2020-08-22
Meghan fa la vittima nella sua biografia. Ma è lei che ha quasi sfasciato la corona
Meghan Markle, (Max Mumby/Indigo/Getty Images)
Meghan Markle in un libro racconta che la casa reale non l'ha protetta dai media. In realtà, l'attrice ha distrutto l'etichetta. L'accordo tra la monarchia britannica e i sudditi che l'Inghilterra le ha dato dovrebbe essere cosa semplice: un do ut des, dove i diritti e i doveri delle parti siano regolamentati da un rigido insieme di norme. Buckingham Palace la chiama «etichetta», e nessuno negli anni ha osato contravvenirle con la furia e la ferocia che ha animato Meghan Markle, il cui sogno europeo, per potersi definire tale, avrebbe dovuto essere colmo di botti piene e mariti ubriachi. Meghan Markle, che oggi è (già) saltata sul carro di Kamala Harris, pontificando su quanto scandaloso sia che il marito principe non possa votare per ottemperare all'apoliticità dell'istituzione di cui fa parte, la corona, avrebbe voluto la Luna. Ma l'Inghilterra stoica, di tradizioni e leggi, non le ha dato nulla. Non più di quel che spetti alla donna che sposi un principe in cerca di identità, eternamente sospeso tra la volontà di compiacere la famiglia e il desiderio di cedere alle proprie passioni. Così, quando la duchessa di Sussex ha preso atto di non poter riscrivere le norme della monarchia di proprio pugno, qualcosa nel gigantesco castello della corona britannica è andato sgretolandosi. L'attrice americana, che il 19 maggio 2018 è convolata a nozze con il principe Harry, regalandogli un primo figlio nel maggio dell'anno successivo, ha annunciato insieme al marito le proprie dimissioni da senior member della famiglia regale. «Megxit», l'hanno ribattezzata i media, dipingendo un quadro funesto, diametralmente opposto a quel che si evince dalla narrazione contenuta nella biografia della polemica, intitolata per l'Italia Libertà. Secondo i tabloid inglesi, feticcio di un popolo adorante, Meghan Markle sarebbe un'arrivista, un Bel-Ami, una strega. Avrebbe circuito Harry, debole per nascita e casualità, fino a convincerlo che fosse cosa buona e giusta dare il benservito alla regina Elisabetta II, rinunciando con ciò ad amici e passioni. Alla casa che negli anni ha costruito, all'esercito e alle armi, alla famiglia, alla caccia. Non, però, ai privilegi che un titolo nobiliare porta con sé. Meghan Markle e il principe Harry, all'indomani delle proprie dimissioni, hanno perso il diritto ad utilizzare il marchio di «Royals», ma non sono stati depauperati di titoli e privilegi. I due, duca e duchessa di Sussex, sono rimasti «altezze» della corona, padroni di una serie di case foraggiate con soldi dei contribuenti inglesi. Ciò cui hanno rinunciato, dimettendosi da senior member della famiglia reale, sono i doveri che la corona imporrebbe loro. Niente più uscite pubbliche, niente obbligo alla condivisione. La coppia si sarebbe liberata degli oneri tenendo per sé gli onori, e la Megxit avrebbe preso la piega di quel che Atlantic ha definito «una rivoluzione fittizia, una gigantesca ipocrisia». Meghan Markle, in tutta la Gran Bretagna, «è l'arrampicatrice sociale di maggior successo», ha scritto Tatler, il cui attacco all'attrice, unitamente all'acredine degli altri giornali, ha portato Harry ad una reazione. «Non continueremo ad essere vittime dello stesso bullismo che ha ucciso mia madre», ha dichiarato, con puntiglio, il fratello minore di William, dando adito e ragione a quel che i pro Meghan vanno sostenendo: che ci sia, cioè, un qualche rapporto di parentela tra l'ardore di Lady Diana Spencer e i capricci di Meghan Markle. Capricci che, nel libro in uscita per l'Italia il 27 agosto, hanno trovato la propria legittimazione. Di più, la sublimazione degli stessi in arte. Finding Freedom: Harry and Meghan and the making of a modern royal family, scritto a quattro mani dai giornalisti Omid Scobie e Carolyn Durand, ha voluto raccontare sotto forma di biografia cosa abbia portato i Sussex a dire addio alla corona. Nelle pagine del libro, tradotto in italiano con il solo titolo di Libertà, viene rifiutata duramente la versione dei tabloid britannici, di una fama di potere che la monarchia non avrebbe potuto né saputo saziare. Sarebbe stata la stampa a cacciare Meghan, bullizzandola e opprimendola. Sarebbe stato il silenzio omertoso della Regina a renderne necessario l'addio. E avrebbe pianto l'attrice, della quale la biografia fornisce un ritratto ai limiti della realtà. Finding Freedom, o Libertà che dir si voglia, non è la narrazione obiettiva di quel che può essere successo a Buckingham Palace, ma il tentativo smaccato e, a tratti, inutilmente smielato di eleggere a martire la coppia. Prometteva scandalo, ha ottenuto la derubricazione a giornaletto di partito. E a poco è valsa la foga di Omid Scobie, che a giurare l'estraneità dei Sussex alla pubblicazione si è dannato. Finding Freedom, sul quale lapidario è arrivato il giudizio del Guardian («Se Harry e Meghan hanno una storia da raccontare, non è quella scritta in questo libro»), è parso interamente pilotato dalla voglia di dirsi nel giusto, com'era stato nel 1993 il libro di Andrew Morton su Lady D. Allora, però, Internet non esisteva, e i dettagli intimi sulla vita della principessa del popolo un appeal lo avevano davvero. Di Harry e Meghan, invece, è già stato detto tutto e il contrario di tutto. E quel che resta, oggi, è un'unica certezza ineluttabile: erigere a diritto il proprio desiderio - di potere, di ricchezza, di più semplice notorietà - non è cosa che la corona possa permettere.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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