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2018-05-10
A parole è già nato il governo Lega-M5s
ANSA
«Un premier donna sarebbe un bel segnale». Dallo staff del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la considerazione è stata trasmessa sia a Matteo Salvini che a Luigi Di Maio. I quali, entrambi, hanno compreso al volo quale soluzione, secondo il Colle, sarebbe in grado di chiudere nel migliore dei modi l'ennesima triangolazione tra M5s, Lega e Forza Italia. La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, avrebbe le caratteristiche ideali per sigillare il patto tra Salvini, Di Maio e Silvio Berlusconi: è di Forza Italia, ma è stata votata anche dai 5 stelle e verrebbe considerata una scelta «istituzionale» e «terza» tra leghisti e grillini; sarebbe la prima donna premier in Italia; consentirebbe a Berlusconi di votare la fiducia all'esecutivo, pur in assenza di ministri «forzisti»; libererebbe la carica di presidente del Senato per un leghista.
Il suggerimento, però, è stato lasciato cadere: Di Maio farebbe fatica a far digerire ai suoi un presidente del Consiglio di Forza Italia, mentre Salvini accarezza l'idea di un premier leghista (Giancarlo Giorgetti, gradito al capo dello Stato ma fino a un certo punto, visto che fu lui a ventilare «tentazioni secessionistiche» nel caso di un accordo Pd-M5s).
In ogni caso, la giornata di ieri, per Sergio Mattarella, è stata densissima di contatti. In mattinata, il capo dello Stato ha ricordato le vittime del terrorismo in occasione della Giornata delle memoria al Quirinale. Già martedì sera, al Colle erano arrivati segnali da Di Maio e Salvini, che chiedevano tempo per chiudere l'accordo. Alle 13 e 30, dal Quirinale è stato diramato un comunicato stampa: «M5s e Lega», recitava la nota, «hanno informato la presidenza della Repubblica che è in corso un confronto per pervenire ad un possibile accordo di governo e che per sviluppare questo confronto hanno bisogno di 24 ore».
Il governo «neutrale», può restare in freezer ancora un po', perché in fondo il risultato a casa lo ha portato. Senza la accelerazione impressa con l'annuncio dell'imminente nomina di premier e ministri «neutrali», e del conseguente voto anticipato a luglio o ottobre, Silvio Berlusconi non sarebbe stato sottoposto al vero e proprio «assedio» che ieri ha subito da parte di deputati e senatori terrorizzati dalla prospettiva di non essere rieletti e di consiglieri come Fedele Confalonieri e Gianni Letta, convinti, come la figlia Marina, della necessità di chiudere l'accordo con Di Maio e Salvini chiedendo il massimo possibile in termini di contropartite «politiche».
Mattarella, se l'accordo tra Lega, M5s e Berlusconi oggi sarà definitivamente siglato, si darà da fare per indirizzare il governo legastellato nei binari a lui cari: continuità in politica estera ed economica, rapporti saldi con Bruxelles. Giorgetti premier? Il Colle non potrebbe mai dire «no», ma fino a ieri sera l'ipotesi che il M5s possa concedere lo scranno più alto di Palazzo Chigi alla Lega (seconda forza della maggioranza) sembrava assai remota. Anzi: la casella ancora da riempire, nel puzzle governativo legastellato, era ancora proprio quella del presidente del Consiglio.
Una lacuna che il Quirinale potrebbe aiutare a colmare, suggerendo lui stesso un nome (circolava ieri quello dell'ex presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, gradito ai 5 stelle).
Più debole si dimostrerà l'accordo tra Di Maio e Salvini, più forte sarà la facoltà del presidente della Repubblica di indirizzare le scelte dei «ragazzi». Debolezza che aumenterà a dismisura se Forza Italia si schiererà alla opposizione, pur garantendo a Salvini la tenuta della coalizione nelle regioni e nelle città, dando così vita a un nuovo bipolarismo a livello nazionale, con Lega e M5s da un lato e Pd e Forza Italia dall'altro.
L'importante, per il Quirinale, è che il ministero degli Esteri e quello della Difesa vadano al M5s o a figure terze, ma mai alla Lega. Luigi Di Maio, che a Washington, a Berlino e in alcuni circoli assai riservati ma che contano, considerano affidabile in quanto estremamente malleabile, è in pole.
