2023-01-09
I medici a gettone costano 200 euro l’ora e ingrassano solo le cooperative private
Dilaga il numero di dottori strapagati dati in affitto dalle coop agli ospedali che ne sono privi. Non importa se qualificati o no, basta coprire i turni. E il servizio sanitario rischia di crollare.Fabio De Iaco, presidente della Società di medicina d’urgenza: «I colleghi in prestito vanno e vengono mentre i problemi ricadono sui pochi dipendenti. C’è un business dei corsi di formazione che consente di saltare quelli ufficiali».Guido Quici, presidente del sindacato Cimo: «L’anarchia è assoluta. Le società spuntano ovunque senza doversi certificare».La denuncia del dottor Giulio Ricciuto, dell’ospedale di Ostia: «Nei pronto soccorso regionali ogni 90 secondi arriva un paziente, siamo di fronte a un vero caporalato».Lo speciale contiene quattro articoli.È uno dei tanti paradossi della sanità, sempre a corto di denaro, stretta d’assedio in ogni legge di bilancio ma alla fine costretta a pagare cifre esorbitanti per assicurarsi il personale. Il tutto senza regole e bandi di gara, in una giungla normativa in cui ogni ospedale è libero di fare ciò che vuole senza che nessuno gli chieda conto delle decisioni. È questa la situazione dei medici «a gettone», camici bianchi appaltati dalle cooperative alle strutture ospedaliere a costi anche tripli rispetto ai colleghi interni, con contratto regolare. Attorno a questo meccanismo, sdoganato dall’emergenza Covid ma che subito ha messo radici difficili ora da estirpare, è proliferato un giro d’affari importante. Cooperative sorgono come funghi e con il passaparola reclutano i medici allettandoli con facili e considerevoli guadagni. Nel loro bacino si trova di tutto, dal neolaureato allo specializzato con una carriera consolidata alle spalle ma stanco dei ritmi ospedalieri, dal pensionato che vuole arrotondare l’assegno mensile allo straniero a caccia di un impiego senza troppe barriere. Gli ospedali definiscono accordi sulla copertura dei turni scoperti, talvolta senza nemmeno passare per una gara o richiedere assicurazioni sulla specializzazione di chi andrà a coprire i buchi del personale insufficiente, nelle corsie o nel pronto soccorso. L’Azienda ospedaliera arriva a pagare alla cooperativa 1.400 euro per un turno notturno di un medico che in tasca ne metterà 1.000 per 12 ore di lavoro, senza esperienza e senza specializzazione. Ma il gettonista può percepire anche 200 euro l’ora, più del quadruplo degli omologhi assunti dall’ospedale. A queste cifre, un camice bianco con contratto ospedaliero può pensare seriamente di mollare il posto fisso. Anche perché le istituzioni continuano a far finta che nulla stia accadendo, nonostante i bilanci della sanità facciano acqua. L’esternalizzazione del lavoro medico è stato decretato illegale nel 2018, ma durante la pandemia, a causa delle condizioni di emergenza legate al Covid, si è derogato. A oggi, seppure l’emergenza sembri finita, il fenomeno dei medici a gettone persiste. In Piemonte e Toscana vi fa ricorso il 50% delle aziende ospedaliere, il 60% in Liguria e il 70% in Veneto.Secondo un sondaggio della federazione Cimo-Fesmed su un campione di 1.000 medici, quattro su dieci sono pronti a lasciare il posto fisso in ospedale per lavorare come gettonisti. Percentuali più alte risultano tra i più giovani (è disposto a lavorare per le coop il 50% di chi ha meno di 35 anni e il 45% dei dottori fra 36 e 45 anni). Se queste percentuali dovessero trasformarsi in dimissioni reali, ci ritroveremmo dinanzi al tramonto definitivo del Servizio sanitario nazionale.I gettonisti sono utilizzati soprattutto nei pronto soccorso, dove la carenza di personale è maggiore ma dove si richiede competenze e specializzazione. Due requisiti che le cooperative non si impegnano a garantire, dal momento che la natura all’accordo con gli ospedali è esclusivamente di coprire un certo numero di turni. Per chi arriva al pronto soccorso, l’assistenza