L’ipotesi di buonuscita milionaria per Carlos Tavares, nonostante i suoi flop, conferma che il capitalismo non sa più sanzionare il demerito. E anche nelle nostre democrazie, soggiogate da «vincoli esterni», è diventato difficile il ricambio delle élite e dell’agenda di governo.
L’ipotesi di buonuscita milionaria per Carlos Tavares, nonostante i suoi flop, conferma che il capitalismo non sa più sanzionare il demerito. E anche nelle nostre democrazie, soggiogate da «vincoli esterni», è diventato difficile il ricambio delle élite e dell’agenda di governo.I numeri che lascia Carlos Tavares in Stellantis sono agghiaccianti: immatricolazioni giù del 24,6% a novembre 2024 rispetto a novembre 2023, calo del 9,7% nei primi 11 mesi del 2024, crollo della Fiat con il -41,7%, tracollo della Lancia a -80%. Guai per produzione, occupazione e indotto: Carrozzerie Mirafiori sarà in cassa integrazione fino all’8 gennaio, l’ex Sevel di Atessa avrà la Cig fino al 22 dicembre; non sarà rinnovata la commessa per la movimentazione auto negli stabilimenti di Torino, Cassino, Pomigliano e Melfi; nella fabbrica modenese di Maserati, altro marchio in difficoltà, gli operai lavorano non più di sei giorni al mese, con contratto di solidarietà. Eppure, dinanzi a questo sfacelo, l’ex amministratore delegato sarebbe in predicato di incassare una buonuscita da 100 milioni di euro. Stellantis, ieri, ha negato tutto, sostenendo che le cifre di cui si parla sono «lontanissime dalla realtà». Fosse pure la metà, non sarebbero certo briciole. E per quale risultato? Aver assicurato 23 miliardi in quattro anni agli azionisti.Non è un paradosso. È l’ordinaria amministrazione di un sistema malato. In cui il problema vero non è la diseguaglianza tra la busta paga dei dirigenti e quella degli operai, che toglie il sonno ai progressisti di maniera; semmai, l’assenza di una disciplina che punisca i demeriti, in proporzione al grado di responsabilità. Così, se l’azienda va male, il capo va a casa con una ricca liquidazione; il dipendente va a casa e basta.Il capitalismo manageriale e la democrazia liberale sono due grandi invenzioni della civiltà occidentale. Ma il meccanismo si è inceppato. Ce ne accorgemmo con sommo sdegno - all’epoca nacquero vari movimenti di «indignati» - già durante la crisi del 2008: l’America era finita in ginocchio, trascinandosi dietro l’economia mondiale, e intanto Lehman Brothers versava 20 milioni di dollari a due pezzi grossi, cacciati poco prima del crac della compagnia. Cosa dire, poi, della politica? In teoria, il nostro voto serve a mandare via i rappresentanti incapaci. Solo che, con l’artificio dei vincoli esterni, dei Trattati europei, della speculazione sui tassi d’interesse sui titoli di Stato, riusciamo a licenziare i politici ma non le politiche. Quelle rimangono più o meno simili, con destra e sinistra, entrambe sottomesse dal giogo del rating, dei parametri di bilancio, degli esamini di Bruxelles. La coperta, ci sentiamo ripetere in occasione di ogni Manovra, è corta. Nell’Ue, ormai, hanno trovato il modo di conservare persino gli stessi governanti, benché randellati alle urne. E infatti, alla faccia delle elezioni di giugno, ci ripropongono un’altra Commissione Von der Leyen, un’altra ammucchiata Ppe-socialisti-liberali. Eterno ritorno dell’identico, vivacizzato a fatica dalla nomina del meloniano Raffaele Fitto. E come si poteva impedirla, dato che in Italia il primo partito è Fdi?La malattia di economia e politica è identica: è venuto meno il modo per sanzionare gli insuccessi colposi. Nel 1912, Joseph Schumpeter aveva individuato nella «distruzione creatrice» l’essenza del capitalismo, però si era reso conto che esso non avrebbe sopportato a lungo tanto rigore. Oggi, è difficile che una grande azienda fallisca e sia soppiantata da una migliore. Di solito - Stellantis è un caso di scuola - le sue perdite vengono nazionalizzate, ossia ricadono sulle tasche dei contribuenti e sulla pelle dei lavoratori; i profitti, invece, continuano a essere distribuiti tra gli azionisti. È il principio al quale si è appellato anche Elon Musk, furioso con i giudici statunitensi che hanno bocciato il suo superbonus da 56 miliardi di dollari: ho remunerato i miei investitori, ha replicato, loro mi vogliono premiare, la magistratura non deve mettere becco. Può aver ragione. Ma conferma la diagnosi. Il guaio è che al centro non c’è il valore comunitario dell’impresa, bensì il suo valore finanziario. Il suo ruolo sociale - vi ricordate Adriano Olivetti? - è stato fagocitato dal suo assetto societario. Ecco perché Tavares potrebbe riuscire a incamerare un opulento bottino. Sopra un certo livello, gli errori non si pagano; piuttosto, pagano. Con l’aggravante che i ceo, non essendo proprietari, nemmeno scommettono soldi propri. Massimo vantaggio, minimo rischio.La democrazia liberale è vittima di un intoppo simile. Vilfredo Pareto definiva la storia «un cimitero di élite». La storia recente è più simile a un’alba di morti viventi: élite decotte che rimangono a galla. Blindate dai limiti che hanno imposto a ogni iniziativa riformatrice, spesso in combutta con quello stesso capitalismo sclerotico. Ci si può muovere soltanto dentro un certo perimetro, in verità molto ristretto. Il pretesto per ingabbiarci? Dicono che a una maggioranza non può essere permesso fare qualsiasi cosa. Vero: il potere non va esercitato in modo assoluto. Ma un conto è non poter fare qualsiasi cosa, un conto è non poter fare nulla. L’alternativa non dovrebbe essere binaria. L’alternativa non è tra autocrazia e tecnocrazia. L’alternativa non è tra manager impuniti e comunismo. Anche se un’intuizione Marx l’aveva avuta: il mondo è sottosopra e va rimesso nel verso giusto.
Il Consiglio di Stato dà ragione al Comune di Roma che aveva censurato il manifesto con la foto di un feto. L’ennesimo blitz liberticida dei progressisti, che però sbraitano contro l’intolleranza di Meloni e Trump.
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Esaurito l’afflato rivoluzionario, oggi i compagni bramano misere vendette individuali.