Il Colle, inoltre, chiede che il ministero dell'Economia venga assegnato a una figura «autorevole», con ottimi rapporti con Bruxelles e che non intenda sforare i vincoli europei. Mattarella auspica inoltre che il ministero della Coesione territoriale sia affidato a un big e non a un dirigente politico di secondo piano.
Il capo dello Stato chiederà anche esplicitamente a Di Maio quale sia la posizione del Movimento rispetto alle ultime uscite pubbliche del «garante» Beppe Grillo, in particolare quella sul referendum sull'euro. Mattarella, infine, se anche questo estremo tentativo di accordo tra Salvini e Di Maio dovesse clamorosamente saltare, si ritroverebbe con la strada spianata per varare il suo governo «neutrale». Oggi attenderà novità da Fiesole dove partecipa a «The state of the Union», l'evento organizzato dall'Istituto universitario europeo. Appuntamento al quale parteciperanno anche il presidente della Bce Mario Draghi e il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Dopo una tappa a Palermo, il rientro del presidente a Roma è previsto per domani pomeriggio. La dead line è fissata allora.
Berlusconi convinto dalla formula di Toti
«Benevolenza critica, what else?». È un omaggio alle convergenze parallele nei 40 anni della morte di Aldo Moro, ma anche un riconoscimento alla raffinatezza politica di Giovanni Toti che ha inventato una formula bizantina per sbloccare l'ingorgo istituzionale più congestionato degli ultimi decenni. Un colpo di tacco a sorpresa in grado di far eventualmente decollare il fidanzamento fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Al culmine dei due giorni più lunghi nella storia di Forza Italia, è il governatore della Liguria a trovare la soluzione. E a proporre a Silvio Berlusconi qualcosa che non sia un appoggio esterno (posizione per lui insostenibile) e neppure le elezioni, parola che in questo momento fa correre i brividi lungo la schiena del Cavaliere al pari dell'altra, Vivendi. «Il tema vero è che la Lega e i 5 stelle hanno i voti per insediare un governo e fare un accordo politico, a cui Forza Italia non parteciperà con un appoggio esterno», spiega prima a Berlusconi a Palazzo Grazioli - dove il quartiere generale si è trasferito da Arcore per vivere le giornate decisive -, e poi a Radio 1. «Il che non vuol dire che, dopo sei settimane di stallo del Paese, non si possa guardare a questa esperienza di un nostro socio strutturale da 20 anni, con una benevolenza critica».
Poi Toti approfondisce. «Consiste in una visione pragmatica e al tempo stesso benevola rispetto ai tentativi di formare il governo. È impossibile per Forza Italia condividere alcuni obiettivi dei 5 stelle e al tempo stesso anche l'atteggiamento politico e il grado di rispetto delle regole democratiche. Ma in ogni caso un governo che vedesse coinvolto un nostro alleato importante come la Lega e il candidato premier della coalizione Salvini, non potrebbe che avere da parte nostra una benevola attenzione. Non significa appoggio esterno coordinato e neppure una pregiudiziale ostilità, ma significa consentire la partenza di un'esperienza di governo che valuteremo caso per caso con attenzione al programma che abbiamo presentato agli elettori».
Bingo. Il ragionamento piace, comincia a fare breccia, e non poteva che arrivare da un sincero sostenitore dell'alleanza sempre più stretta con la Lega, quella «sintonia oltre le differenze» alla base del successo del modello Liguria. Per questa sua linea, subito dopo l'esito del 4 marzo, Toti era stato accusato d'essere un «collaborazionista» dai colonnelli del partito. Ma ha saputo tenere duro e far rimangiare a tutti l'insinuazione di «averci venduti alla Lega». Era solo lungimiranza. Era solo consapevolezza che una nuova era politica stava nascendo.
La benevolenza critica si esprimerà con l'uscita dall'aula di Forza Italia il giorno della fiducia e l'analisi di volta in volta dei provvedimenti da votare. All'interno del partito viene definita «un'opposizione selettiva», anche se difficilmente i nuovi responsabili faranno saltare il banco. La brillante trovata di ispirazione dorotea l'aspettavano in molti, come la pioggia nel Sahara. I parlamentari azzurri, terrorizzati di dover tornare alle urne con la concreta possibilità di finire dimezzati; gli storici consiglieri di Berlusconi, come Fedele Confalonieri e l'ascoltatissima figlia Marina, che da due giorni accerchiavano il leader per indurlo a uscire dalla tenda di Achille nella quale si era rintanato col broncio; lo stesso Cavaliere, finito all'angolo con i suoi ripetuti no e impossibilitato a sostenere l'unico esecutivo di salvaguardia per lui, il governo del presidente, dopo l'aut-aut di Giancarlo Giorgetti: «Se lo vota salta l'alleanza».