è una scommessa al buio. Chi si occuperà dei propri cari? Un medico qualificato inserito nell’ospedale che ne conosce la macchina organizzativa, o un gettonista paracadutato magari senza esperienza e specializzazione?Spesso, come riferiscono i sindacati degli ospedalieri, i medici interni oltre a occuparsi dei pazienti devono fare da tutor ai nuovi arrivati, spiegare il coordinamento tra le strutture di emergenza e i reparti e l’uso dei sistemi informatici. Chi arriva per una notte non conosce le procedure. Siccome i camici bianchi delle coop gestiscono il proprio lavoro autonomamente, può accadere che facciano turni continuativi anche fino a 36 ore senza che nessuno abbia la facoltà di controllare. Questo è un fattore di rischio per i pazienti. Un prolungato orario di lavoro può portare a maggiori possibilità di commettere errori.Dal momento che sono «a chiamata», non possono garantire continuità nelle cure, quella che viene definita la «presa in carico del paziente» con diagnosi e terapie. Inoltre non dovendo fare i conti con la sostenibilità economica dell’azienda ospedaliera, poiché non sono dipendenti, possono ordinare anche controlli quali tac e analisi, che in condizioni diverse potrebbero essere evitati, aggravando così la spesa della struttura.Del fenomeno si sono occupati i Nas. Tra novembre e dicembre sono stati svolti controlli presso 1.934 strutture sanitarie, monitorando 637 imprese e cooperative private e verificando l’idoneità di oltre 11.600 figure tra medici (13%), infermieri (25%) e altre professioni sanitarie (62%) come operatori socioassistenziali, tecnici di laboratorio e figure similari. Sono emersi 165 operatori sanitari «a gettone» irregolari individuati in ospedali e Rsa di tutta la penisola. Tra questi, persone con più di 70 anni oppure privi della specializzazione richiesta, o ancora infermieri senza titoli o medici inseriti nei reparti di ostetricia e ginecologia senza avere la formazione per gestire i parti cesarei. I carabinieri hanno segnalato 205 persone, tra responsabili di cooperative, titolari di strutture sanitarie e operatori sanitari, di cui 83 all’autorità giudiziaria e 122 a quella Amministrativa. Sono stati anche deferiti 8 titolari di cooperative per l’ipotesi di reato di frode e inadempimento nelle pubbliche forniture. Sul fenomeno si è mossa anche l’Autorità anticorruzione, che ha sollecitato l’intervento del ministro della Salute e del Mef per definire un decreto ministeriale che faccia chiarezza sulla questione dei «gettonisti», e dia criteri di congruità dei prezzi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/medici-a-gettone-2659084957.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tanti-soldi-e-zero-responsabilita-e-la-fine-della-nostra-professione" data-post-id="2659084957" data-published-at="1673188934" data-use-pagination="False"> «Tanti soldi e zero responsabilità. È la fine della nostra professione» Fabio De Iaco «Dalle cooperative arriva di tutto, dall’ottimo professionista al neolaureato allo straniero che non conosce l’italiano. Ci sono stati segnalati casi di pensionati anziani che si addormentano durante il turno nel pronto soccorso o che si sentono male perché non sono più in grado di gestire la fatica. È una situazione di caos». Lo dice Fabio De Iaco, presidente della Società italiana di medicina dell’emergenza-urgenza (Simeu) e direttore del pronto soccorso dell’ospedale Maria Vittoria di Torino. Che cosa si chiede a un medico a gettone? «Il suo unico obiettivo è di arrivare a completare il turno senza errori e denunce. Non partecipa all’organizzazione necessaria nell’affrontare alcune patologie». Che intende? «A volte si richiede il coinvolgimento di diverse strutture. Faccio l’esempio dell’ictus. La sua gestione è plurispecialistica, riguarda procedure interne all’ospedale legate alla rapidità dell’intervento, ma anche esterne presso un centro di riferimento che può fornire un’assistenza di secondo