2024-10-14
«Per i mezzi pesanti i target verdi europei sono irraggiungibili»
Il presidente di Anita, Riccardo Morelli (Ansa)
Il capo di Anita, Riccardo Morelli: «Elettrico e idrogeno non bastano e il loro impatto in termini di CO2 è sottostimato. I biocarburanti possono aiutare».Fino ad ora tutta l’attenzione per la transizione energetica si è concentrata sull’auto, sul passaggio dai motori endotermici a quelli a batterie, ma c’è un comparto, il trasporto pesante, che ugualmente rischia di essere stritolato dai target di abbattimento delle emissioni decisi da Bruxelles. «Impossibile raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione che la Ue impone al trasporto pesante. Servirebbe un fondo per l’autotrasporto per aiutare il settore nella fase della transizione ecologica», dice Riccardo Morelli, presidente di Anita, l’associazione delle aziende del trasporto pesante. Quali conseguenze ha il Green deal automotive per l’autotrasporto pesante?«Condivido la finalità di un maggiore impegno dell’Ue e dei suoi Stati membri nella lotta al cambiamento climatico ma a Bruxelles hanno commesso il grande errore di aver fissato obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per i nuovi veicoli pesanti decisamente ambiziosi. E questo in assenza di una nuova politica industriale europea per la riconversione delle imprese del settore automotive, che dovranno immettere sul mercato camion a zero emissioni in tempi stringenti, secondo quanto stabilito dalla regolamentazione comunitaria. L’astratta definizione di target green rischia di mettere a repentaglio intere categorie, incluso il comparto dell’autotrasporto che dovrà investire in modo significativo sul rinnovo delle flotte alimentate da tecnologie molto costose. Mi auguro che ci sia una seria e tempestiva riflessione sull’argomento affinché il percorso verso la neutralità climatica possa essere realizzato gradualmente, continuando a garantire competitività alla Ue e alle economie dei Paesi membri». Per il 2025 resta l’obiettivo di taglio di almeno il 15% delle emissioni per mezzi di peso superiore a 16 tonnellate. Ma è obbligatorio ridurle del 45% dal 2030, del 65% dal 2035 e del 90% dal 2040. In dieci anni i camion dovranno dimezzare le emissioni. Come farete? «È molto difficile, se non impossibile, che in così pochi anni si riescano a sviluppare soluzioni tecnologiche in grado di dimezzare le emissioni di C02 dei veicoli pesanti in assenza del riconoscimento da parte del legislatore europeo della pluralità tecnologica e dunque del contributo che può dare un mix energetico (quindi non solo l’elettrico e l’idrogeno) alla decarbonizzazione del settore. La traiettoria fissata dall’Ue è irrealistica perché mancano le sue condizioni abilitanti. Non dimentichiamoci che l’Europa ha una scarsa disponibilità di materie prime critiche, di energia rinnovabile, di infrastrutture necessarie per garantire la transizione verso un parco veicoli completamente elettrico nei tempi stabiliti». L’alimentazione elettrica e a idrogeno è utilizzabile per tutte le operazioni di trasporto stradale pesante delle merci? «No, non sono ancora mature benché siano riconosciute dalla normativa europea come le uniche soluzioni capaci di portare a zero il contatore delle emissioni. Andrebbero considerate anche quelle necessarie per la produzione di idrogeno, che sono ancora significative. Un vettore, per essere efficiente e utilizzabile dal trasporto pesante deve essere in grado di soddisfare le prestazioni operative di veicoli fino a 44 tonnellate, garantendo autonomia sulle tratte di lungo raggio, fermate brevi per i rifornimenti e presenza capillare dei distributori di carburante lungo la rete viaria nazionale. In questo senso l’alimentazione elettrica, sebbene già utilizzata per la movimentazione urbana delle merci, presenta limiti di autonomia, capacità e tempi di rifornimento. Un quadro che si complica, oggi, a causa della scarsa presenza di infrastrutture di ricarica lungo la rete stradale nazionale. Dal canto loro, i veicoli a idrogeno presentano le stesse criticità. In questa cornice, è sufficiente considerare che le colonnine di ricarica elettrica a corrente continua esistenti in Italia con potenza tra i 150 kW e i 350 kW sono 2.641, quelle con potenza uguale o superiore ai 350 kW sono 357 e le stazioni di erogazione di idrogeno da autotrazione solo tre. C’è ancora molta strada da fare». Esistono altre tecnologie per i veicoli industriali attualmente disponibili e utilizzabili per abbattere le emissioni. Perché i biocarburanti non vengono considerati? «A mio avviso la responsabilità è del regolamento Ue “Standard CO2 per veicoli pesanti”, che nel determinare l’efficienza delle diverse tipologie di alimentazione mostra un approccio miope. Infatti, il sistema incaricato del calcolo delle emissioni, Ttw (Tank to wheel), valuta solo il carico emissivo dei veicoli al tubo di scappamento, senza tenere conto delle emissioni dei mezzi e dei vettori energetici lungo tutto il loro ciclo di vita, cioè dalla produzione all’utilizzo. Una indagine possibile attraverso altri modelli di rendicontazione della CO2, Lca (Lyfe cicle