Anche due esperti navigatori sempre molto vicini al leader, come Paolo Romani e Renato Brunetta, sono pronti a far partire l'avventura. Romani offre una benedizione non convinta: «Forse vale la pena che si sperimenti un governo giallo-verde, vediamo cosa può offrire...». E se lo dice chi è stato bruciato, alla presidenza del Senato, dal primo accordo Lega-5 stelle che ha prodotto Elisabetta Casellati, è significativo. Brunetta ricorda un precedente decisivo: «Se vogliono fare il governo, lo facciano. L'alleanza con la Lega resta perché per noi è un grande valore, ma nessuno ci può chiedere di più. Del resto anche nel 2011 e nel 2013 la Lega non votò per i governi di Mario Monti ed Enrico Letta (sostenuti da Forza Italia), ma l'alleanza rimase».
L'ultimo gran visir da convincere è Gianni Letta, da sempre fautore di un esecutivo pilotato da Sergio Mattarella, sommamente diffidente nei confronti dei 5 stelle e per nulla tenero con Salvini, accusato di tradimento quando è corso a concordare le elezioni con Di Maio per fare pressioni sull'alleato. Nella pancia del partito non tutto è ancora risolto e lo stesso Berlusconi vorrebbe avere rassicurazioni sia sul nome del premier (la soluzione più apprezzata sarebbe Giorgetti, anche se il Quirinale spinge per il presidente Istat Enrico Giovannini), sia sulla reale volontà di Di Maio di concedergli un sottosegretario allo Sviluppo economico, posti chiave nelle tre commissioni permanenti e la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. La «roba» ha sempre un suo valore. E anche il Milan finalista di Coppa Italia, che gli consente una piccola pausa nel travaglio di ieri. Altro conforto al rovello del Cav, la compagnia fisica della primogenita Marina, che gli è stata vicina per tutto il giorno. Al termine del quale, alle 21, Berlusconi decide di parlare. In un comunicato, dopo una stilettata a Mattarella, «che non ha acconsentito a un governo di centrodestra che avrebbe trovato i voti i Parlamento», il Cavaliere sostiene l'impossibilità di Fi governare con i grillini ma «se un'altra forza politica della coalizione di centrodestra ritiene di assumersi la responsabilità di creare un governo con i 5 stelle, prendiamo atto con rispetto della scelta. Non sta certo a noi porre veti o pregiudiziali». Il Cav conferma che Fi non voterà la fiducia all'esecutivo giallo-verde ma che «ne valuteremo in modo sereno e senza pregiudizi l'operato sostenendo lealmente i provvedimenti che siano in linea con il programma del centro-destra». Ecco lo scarto di lato. Che ha un corollario: «Se invece questo governo non potesse nascere, nessuno potrà usarci come alibi di fronte all'incapacità - o all'impossibilità oggettiva - di trovare accordi fra forze politiche molto diverse».
Giorgio Gandola
Le garanzie domandate a Casaleggio su tv, conflitto di interessi e Agcom
Bisogna trattare bene ogni singolo punto, perché se questo governo con la Lega nasce, poi deve durare cinque anni. E il punto più delicato, in partenza, riguarda le concessioni da fare a Silvio Berlusconi per la «non sfiducia» o «la sfiducia di bandiera» (la prima volta e poi basta). Mentre inizia l'ultimo rush di trattative per il governo Salvini-Di Maio, il Movimento 5 stelle si trova ancora una volta a che fare con il fattore «S». «S» come Silvio, il convitato neppure troppo di pietra di questo esecutivo politico, con il quale le due forze che si definivano «anti sistema» tentano di evitare la trappola di un ennesimo governo tecnico.
La prima reazione, quando si chiede ai 5 stelle della trattativa con il Cavaliere, è quasi di negarla. «Il problema di Berlusconi per noi non esiste, perché i numeri del governo con i leghisti sono blindati», osserva un esponente di vertice. Il ragionamento che ha fatto anche Luigi Di Maio con i suoi, del resto, è semplice: «Salvini ha solo bisogno di non passare per traditore dell'alleanza di centrodestra» e quindi la trattativa con Arcore la sta facendo lui. Sarà, ma è il segreto di Pulcinella che tanto Berlusconi quanto Davide Casaleggio e Beppe Grillo abbiano messo dei paletti e che Salvini sia impegnato in una mediazione faticosa.