livello. Come si trasmette questo a un medico che viene per qualche ora e poi se ne va? Tutto ricade sui pochi dipendenti che resistono e devono gestire i problemi maggiori. Ci sono sinergie che il medico a gettone ignora perché non è dentro la macchina organizzativa dell’ospedale». I medici che vengono dalle coop dovrebbero aiutare nell’emergenza invece vanno seguiti? «Proprio così. Spesso si pongono problemi nella gestione dei sistemi informatici. Chi arriva dall’esterno non sa come funzionano e quindi deve essere affiancato dal collega interno. Le prime ore si perdono nella formazione. Ricordo che il pronto soccorso non è una scuola, bisogna intervenire con tempestività e saper maneggiare tutti gli strumenti a disposizione, non si può impiegare il tempo a formare gli esterni». Oltre a fornire i medici, le coop si occupano anche della loro formazione? «Non solo. I corsi, dal costo di diverse migliaia di euro, sono propagandati su Internet come la chiave per accedere ai pronto soccorso negli ospedali. Come dire che chi fa il corso ha più possibilità di trovare un impiego anche se a ore. Ma come sappiamo, si tratta di un precariato remunerato a peso d’oro. Tant’è che tali corsi possono essere pagati a rate dal momento della chiamata in un ospedale. È una deriva pericolosa, significa consegnare la specializzazione a strutture non riconosciute e non qualificate. Stiamo di fatto delegando formazione e controllo a elementi privati per i quali non abbiamo neppure stabilito criteri di accreditamento». Come mai il direttore di un ospedale non chiede alla cooperativa la garanzia sulla specializzazione dei medici che questa fornisce? «L’ospedale seleziona la cooperativa ma non entra nel merito delle capacità dei medici. Anche se all’inizio del mese riceve l’elenco dei professionisti a gettone disponibili, spesso non c’è certezza su quale sarà la reale turnazione. D’altronde l’ospedale non può fare diversamente. Il direttore generale ha le cooperative come unica risorsa alla quale attingere una volta espletati i concorsi che vanno puntualmente deserti». Il posto sicuro in ospedale non attira più? «Il medico specializzato ha innumerevoli possibilità di impiego, pagate meglio del sistema pubblico. Oltre alle cooperative ci sono le strutture private che offrono ritmi di lavoro meno intensi e la possibilità di programmare la propria attività senza dover rispondere alle naturali esigenze di un reparto, nel quale le richieste di ogni singolo devono comunque adattarsi alla necessità di garantire il servizio. Un medico con specializzazione e con una buona preparazione preferisce il posto privato dove è pagato a prestazione». Dove sta andando il sistema ospedaliero? «Si va verso una liberalizzazione progressiva e selvaggia con lo smantellamento dell’impianto organizzativo e professionale. I direttori, invece di costruire percorsi e protocolli, garanti della qualità e del governo della struttura, sono costretti a impiegare il tempo ad assicurare la copertura dei turni e a rispondere alle proteste all’utenza. Spesso un primario che dovrebbe svolgere funzioni cruciali si trasforma in un turnista stressato assorbito da incombenze quali rispondere al telefono o alle mail. Prima il nostro obiettivo era la qualità della cura, oggi è semplicemente la sopravvivenza del servizio a ogni costo». Come si risolvono queste criticità? «Nessuno ha la bacchetta magica. Bisognerebbe cominciare con la valorizzazione professionale ed economica dei colleghi. Chi oggi entra in medicina d’urgenza sa che, solo in casi rari, potrà pensare a una progressione della carriera e che andrà quindi in pensione con la stessa qualifica con la quale è stato assunto. Avrà vissuto una vita di pesante stress psico-fisico non compensata da un vantaggio contrattuale o personale. L’unica vera soluzione passa attraverso la riorganizzazione generale del Ssn: un sistema efficace non può proiettare il massimo dello sforzo e delle criticità su un unico elemento. È un pericoloso errore: lo stress va distribuito su tutte le componenti. Il contrario di quel che accade oggi». