
Regia spettacolare e grandi interpreti: senza Mattarella e Meloni, Chailly regala un’opera convincente, in linea con lo «zibaldone» manzoniano promesso. Dodici minuti di applausi, assurdi «buu» per il soprano.«Fallì l’impresa»? Nemmeno per sogno. I 12 minuti di applausi finali, di ovazioni e di qualche protesta, più da stadio che da salotto buono, certificano in modo un po’ fiscale - ma è il verdetto dei cronometristi che poi entra negli annali - il successo del teatro alla Scala di Milano ieri sera, nel suo dì di festa: la Prima di Sant’Ambroeus, annata 2024. Solo «evviva», «bravo», «bis»? No, dei «buu» sonori ci sono stati. È il bello del teatro e delle opposte tifoserie, che abitano anche qui? Forse sì o forse c’è dell’altro. Ma poi ci torniamo.Al baritono francese Ludovic Tézier (Don Carlo) il tributo più travolgente, forte boato per Alexander Vinogradov (Padre Guardiano) mentre i fiori cadevano dal cielo. Anna Netrebko (Donna Leonora) ha diviso gli oltre 2.000 in smoking e abito lungo, sorpresi dalla pioggerella meneghina dell’ingresso. Stessa sorte - grida di approvazione e di critica, in percentuali diverse - anche per il tenore Brian Jagde (Don Alvaro), chiamato a sostituire Jonas Kaufmann, e per il mezzosoprano del Caucaso Vasilisa Berzhanskaya (Preziosilla).Teatro vivo e quindi grande fermento su al loggione, che è pur sempre l’unica curva di Milano che non è indagata dalla Procura. Alle 18.02, appena prima dell’inno di Mameli, Claudia - volto notissimo delle leggendarie code - rompe il silenzio: «Salvate Sant’Agata!». La Villa, casa di Giuseppe Verdi, è infatti al centro di un progetto di recupero che inciampa continuamente. Messaggio recapitato in maniera «solare» al ministro della Cultura, Giuli. Poi, sempre dall’alto, qualche intemperanza da parte di un fan dei tempi belli. «Povera Tebaldi!», urla a squarciagola un loggionista mentre Donna Leonora (Netrebko) dà l’addio a «patria, famiglia e padre». «Stai a casa!», la gentile replica di un collega melomane. Ed è forse proprio da questi bisticci da derby lirico che nascerà la disapprovazione, che già si era intuita dopo la commovente Vergine degli angeli. A meno che non abbia ragione il sovrintendente Dominique Meyer, che ha lasciato intendere un boicottaggio antirusso. E qui si entrerebbe in un altro capitolo, molto più triste.Diatribe a parte, ciò che è certo è che il Piermarini ha saputo sfidare «impavido, di rio destin la guerra» (oggi diremmo ha resistito alla Legge di Murphy), scacciando gli uccelli del malaugurio che volteggiano sull’opera «maledetta» di Verdi fin dai tempi andati. Quella Forza del destino che i cultori non osano neanche nominare per timore della malasorte e che non veniva scelta per l’inaugurazione di una stagione scaligera da ben 59 anni. Stavolta, senza nemmeno un capitombolo alla Laura Pausini, la leggenda nera della Forza non ha potuto allungare la sua infinita serie di sinistre coincidenze, tra scosse telluriche, capitolazioni militari e inquietanti morti in scena. Solo un pochino di letame dei contestatori, un archetto perduto da un violinista, un violino sostituito al volo. O, al massimo, il pubblico in colpevole ritardo mentre inizia il terzo atto. Inezie. Scommessa, quindi, vinta da Meyer, che può salutare la compagnia con il sorriso.Sulla carta la sfida era più che complicata ed è stata affrontata a carte scoperte sia dal direttore musicale, Riccardo Chailly, sia dal regista, Leo Muscato. Il primo aveva chiarito le sue intenzioni: riproporre la variante «milanese» (senza tagli). Non l’originale che debuttò a San Pietroburgo (1862), ma la seconda versione ripensata accuratamente per la Scala (1869), con la quale il Cigno di Busseto voleva fare pace dopo 24 anni di gelo. E soprattutto trattare quest’opera verdiana per quello che è: uno «zibaldone», una «caleidoscopica» somma di situazioni e opposti (tragico e comico, alto e basso, conventi e osterie, santi e frati cialtroni), secondo Chailly certamente ispirata da Alessandro Manzoni. Fin dalla Sinfonia che apre il dramma la bacchetta scaligera è apparsa attenta. Con mano sicura e anche rilassata, frequenti i sorrisi e gli sguardi ammirati. Raffinatissimo nelle parti di recitativo accompagnato. «Premonizioni del Dies irae nel coro della maledizione dei frati», ha fatto notare il compositore Luca Belloni sui social. E forse è giusto ricordare ciò che tutti sanno, ovvero che il Requiem Verdi lo scrisse proprio per la morte dell’autore dei Promessi sposi.Sull’altro fronte, il regista ha invece scelto la guerra come tema centrale della vicenda. Non solo quella raccontata nel libretto, ambientato nel Settecento, ma un conflitto trasversale, che arriva fino a oggi. Da qui la scelta di dilatare gli intervalli temporali del compositore tra un atto e l’altro. Per Muscato ogni capitolo fa dei balzi di un secolo. Il risultato, visto da dentro lo scrigno, è una regia a cavallo tra il tradizionale e il moderno: né fedele alle precisissime indicazioni del manoscritto, né ideologicamente impegnata a raccontare tutta un’altra storia. Ed è magia. Lo spettacolo nello spettacolo è la macchina del tempo progettata per l’occasione. Non è la DeLorean di Ritorno al futuro, ma la Ruota del destino. Altro che Ruota della sfortuna, come scherza qualcuno nel foyer. L’ingranaggio è magico. Mentre la ruota gira inesorabile, i macchinisti cambiano le scene con una maestria incredibile. I soldati in marcia sembrano criceti, i frati in processione portano il cinema in teatro. L’eremo di Leonora diventa un sepolcro. Si coglie un profondo rispetto per chi ha composto la Forza e il suo senso religioso di questo periodo manzoniano, illuminato dalla speranza. Chailly aveva promesso sette momenti sublimi, ma sono stati molto di più. Ne prendiamo solo uno. L’ultimo atto è una summa dello spirito manzoniano dell’opera. Miseria ed eroismo mischiati a meschinità e pentimento, sacrificio e sete di vendetta. Con l’affidamento a Dio come risposta a un fato che si accanisce senza pietà sui due giovani infelici, che cercavano amore e trovano solo morte.Un plauso al Piermarini che ha avuto coraggio di osare senza rinunciare ad Anna Netrebko («Sono felice», il suo ultimo commento) come fanno altri teatri nel mondo per ragioni geopolitiche. Quando regista e direttore scavano così a fondo, il commento più azzeccato è l’ultimo urlo che si è sentito alla Scala: «Viva Verdi!».
2025-09-14
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