2019-04-22
Meghan vicina al parto e pronta ad affidare il royal baby a un bambinaio
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Il figlio dell'ex attrice e del principe Harry nascerà tra pochi giorni. Fonti vicine alla coppia assicurano che i due siano pronti a rompere nuovamente il protocollo britannico. Come? Interrompendo la lunga lista di governanti che si sono prese cura fino a oggi dei pargoli della famiglia reale e affidare il principino (o la principessina) alle cure di un tato. All'interno una fotogallery del matrimonio dei duchi di Sussex.Di vestire l'abito della principessina perfetta, Meghan Markle non ha mai avuto la benché minima intenzione. E quella sua natura ribelle, ben nascosta sotto il sorriso posato, la si è vista, inconfutabilmente, nel giorno del matrimonio regale, quando la duchessa di Sussex si è presentata all'altare accompagnata dalla madre, al cui naso brillava un diamantino ben diverso da quelli cui è abituata la regina Elisabetta. Nessuno, a Buckingham Palace, ha proferito verbo sull'evento, ma l'astio di Meghan Markle nei confronti del protocollo britannico è talmente noto da aver dato adito (anche) a qualche diatriba sulla tata del nascituro.Pare, infatti, che i duchi di Sussex abbiano dato mandato ad un'agenzia di trovar loro una babysitter che, dal terzo mese di vita del principino in arrivo, il cui sesso ancora è sconosciuto, possa prendersene cura. Peccato solo che l'agenzia in questione sia americana e che la babysitter non debba per forza essere una donna. Harry e Meghan, diversamente dai cognati perfettini William e Kate, vorrebbe che il loro bambino, il primogenito della coppia, fosse affidato alle cure di chi possa sentirsi parte della famiglia e non membro di uno staff macchinoso. Al diavolo, dunque, l'austerità del Norland College, la più rinomata tra le accademie per aspiranti tate. E al diavolo le bambinaie modello Maria Borrallo, tata dei piccoli George, Charlotte e Louis. I duchi vorrebbero accanto una persona che possa ricordare loro l'amore e la dolcezza di Tiggy Pettifer, la signora che si prese cura di Harry e William negli anni dell'adolescenza, rimanendo tanto affezionata al ragazzino rosso di capelli da indurlo ad invitarla al proprio royal wedding. Harry vorrebbe il senso di una familiarità per la quale è disposto a pagare 70.000 sterline l'anno. Ché a tanto ammonterebbe lo stipendio stanziato dalla coppia per la propria tata. O tato.I due, in barba alla tradizione inglese, che ad ogni bambino reale ha assegnato una bambinaia donna, non avrebbero alcuna preclusione nei confronti dei cosiddetti «manny». Anzi. Fonti anonime vicine alla coppia sarebbero pronte a giurare che l'ipotesi di un tato uomo sia più plausibile di qualunque altra. E le ragioni della coppia sarebbero le stesse che hanno determinato la crescita dei manny all'infuori di essa.Le famiglie, infatti, vogliono babysitter uomini e a dirlo sono le statistiche. Secondo Vicker, l'unica app riconosciuta in Italia dal Ministero del Lavoro, il 35% degli utenti che nel 2016 ha cercato online una babysitter ha poi optato per un uomo. Perché, lo si può dedurre (anche) dal programma di studi del Norland College, eccellenza britannica nel mondo.Tra le mura dell'istituto, dove agli studenti si chiede di indossare guanti bianchi e divisa color kaki, ha fatto capolino la realtà. Le famiglie che fanno ricorso ad un diplomato del Norland College sono per lo più ricche e famose, e con loro i propri pargoli, esposti ad una serie di minacce fisiche cui una brava tata deve sapere far fronte. Gli aspiranti babysitter, dunque, devono sottoporsi ad un corso che insegni a gestire le situazioni di emergenza, dando ai ragazzi i rudimenti di guida sportiva, di arti marziali, impartendo loro lezioni su come leggere le mappe per individuare vie di fuga sicure. Per, in soldoni, trasformare le tate in una sorta di tutto fare con l'agilità di un ninja.Al Norland College, fondato nel 1892, è stato chiamato il generale Paul Gibson con l'incarico, specifico, di occuparsi di contro terrorismo. E gli uomini, tradizionalmente snobbati per via di una (supposta) mancanza di sensibilità e giudizio, sono stati rivalutati per le proprie doti fisiche. La moda dei manny, che in sé racchiudono i vantaggi di una tata, di un bodyguard e pure di un padre, qualora questi per impegni di lavoro o di volontà sia costretto lontano da casa, è esplosa. E, a farne ricorso per tirar su i propri bambini, sono state – tra le altre – Gwyneth Paltrow, Madonna ed Elle Macpherson, certe, tutte e tre, che accanto alle ragioni pratiche sussistano ragioni teoriche. Fornire a dei bambini in crescita un perfetto esempio maschile, capace di valicare le più stantie distinzioni di genere, sarebbe un bene per il mondo del domani. Forse, anche per l'etichetta inglese, qualora Harry e Meghan davvero optassero un bambinaio americano e maschio.
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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