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/medici-a-gettone-2659084957.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-sistema-era-vietato-ma-con-il-covid-tutto-e-tornato-lecito" data-post-id="2659084957" data-published-at="1673188934" data-use-pagination="False"> «Il sistema era vietato ma con il Covid tutto è tornato lecito» Guido Quici «In base a un nostro sondaggio, il 50% dei giovani medici ospedalieri under 35 vorrebbe andare a lavorare con le cooperative. E non posso dare loro torto dal momento che guadagnano di più di un contrattualizzato di un ospedale e hanno meno stress». Lo rivela il presidente del Cimo, storico sindacato dei medici, Guido Quici. Significa un forte disagio dei medici del Servizio sanitario nazionale che iniziano a vedere nelle coop l’unico mezzo per uscire da un sistema insopportabile. «Ma se queste percentuali dovessero trasformarsi in dimissioni reali, ci ritroveremmo dinanzi al tramonto definitivo del Servizio sanitario nazionale, svuotato di molte delle sue professionalità e affidato in buona parte a società private che nessuno regola né controlla». Il fenomeno è esploso con il Covid. Ora che dati avete? «Il fenomeno delle cooperative è in crescita esponenziale. Il nostro sindacato riceve continue segnalazioni. Sorgono sempre nuove società che operano senza riconoscimento delle istituzioni, attirate dai facili guadagni che acchiappano i medici servendosi semplicemente del passaparola. C’è un’anarchia assoluta. D’altronde il business è importante. Il medico gestito da una cooperativa guadagna oltre 120-150 euro l’ora lordi contro 45 euro l’ora del collega dipendente di un ospedale. Immaginando un 10% di ricarico per la coop, è facile intuire il giro d’affari che c’è dietro a questo meccanismo». Che cosa l’ha innescato? «Negli ultimi dieci anni sono stati tagliati 40.000 posti letto, il 43% dei primari e dei vice primari, portando all’appiattimento della carriera. Solo 16 medici su 100 hanno possibilità di migliorare la propria posizione. I tagli rientrano nella logica del risparmio. Se si toglie un primario a un reparto questo si trasforma in ambulatorio. Un primario presuppone infermieri e posti letto. La conseguenza di questo depauperamento è l’aumento della spesa dei cittadini nel privato che ha raggiunto 37 miliardi di euro». Non è un controsenso che gli ospedali per risparmiare prendano medici dalle cooperative, alla fine spendendo di più? «È il paradosso generato da quando i governi della sinistra hanno imposto un tetto alla spesa sul personale ospedaliero. Allora gli ospedali, non potendo assumere secondo il proprio fabbisogno, aggirano l’ostacolo e si rivolgono alle cooperative ma inserendo tale spese in bilancio alla voce “beni e servizi”. Usano il lavoro interinale fornito dalle coop anche se significa infrangere la legge». I medici a gettone quindi sono illegali? «Il lavoro interinale è vietato nella pubblica amministrazione quando i dipendenti pubblici sono dirigenti. Quindi le aziende ospedaliere non potrebbero prenderli. Ma l’ostacolo è aggirato facendoli rientrare nelle forniture di beni e servizi. Quando le coop stipulano le convenzioni con gli ospedali, il medico oltre a guadagnare di più sceglie l’orario che vuole. Può lavorare fino a 36 ore consecutive anche se è contro la normativa europea sulla sicurezza delle cure. Nessuno controlla. Chi ha tali ritmi per guadagnare di più è facile che possa commettere errori. Nei bilanci degli ospedali l’ammontare della spesa per le coop rientra nel calderone dei beni e servizi come le mense». Negli accordi con le coop, l’ospedale non si preoccupa di avere medici specializzati? «Gli ospedali devono coprire i turni e non vanno per il sottile. Le cooperative forniscono camici bianchi anche non specializzati e talvolta stranieri con scarsa dimestichezza con la lingua italiana, che si ritrovano a dover gestire le emergenze del pronto soccorso. Alcune aziende ospedaliere, invece di ricorrere alle coop, preferiscono spostare i medici da reparti che sono meno in sofferenza». Le cooperative come vengono scelte? «Spesso mediante procedura negoziata, alla quale partecipa un numero ridotto di operatori. I compensi sono particolarmente elevati per ciascun turno, anche se il criterio di scelta del contraente è quello del prezzo più basso». