2022-03-11
I media con l’elmetto attaccavano Zelensky e le milizie neonazi aiutate dall’Occidente
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Gli stessi giornali che definiscono il presidente ucraino un eroe stroncavano i suoi affari. E i finanziatori dei gruppi estremisti.Nelle ultime settimane l’informazione italiana si è blindata più di un autocarro russo, compattandosi a sostegno della causa ucraina e celebrando Volodymyr Zelensky come un eroe. Artiglieri progressisti e liberali con la spingarda s’affannano a stilare liste di putiniani immaginari, e si compiacciono nel puntare il dito contro i nuovi nemici interni, cioè tutti coloro che - per un verso o per l’altro - auspicano una risoluzione pacifica del conflitto, da attuarsi possibilmente con rapidità. È certo comprensibile la solidarietà verso la popolazione provata dalle bombe e dallo sfollamento, così come è difficile non empatizzare con chi lotta per la propria terra. Meno giustificabile è la rinuncia alla lucidità dell’analisi per una rinnovata forma di terzomondismo, per la fascinazione orientalista verso chi combatte contro l’orso russo.Un altro problema è costituito dal fatto che, nel cosiddetto Occidente, molti sono convinti che le guerre inizino quando loro se ne accorgono. Purtroppo, invece, quello a cui stiamo assistendo è il rovinoso approdo di uno scontro che si consuma da decenni, e che la stampa - internazionale ma pure italiana - negli anni ha effettivamente provato a raccontare. Leggendo alcuni degli articoli pubblicati dal 2014 a oggi da testate prestigiose emerge un quadro della situazione leggermente diverso dalla semplificazione manichea di queste ore. Un quadro che tanti forse non hanno mai voluto vedere, o che adesso scelgono consapevolmente di ignorare.Nel novembre del 2014, ad esempio, Maria Grazia Bruzzone della Stampa scriveva un ampio articolo, ancora reperibile online, intitolato «I neonazi imperversano in Ucraina, ma il nazismo non è più il “male assoluto” (per l’Occidente)». Nel pezzo si spiegava come, a un anno dalla rivolta di Maidan, «neonazisti in carne e ossa venissero non solo tollerati ma addirittura utilizzati, finanziati, premiati con cariche parlamentari, ministeriali e non solo». Il racconto della Bruzzone era senza fronzoli: «Fazioni di estrema destra ultranazionalista, con bandiere e chiari simboli neo-nazi, hanno giocato un ruolo decisivo nel “colpo di Stato” che ha rovesciato il presidente Viktor Yanukovich (corrotto quanto si vuole ma regolarmente eletto) e dato vita al governo di Arseniy Yatseniuk. Un copione scritto da tempo dal Dipartimento di Stato americano, è stato ampiamente provato, contro la volontà degli europei che con il presidente uscente avevano siglato un accordo, rinnegato il giorno seguente dopo i furiosi, oscuri scontri di piazza nella notte tra polizia e dimostranti fra i quali spiccavano le milizie del Settore destro (Pravy Sektor) e misteriosi cecchini, disordini che misero in fuga Yanukovich».Curioso che gli editorialisti di casa nostra, sempre in cerca di presunti nazisti da castigare, abbiano deciso di sorvolare su tali circostanze. Sempre la Bruzzone, molto informata, qualche tempo prima aveva ripreso un articolo del blog americano Zerohedge in cui si forniva un’inquietante lettura dell’escalation di tensione in Donbass e dintorni. Tale lettura, spiegava, «potrebbe fornire il capo di un filo conduttore, collegando l’offensiva lanciata dal governo di Kiev e il conseguente precipitare degli eventi, al “prestito” accordato all’Ucraina dal Fondo monetario internazionale la sera del 30 aprile, dopo molte tergiversazioni. Sette miliardi di dollari in due anni, una prima tranche tra il 5 e l’8 maggio e subito 3,2 miliardi per evitare l’imminente default». La sintesi di Zerohedge era al limite della brutalità: «Andate alla guerra contro le forze pro Russia (e contro la Russia stessa se Vladimir Putin vedesse i suoi compatrioti in difficoltà) o non avrete il vostro denaro».Che i giochini finanziari avessero un ruolo rilevante nelle faccende ucraine lo ha rilevato, sempre nel dicembre 2014, il Sole 24 Ore in un corposo articolo dal titolo sorprendente: «Se Soros e la finanza scelgono il governo dell’Ucraina» (pensate che accadrebbe qualora fosse pubblicata oggi una cosa del genere). L’autrice spiegava che l’esecutivo uscito dalla «rivoluzione della libertà» di Maidan «nasce da un processo di head hunting, la selezione è stata fatta da due società di selezione di personale Pedersen & partners e Korn