2020-05-06
Ministro nella bufera, il Colle non può tacere
La guerra aperta dal magistrato nel fronte giustizialista non è una questione di carriere. L'ipotesi di una trattativa condizionata dalle lamentele dei boss per far fuori un membro del Csm deve essere spazzata via. Se il 5 stelle mente non può stare al suo posto.Uno che i compagni li conosceva bene, Pietro Nenni, padre nobile dei socialisti negli anni Cinquanta e Sessanta, diceva che chi fa a gara a fare il puro troverà sempre uno più puro che lo epura. Niente di più vero visto quel che sta accadendo ad Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia a 5 stelle finito nel mirino di Nino Di Matteo, cioè di colui che prima della nascita del governo Conte era ritenuto il più probabile Guardasigilli di un governo grillino. Sì, è tutta una guerra interna per chi è più puro dell'altro, quella scoppiata tra il capo delegazione del Movimento nell'esecutivo giallorosso e l'ex pm di Palermo, oggi rappresentante togato del Csm nelle fila del gruppo giudiziario-integralista di Camillo Davigo. Come ha raccontato ieri il nostro Maurizio Tortorella, l'ex procuratore del processo Stato-mafia ha fatto irruzione all'improvviso nella trasmissione di Massimo Giletti, rivelando al telefono come andò la nomina del capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Quel tal Francesco Basentini che qualche giorno fa è stato costretto a dimettersi dopo che, a seguito di una sua circolare, i magistrati di sorveglianza hanno iniziato a scarcerare una serie di boss mafiosi con la scusa dell'emergenza Covid. A volerlo al vertice delle prigioni fu Bonafede, il quale però, qualche giorno prima della scelta, aveva contattato Di Matteo proponendogli di guidare il Dap o, in alternativa, gli Affari penali del ministero. Il primo incarico ovviamente era ed è più importante del secondo, ma dovendo scegliere e dovendo probabilmente cambiare vita e città, il pm palermitano aveva chiesto 48 ore di tempo per rispondere. Passati due giorni e presa la decisione, il procuratore ricontattò Bonafede per dirgli di aver scelto il Dap, ma invece dei rallegramenti per aver accettato un ruolo impegnativo, Di Matteo si sentì dire dal ministro che il posto era già stato assegnato ad altri. Il Guardasigilli aveva infatti deciso di dare la direzione delle carceri a Basentini. Dunque, all'uomo del processo Stato-mafia, rimaneva al massimo la possibilità di occupare la poltrona di direttore degli Affari penali che nel passato era stata di Giovanni Falcone, ma da tempo è svuotata delle funzioni più importanti. Messo di fronte al fatto compiuto, ossia a una sola alternativa, vale a dire chiudersi in un ufficio della Capitale a fare il passacarte o rimanere a Palermo, il procuratore ha optato per la seconda, candidandosi poi per entrare nell'organo di governo della magistratura in quota Davigo. Fin qui potrebbe sembrare una faccenda di carriera che riguarda il solo Di Matteo, le sue aspettative e le sue frustrazioni. Tuttavia c'è un passaggio che la toga palermitana ha evidenziato con un po' di malizia l'altra sera in tv e che non riduce tutto a una mancata nomina, ma getta una luce inquietante sulla vicenda. A Giletti il pm ha raccontato che «nel frattempo (cioè mentre lui si prendeva 48 per dare una risposta a Bonafede, ndr), e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap». In pratica, durante una trasmissione televisiva in cui si parlava scandalizzati della scarcerazione dei boss, il pm ha buttato lì il sospetto che qualcuno abbia fermato la sua nomina alla direzione dei penitenziari italiani perché ai capi mafia non era gradita. Sottinteso: io una circolare per liberare dei malavitosi condannati al 41bis, ossia a un regime di carcere duro e di isolamento, non l'avrei mai firmata. Lanciata la bomba, il ministro della Giustizia non poteva non replicare e allora ecco arrivare in trasmissione la telefonata balbettante di Alfonso Bonafede, il quale ha detto che Di Matteo avrebbe avuto una percezione sbagliata. Sì, questa è la frase con cui si è giustificato un signore che pochi minuti prima era stato accusato di avere, in buona o malafede per rimanere al cognome, allentato le misure contro i mafiosi. «Gli dissi che tra i due ruoli era più importante quello di direttore degli Affari penali, in passato ricoperto da Giovanni Falcone», ha poi aggiunto ben sapendo che il passacarte non era, né per stipendio né per prestigio, la funzione ambita da Di Matteo. Ora, Bonafede è quel signore che fino all'altroieri si indignava per la bocciatura europea dell'ergastolo ostativo, ossia del fine pena mai. Alla Cedu che contestava la norma italiana rispondeva che la detenzione perpetua era necessaria proprio per tenere dentro mafiosi e terroristi. Ma poi lo stesso Bonafede sta al vertice di un ministero il cui capo dipartimento di fatto ha emanato una norma che libera tutti e non ne trae le conseguenze. Di Matteo, il più puro che ti epura, dice che Bonafede in 48 ore cambiò parere su di lui e lo fece dopo che i boss si erano lamentati. Al Fatto Quotidiano, giornale che sostiene sia Bonafede che Di Matteo, indecisi a chi dar ragione fra i due, scrivono che ministro e pm non si sono capiti. Poverini, hanno equivocato. Certo come no, la linea era disturbata e l'uno ha frainteso l'altro e viceversa. La storia dei puri che si epurano a vicenda invece è chiara e, a prescindere da ciò che si pensi di Di Matteo, ha una sola e logica conclusione. Bonafede deve cioè spiegare perché ha cambiato idea e ha deciso di non nominare il pm di Palermo al Dap. Deve dire se qualcuno lo sconsigliò o gli fece sapere delle note informative della polizia penitenziaria. Per anni ci hanno riempito la testa con la storia della trattativa Stato-mafia degli anni Novanta. Adesso vorremmo capire se c'è stata la trattativa per far fuori Di Matteo. E vorremmo capire se Sergio Mattarella, presidente del Csm, ha niente da dire. Tra il «suo» consigliere e il «suo» ministro, uno mente: chi?
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