla grave questione della criminalità, il successo di Kast dipenderà dalla sua capacità di affrontare questi difficili problemi. L’allineamento ideologico del neopresidente con Washington è chiaro, ma la vera prova sarà se il suo governo riuscirà a convertire la vasta ricchezza geologica del Cile in stabilità duratura.
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