2021-08-29
Maxi studio sui farmaci: qualcuno lo legga
Un gigantesco lavoro della casa editrice di «Lancet» comprova la bontà dei trattamenti con farmaci nei soggetti infetti più a rischio: l'ospedalizzazione crolla. Eppure la maggioranza della comunità scientifica sostiene il dogma per cui l'unica strada sia il vaccino.La casa editrice Elsevier, con sede ad Amsterdam, è uno dei titani della pubblicazione scientifica (altri sono Springer e Wiley). Il modello aziendale di questi immensi conglomerati (Elsevier è presente in 24 Paesi e ha oltre 7.000 dipendenti) è l'equivalente di stampare soldi in cantina: gli autori prestano il loro lavoro gratis (e anzi sono contenti di farlo, perché così fanno carriera), i direttori delle varie riviste ricevono spesso compensi solo nominali, la produzione è appaltata fuori dall'Europa, là dove la manodopera si paga poco, e il risultato viene venduto a carissimo prezzo alle biblioteche universitarie, che non possono permettersi di rimanere fuori dal giro senza perdere in reputazione. Tenete conto che un solo capitolo del mio ultimo libro in inglese, pubblicato da Springer, costa in versione digitale 30 dollari; e io faccio filosofia, non fisica o medicina, dove i costi sono davvero astronomici. Al di là delle polemiche (giustificate), Elsevier è comunque il maggiore editore mondiale di riviste medico-scientifiche; pubblica, per esempio, The Lancet. Dal gennaio 2020, investendo evidentemente sulla sua immagine, ha aperto un centro di risorse Covid-19 nel quale mette a disposizione gratuita vari materiali relativi alla cosiddetta pandemia. E in questo centro (virtuale) è comparso il 5 giugno scorso uno studio firmato da 12 medici di fama, fra cui le vecchie conoscenze (per chi mi legge) Peter McCullough (del Baylor University Medical Center, a Dallas) e George Fareed (di Brawley, California). Fra gli altri illustri autori Paul Alexander (della McMaster University di Ontario, Canada) e Harvey Risch (di Yale). Titolo: Early multidrug treatment of Sars-CoV-2 infection (Covid-19) and reduced mortality among nursing home (or outpatient/ambulatory) residents. È un tema del quale si è già ampiamente parlato, su questo e altri giornali, anche da parte mia, ma vale la pena di riconsiderarlo alla luce di uno studio comparso in una sede di tale prestigio. Lo studio è una minuziosa rassegna di altri studi (è un metastudio) sul tema del trattamento precoce del Covid-19 nei pazienti a più alto rischio: gli anziani nelle case di riposo, spesso gravati da obesità e altri problemi di salute. Avendo visionato tutta la letteratura sul tema, gli autori selezionano nove studi come particolarmente significativi: due spagnoli, uno belga, uno olandese, uno francese, uno italiano e tre statunitensi (uno dell'Indiana e due di New York). Risultato: «Regimi con cocktail di medicine (multidrug) basati sull'idrossiclorochina erano associati a una riduzione della mortalità statisticamente significativa superiore al 60%». Conclusione: «Crediamo non sia possibile sopravvalutare la filosofia che, poiché un trattamento precoce nelle case di riposo con medicine già disponibili è associato a un'ampia riduzione della mortalità fra i residenti, non ci possono essere ragioni scientificamente valide né un fondamento morale per non utilizzare queste forme di trattamento. Noi stiamo cercando di evitare le ospedalizzazioni e salvare vite e crediamo fortemente che questo approccio possa avere un impatto e meriti seria considerazione. […] Fare altrimenti è tradire i nostri pazienti». Fin qui i medici, ed è inutile dire che sono d'accordo. Ma la questione ha anche un aspetto puramente logico, che si richiama dunque alla mia specificità di studioso. Le terapie geniche sperimentali che vanno sotto l'impropria denominazione di vaccini sono state approvate con procedura abbreviata perché la situazione è, si dice, di emergenza. A fronte della loro discutibile efficacia e dei loro gravi effetti collaterali, si insiste che non ci sono alternative: che è o questo o la morte (parole testuali del nostro fearless leader). Per poter dire questo, però, è necessario dimostrare che non ci sono alternative; e, quando si dimostra invece che le alternative ci sono, e che sono più efficaci e sicure dei «vaccini», si risponde che non è detto, che bisogna fare altre ricerche, altri esperimenti, che forse non funziona, che forse ci sono problemi. Ma, insomma, siamo o non siamo in condizioni di emergenza? Io direi di no; ma chi fa la propaganda ai «vaccini» risponde sì, è l'unico barlume di credibilità che può offrire. E allora, se siamo in condizioni di emergenza, e se vale la pena di accettare i rischi dei «vaccini» perché siamo in tali condizioni, non vale lo stesso anche per altre terapie? Quali sono, per citare ancora una volta lo studio da cui sono partito, le ragioni scientificamente valide o il fondamento morale per non farlo? Si è temporaneamente (o permanentemente) sospeso il principio di identità? C'è un senso profondo nella frase «il sonno della ragione genera mostri», che io stesso ho usato. Ha origine in un'acquaforte di Francisco Goya realizzata nel 1797 e viene solitamente intesa come un avvertimento che, se abbandoniamo la nostra qualifica di esseri razionali, causeremo e soffriremo mostruosità. Nel delirio di questi anni pandemici mi è capitato spesso di pensare, però, che la frase andrebbe anche invertita. È anche vero, infatti, che i mostri generano il sonno della ragione. Come è possibile, mi chiedo, che auguste organizzazioni internazionali, celebrati specialisti, politici e intellettuali non siano in grado di eseguire il semplice ragionamento che ho delineato qui sopra? Il loro cervello ha incontrato un improvviso, globale, tenace blackout? Oppure sono dei mostri a tenerlo spento? E chi potrebbero essere, i mostri?
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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