assesment) o Wtw (Well to wheel), che consentirebbero di valorizzare tutto il novero delle soluzioni esistenti, inclusi biocarburanti e carburanti low carbon, rinnovabili e non, capaci di abbattere le esternalità negative del trasporto pesante accelerando la progressiva decarbonizzazione del settore». Quali sono le condizioni imprescindibili per conseguire gli obiettivi di decarbonizzazione del trasporto pesante a livello nazionale e europeo? «Per cominciare, le istituzioni nazionali dovrebbero dare vita a un “Fondo investimenti autotrasporto”, con una dotazione finanziaria importante, in tre anni per accelerare la decarbonizzazione delle flotte, promuovendo anche l’utilizzo di carburanti alternativi. Il parco circolante italiano, infatti, è vetusto e quasi un terzo di esso rientra in una classe ambientale inferiore alla Euro 5. Senza un rinnovato impegno concreto raggiungeremo risultati verificabili solo fra 26 anni. Contestualmente, le istituzioni europee dovrebbero impostare la revisione del regolamento “Standard CO2 per veicoli pesanti” tenendo conto dei biocarburanti e dei carburanti sintetici, tecnologie meno costose e più mature di quelle indicate nel dispositivo europeo, al fine di incidere positivamente sull’impronta carbonica». Un problema da voi evidenziato è la mancanza di autisti. «Gli autisti che oggi mancano all’appello sono circa 25.000 e stando alle ultime rilevazioni Unioncamere Excelsior il fabbisogno occupazionale dei settori logistica e mobilità raggiungerà le 158.000 unità da qui al 2028. Ciò significa che mentre le aziende continuano a cercare personale senza riscontro da parte del mercato, l’età dei lavoratori oggi impiegati avanza e i giovani, gli unici in grado di colmare il gap di competenze legato alla doppia transizione verde e digitale, rimangono distanti. Un paradosso, quello del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, che ci vede impegnati nel tentativo di trovare una soluzione. Da qui parte l’idea di istituire l’osservatorio “Giovani Autotrasporto e Logistica”, che intende restituire al settore la sua attrattività trasferendo alle ragazze e ai ragazzi una percezione inedita della professione, strategica e innovativa. Entro la fine dell’anno, inoltre, costituiremo il comitato scientifico dell’osservatorio, che avrà il compito di accompagnare la nostra analisi e le nostre attività a beneficio del comparto». Temete l’arrivo delle case produttrici cinesi? «Al momento, non mi risulta esserci nel mercato alcuna proposta proveniente dall’Oriente per quanto riguarda i veicoli industriali pesanti. Premesso questo, per noi è importante avere mezzi tecnologicamente ed ambientalmente all’avanguardia, sicuri e sostenibili commercialmente, con una rete di assistenza affidabile e capillare che ci consenta di gestire la manutenzione dei nostri mezzi in Italia ed in Europa. Ciò non significa temere l’arrivo dei cinesi, quanto avere la garanzia che le performance qualitative dei veicoli siano rispettate lungo tutto il loro ciclo di vita». Il traffico merci attraverso le Alpi è sempre stato problematico.«Il 60% del totale dell’export italiano (espresso in tonnellate di merci trasportate) viaggia verso i Paesi europei. La permeabilità delle Alpi è dunque una questione di grande rilevanza per il buon funzionamento e la competitività del settore dei trasporti e dell’intera economia italiana, considerate anche le proiezioni che vedono l’export in crescita. Sono corridoi fondamentali cui corrisponde una grande difficoltà di attraversamento: dal rischio di blocchi scatenati da eventi eccezionali (si pensi a quanto accaduto al Frejus e al Gottardo); da limitazioni nella costruzione di nuove arterie stradali in virtù della sottoscrizione della Convenzione delle Alpi, a seguito della quale si sostanzia nel tempo un significativo fabbisogno di ammodernamento delle infrastrutture storiche che assicurano le connessioni transalpine (ad esempio è prevista la chiusura del tunnel del Monte Bianco per lavori di manutenzione in alcuni mesi lungo un periodo di 18 anni); da colli di bottiglia artificiosamente creati dall’Austria con le limitazioni unilaterali del Tirolo al transito dei mezzi pesanti lungo l’Asse del Brennero. Per questo una politica unitaria è sempre più urgente per risolvere le complesse problematiche che insistono sull’arco alpino, al fine di individuare misure di gestione comuni tra gli Stati interessati nell’ottica di incrementare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di trasporto transfrontalieri e di coniugare le esigenze di tutela ambientale». Il parco circolante dei mezzi pesanti è vetusto, cosa state facendo per rinnovare la flotta? «Il parco circolante ha un’età media di 19,1 anni e un terzo di esso appartiene a una classe ambientale inferiore alla Euro 5. Le aziende che aderiscono all’associazione stanno mettendo in campo uno sforzo senza precedenti, che avrà effetto solo se corrisposto da politiche incentivanti capaci di rendere l’iniziativa sostenibile anche dal punto di vista economico».
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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