A parlare con i grillini più informati, quelli che hanno avuto modo di confrontarsi anche con i vari Paolo Romani, Anna Maria Bernini e Renato Brunetta, viene fuori che Forza Italia avrebbe chiesto un paio di ministri e le consuete garanzie su Mediaset, con l'abbandono assoluto della promessa di fare una nuova legge sul conflitto d'interessi. Si tratta di un «pacchetto» più ricco e composito di quanto si possa immaginare. Ma il programma elettorale dei 5 stelle sembra fatto apposta per far sbiancare il «Cavaliere mascarato», come lo chiamava Beppe Grillo: abolizione delle Authority; tetto azionario del 10% massimo per il possesso di ogni singolo canale televisivo nazionale; frequenze tv da riassegnare con apposita asta pubblica ogni cinque anni; tetto del 10% anche per il possesso di giornali nazionali; vendita di due canali Rai e un solo canale pubblico senza pubblicità; abolizione secca della legge Gasparri; tetto nazionale massimo del 5% per la raccolta pubblicitaria da parte di una singola società.
Tanto per capire la portata della minaccia di un governo con dentro i 5 stelle per il Biscione, Publitalia nel 2017 aveva una quota di mercato del 38% e la Fininvest è ben oltre i limiti antitrust sognati da Di Maio e compagni. E allora Forza Italia ha chiesto, e pare anche già ottenuto, che «tutte le chiacchiere sul conflitto d'interessi vadano in soffitta e che la Gasparri non si tocchi». Non solo, ma alla luce della battaglia con Vincent Bollorè e la sua Vivendi, dove il governo Gentiloni e il Pd si sono sempre schierati con Mediaset e contro il finanziere bretone, Berlusconi avrebbe chiesto a leghisti e grillini di avere persone di fiducia in Consob, Antitrust, Agenzia delle Comunicazioni, Autorità garante della privacy. Tutte caselle strategiche e che possono spostare miliardi di euro con un semplice provvedimento che al grande pubblico passa totalmente inosservato.
La risposta dei 5 stelle è ancora tutta da pesare, come sanno Fedele Confalonieri e Gianni Letta, che hanno fatto arrivare le loro richieste con la massima discrezione anche a Davide Casaleggio. Sicuramente su Telecom e Mediaset, la posizione dominante in M5s è che «con tutta la buona volontà, è davvero impossibile schierarsi con i francesi, che hanno avuto un atteggiamento predatorio». E sulle televisioni, anche per Grillo è già abbastanza chiaro che lo stesso Salvini non andrebbe a fondo sul conflitto d'interessi e si accontenterebbe di occupare le caselle di rito in Viale Mazzini. Una pratica, quella della lottizzazione, che per inciso potrebbe sedurre in tempi rapidi anche M5s. «Noi spingeremo per la fibra ottica ovunque, per il 5G e per tutto ciò che modernizza il Paese», spiega un esperto di tlc del Movimento. Come a dire che a superare il conflitto d'interessi berlusconiano non sarà una nuova legge antitrust, ma il progresso stesso e il cambio delle abitudini dei cittadini internettiani.
Più tosta la trattativa su un tema come la giustizia. Al solo sentire circolare il nome dell'avvocato forzista Bernini come ministro di Giustizia, Di Maio si è irrigidito e ha ricordato che in via Arenula vuole il fedelissimo Alfredo Bonafede. Però è interessante l'apertura su due ministri ufficialmente di Forza Italia e la chiusura a soluzioni «un po' ipocrite» come personaggi «di area». Anche se poi Berlusconi sa che alcune Authority, e alcune deleghe ministeriali, valgono più di un ministero.
D'altronde i 5 stelle restano con la guardia alta e anche se accetteranno il via libera di Forza Italia si metteranno di traverso su ogni mossa che odori di Nazzareno 2. Ieri sera, per esempio, un gruppo di senatori guidati da Daniele Pesco, Elio Lannutti, Paola Taverna e Vito Crimi ha presentato una micidiale interrogazione parlamentare sul nuovo presidente della Consob, Mario Nava, designato prima di Natale con un accordo tra Pd e Forza Italia. Gli si rinfaccia di non aver sciolto il nodo del doppio incarico in Europa e di voler addirittura «raddoppiare» la presunta incompatibilità portandosi da Bruxelles la sua assistente personale.