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/medici-a-gettone-2659084957.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="nel-lazio-manca-meta-personale" data-post-id="2659084957" data-published-at="1673188934" data-use-pagination="False"> «Nel Lazio manca metà personale» Giulio Maria Ricciuto «Speravamo che i medici delle Unità speciali di continuità assistenziale della Regione Lazio con contratto in scadenza, passata l’emergenza del Covid, sarebbero stati impiegati negli ospedali. Invece per il momento sono stati trasferiti in aeroporto a fare i tamponi ai passeggeri degli aerei provenienti dalla Cina». Giulio Maria Ricciuto, direttore del dipartimento di emergenza all’ospedale Grassi di Ostia e presidente della Simeu Lazio, la Società di medicina d’emergenza-urgenza, e descrive la situazione drammatica nella propria regione. «L’errore involontario maggiore della campagna vaccinale», aggiunge, è stato aver insegnato alle giovani generazioni a straguadagnare senza assumersi grandi responsabilità mediche, mentre chi era in pronto soccorso affogava nell’emergenza, affrontando il Covid senza gratificazioni». Come si può pensare, si interroga Ricciuto, che giovani laureati impiegati negli hub vaccinali ad almeno 40 euro l’ora siano ora disponibili a entrare in un pronto soccorso a stipendio è più basso con il triplo delle responsabilità? Nelle strutture di emergenza dilaga la frustrazione dei medici con regolare contratto. «Il personale mandato dalle cooperative non sa nulla dell’organizzazione dell’ospedale», spiega il numero uno della Simeu Lazio, «non conosce le sinergie tra i reparti, sicché il collega interno lo deve seguire passo passo, facendogli da tutor. Questo significa più lavoro e più responsabilità, perché finito l’orario il gettonista se ne va mentre il paziente resta in carico al medico dell’ospedale. Sarebbe meglio allora inserire gli specializzandi». Nel Lazio, ogni 90 secondi arriva in un pronto soccorso un paziente in codice 1 o 2. «Senza medici preparati», afferma Ricciuto, «che non possono essere i giovani freschi di laurea e nemmeno quelli con una specializzazione inadeguata, si muore». Così succede che talvolta si facciano scendere i colleghi dai reparti lasciando sguarnite le loro postazioni. Per Ricciuto l’unico lato positivo è che si è finalmente capito quanto valga una prestazione di un medico d’urgenza. Ma il rovescio della medaglia è che, «con l’intermediazione di personale effettuata dalle cooperative, siamo di fronte a un vero e proprio caporalato». La radice del fenomeno «sta nella mancata o disastrosa programmazione che i governi centrali e regionali hanno attuato e che hanno portato alla riduzione grave di medici in alcune discipline essenziali alla sanità specie pubblica, ancor più tragica fuori dal centro delle grandi città con vere desertificazioni». A ciò si arriva perché i concorsi non sono mirati ma generici e permessi a tutti e la gran parte sceglie strutture comode e centrali. «La situazione negli ospedali periferici è drammatica», racconta Ricciuto. «Negli ospedali del Lazio manca il 40-50% del personale e questa percentuale nelle periferie sfiora e talora oltrepassa il 70%. È evidente che per i concorsi c’è un errore di programmazione della Regione. Si favoriscono inevitabilmente alcuni ospedali centrali, anche se non so quanto consapevolmente. I nostri appelli sono cominciati nel 2009 con il primo “barella day”».
La nave Mediterranea nel porto di Trapani (Ansa)