Ferry che hanno individuato 185 potenziali candidati tra gli stranieri presenti a Kiev e tra i membri della comunità ucraina che lavorano in Canada, Stati Uniti e Regno Unito. […] L’iniziativa è stata sostenuta dalla Fondazione Renaissance, network di consulenza politica finanziato dall’uomo d’affari americano George Soros. […] Secondo il KyivPost - giornale che non è affatto ostile alle idee del magnate e a fine ottobre ha pubblicato un suo intervento «Wake up, Europe!» - Soros ha pagato 82.200 dollari per sostenere le due società coinvolte nella selezione di personale. Non sono notizie da sito complottista: lo scorso maggio lo stesso Soros ha detto a Fareed Zakaria della Cnn d’aver contribuito a rovesciare il regime filorusso per creare le condizioni di una democrazia filo occidentale».È suggestivo che oggi di queste lievi pressioni atlantiste non si ricordi più nessuno. In fondo, però, i media italiani si dimenticano pure di aver riportato con dovizia di particolari, ciò che accadde a Victoria Nuland, la moglie di quel Robert Kagan citato da Mario Draghi non molti giorni fa. La signora nel 2014, da vicesegretario di Stato, si trovò a gestire la partita ucraina (e ancora oggi gioca un ruolo da protagonista). Su Youtube fu pubblicato un audio di una sua conversazione con l’ambasciatore Usa in Ucraina, Geoffrey Pyatt. I due stavano discutendo «la possibilità di trovare un accordo tra il governo ucraino di Viktor Ianukovich e l’opposizione guidata dall’ex pugile Vitali Klitschko». Nella registrazione, la Nuland raccontava di aver contribuito a elaborare un piano per la gestione della pratica ucraina, senza però condividerlo con l’Unione europea. Poco dopo, la signora chiariva che cosa pensasse dei vertici europei: «Fuck the Eu», ovvero «L’Unione Europea si fotta». Roba vecchia, dirà qualcuno. Forse, ma utile a comprendere da dove origini l’attuale disastro, in cui molte parti hanno responsabilità. In ogni caso, ancora nel 2019 media liberal americani come The Nation o il Washington Post parlavano di «episodi di erosione delle libertà fondamentali» in Ucraina e di «glorificazione dei collaborazionisti nazisti promossa dallo Stato». Molto recenti sono anche le analisi diciamo «problematiche» sull’attuale idolo Zelensky. Nel 2021 l’Espresso raccontava come il suo nome comparisse nei Pandora Papers, che svelavano «i tesori nei paradisi fiscali» di Vip e politici. Zelensky, raccontava il settimanale, «ha posseduto segretamente per anni, tramite una società offshore, un’azienda di produzione e distribuzione di film e programmi tv. Nel marzo 2019 ha ceduto le sue azioni a un amico, Sergiy Shefir, che dopo il successo elettorale è stato nominato da Zelensky primo consigliere pubblico della presidenza ucraina. Il 22 settembre scorso Shefir è sfuggito a un misterioso tentativo di omicidio: un commando armato ha ferito il suo autista». Sempre nel 2021, in marzo, Marta Morini scriveva su Domani che «i dati di Reporters without borders evidenziano che nel 2020 l’Ucraina occupa la posizione numero 96 su 180 Paesi con 229 casi di violazione della libertà di parola. Come il suo predecessore, Zelensky nega l’accreditamento ai giornalisti considerati filorussi in nome di un giornalismo patriottico che si traduce in acquiescenza nei confronti del presidente. Ne è un esempio la giornalista Aljona Rerezovskaja, che è stata indagata dai servizi di sicurezza per aver chiesto al capo del partito di opposizione Vladimir Medvedchuk se per caso fosse meglio per l’Ucraina «unirsi alla Russia». Nello stesso anno, il sito del Giornale raccontava invece che Time «sarebbe venuto in possesso di informazioni relative ad un maxi piano di espansione in Ucraina dell’Academi, la più nota compagnia militare privata degli Stati Uniti, altresì nota al volgo con il suo nome di battesimo poi caduto in disuso: Blackwater».Niente di strano: in tanti, nel tempo, hanno sfoderato retroscena e parlato di Zelensky come di un presidente in crisi di consensi, incapace di mantenere le promesse e di dare slancio all’economia, pronto a giocare la carta del nazionalismo spinto in chiave antirussa e ad alzare il livello dello scontro nel Donbass al fine di spingere Usa e Europa a schierarsi dalla sua parte. Poi, certo, sono arrivate la guerra e la chiamata alle armi, e le sfumature di grigio sono state risucchiate dalla divisione fra bianco e nero. Che è meno realistica ma più comoda.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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