Francesco Bonazzi
Premier e liste dei ministri: prove di spartizione Lega-M5s
Tutto si capirà nella notte, dopo che il segretario della Lega Matteo Salvini avrà incontrato il leader pentastellato Luigi Di Maio e soprattutto il fondatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Ma già ieri, dopo le prime aperture da parte del governatore ligure forzista Giovanni Toti a un governo gialloverde («Un'astensione benevola»), tra centrodestra e M5s sono iniziate le trattative sulla formazione dell'esecutivo, con il classico totonomi per ministri, viceministri e sottosegretari.
La trattativa è serrata, potrebbe non andare neppure in porto, ma un paio di suggestioni stanno già iniziando a emergere a microfoni spenti e nei conciliaboli di leghisti, pentastellati, esponenti di Fratelli D'Italia e degli stessi azzurri. L'incastro non è facile, bisognerà capire per esempio come Berlusconi (non) legittimerà il governo e come ne farà parte. Per questo motivo è il «non ruolo» di Forza Italia quello che al momento appare più complicato. Non solo. Non è ancora chiaro il nome del possibile presidente del Consiglio e si discute anche su quanto durerà l'esecutivo, se sarà a tempo - per fare la legge elettorale, mettere mano alla finanziaria e dare una stretta sul fronte immigrazione - oppure di lunga permanenza. Proprio sulla durata si gioca il ruolo di Salvini e Di Maio. Il primo è dato come ministro degli Interni, ma in via Bellerio c'è chi sostiene che il segretario possa restarne fuori per poi ricandidarsi a premier nel 2019 in caso di nuove elezioni. Il secondo, invece, potrebbe essere vicepresidente del Consiglio o anche ministro degli Esteri, in modo da avere un ruolo attivo nel tanto acclamato «governo del cambiamento».
Lo scoglio Forza Italia e Berlusconi non è facile da superare. O meglio, qualcuno dalle parti di Arcore e di palazzo Grazioli avrebbe già trovato lo schema. In pratica tre ministri di area e storicamente vicini (o comunque non nemici), nei ruoli di ministro della Giustizia, dell'Economia e dello Sviluppo economico potrebbero andare bene a Berlusconi. Se da un lato il Cavaliere non voterà la fiducia - magari approvando leggi caso per caso, come ha spiegato il Senatùr Umberto Bossi - dall'altro potrebbe comunque continuare a seguire gli aspetti che più gli stanno a cuore, tra giustizia e aziende. Come Guardasigilli il nome forte che circola in queste ore è quello di Giulia Bongiorno, storico avvocato di Giulio Andreotti, il suo profilo era già emerso nelle scorse settimane come possibile presidente del Consiglio di un esecutivo gialloverde. Candidata con la Lega, ha avuto in passato qualche attrito con il leader di Forza Italia, in particolare durante il quarto governo, tra il 2008 e il 2011: smontava tutte le leggi ad personam che i forzisti cercavano di far passare in Parlamento. Ma è comunque un avvocato «con cui si può parlare», si ragiona in Forza Italia.
Allo Sviluppo economico, il Mise, invece viene dato per quasi sicuro Carlo Sangalli, storico presidente di Confcommercio, già deputato della Dc, amico e conoscitore di tutto il tessuto economico politico italiano, in particolare quello del Nord. Di Maio lo conosce bene, i due si sono incontrati il 14 marzo scorso a Milano. Per l'Economia il gioco a incastri è molto delicato. E a quanto pare da questo dicastero dipende la poltrona di presidente del Consiglio. Ieri pomeriggio è iniziato a circolare il nome, come possibile premier, di Enrico Giovannini, già presidente dell'Istat, ex ministro del governo di Enrico Letta, autore della prefazione al libro Presi per il Pil dell'economista grillino Lorenzo Fioramonti. Giovannini sarebbe una soluzione gradita al Quirinale che potrebbe liberare la casella di via XX Settembre. Qui c'è chi sostiene che possa arrivare Giancarlo Giorgetti, il capogruppo alla Camera della Lega, a cui sempre Bossi affiderebbe il ruolo di numero uno di palazzo Chigi. Di sicuro Giorgetti, da ministro dell'Economia, dovrà avere un vice del Movimento 5 stelle, come per esempio Andrea Roventini, che fu proposto nella lista dei ministri che Di Maio aveva presentato prima delle elezioni. Il capitolo Mef non è semplice da districare, c'è chi dice che un posticino potrebbe ritagliarselo anche Alberto Bagnai, economista di casa Lega da sempre critico nei confronti delle imposizioni economiche di Bruxelles.
A quanto si apprende in ambienti grillini gli uomini di cui il leader pentastellato non potrà fare a meno sono Alfonso Bonafede, che era dato alla Giustizia, Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento) ed Emanuela Dal Re agli Esteri. Allo stesso tempo si parla anche di incarichi di prestigio per Stefano Buffagni, l'uomo delle nomine, e per lo stesso Fioramonti. All'Ambiente è dato per certo il generale dei carabinieri Sergio Costa, che fu comandante regionale in Campania del Corpo forestale dello Stato, in prima linea nelle indagini sulla Terra dei fuochi. Complesse le altre caselle da riempire, anche perché si vocifera che la Lega potrebbe voler ricreare un ministero per Autonomia e federalismo. Non solo. Su Sanità, Cultura e Istruzione, Trasporti ci sarà da discutere. Così come sull'Agricoltura, dicastero caro ai leghisti. E anche qui Salvini potrebbe far sentire la sua voce, magari proponendo i nomi di Nicola Molteni, Barbara Saltamartini o il giovane Alessandro Morelli. Tra i capitoli più intricati c'è quello della Difesa. Molto dipenderà da quale sarà il ruolo di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. A quanto pare su Fdi ci sarebbe stato un mezzo veto di Di Maio, durante le consultazioni. Ma ora sarebbe arrivata luce verde. E per la Difesa il nome forte che circola è quello di Guido Crosetto, già sottosegretario. Qui Di Maio aveva proposto Elisabetta Trenta, ma per far partire un governo bisogna pur rinunciare a qualcosa. Anche i grillini lo hanno capito.
Alessandro Da Rold
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Altre 24 ore per l'esecutivo politico, ma i paletti del Quirinale sono già pronti. Un moderato a via XX settembre e Carroccio via dalla Difesa. Dopo una giornata di passione, con la figlia Marina al fianco, il Cav cede alla «benevolenza critica» suggerita dal governatore In serata il comunicato: no alla fiducia, ma nessun veto all'intesa tra grillini e leghisti. L'«opposizione selettiva» tiene in vita la coalizione. La trattativa per sbloccare l'accordo con i grillini passa dalle rassicurazioni sugli interessi di MediasetMatteo Salvini, propenso a evitare Palazzo Chigi, vorrebbe Giancarlo Giorgetti all'Economia. Opzione Esteri per Luigi Di Maio. Guardasigilli: Giulia Bongiorno andrebbe bene al Cavaliere. Un posto anche per Fdi.Lo speciale contiene quattro articoli. «Un premier donna sarebbe un bel segnale». Dallo staff del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la considerazione è stata trasmessa sia a Matteo Salvini che a Luigi Di Maio. I quali, entrambi, hanno compreso al volo quale soluzione, secondo il Colle, sarebbe in grado di chiudere nel migliore dei modi l'ennesima triangolazione tra M5s, Lega e Forza Italia. La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, avrebbe le caratteristiche ideali per sigillare il patto tra Salvini, Di Maio e Silvio Berlusconi: è di Forza Italia, ma è stata votata anche dai 5 stelle e verrebbe considerata una scelta «istituzionale» e «terza» tra leghisti e grillini; sarebbe la prima donna premier in Italia; consentirebbe a Berlusconi di votare la fiducia all'esecutivo, pur in assenza di ministri «forzisti»; libererebbe la carica di presidente del Senato per un leghista. Il suggerimento, però, è stato lasciato cadere: Di Maio farebbe fatica a far digerire ai suoi un presidente del Consiglio di Forza Italia, mentre Salvini accarezza l'idea di un premier leghista (Giancarlo Giorgetti, gradito al capo dello Stato ma fino a un certo punto, visto che fu lui a ventilare «tentazioni secessionistiche» nel caso di un accordo Pd-M5s). In ogni caso, la giornata di ieri, per Sergio Mattarella, è stata densissima di contatti. In mattinata, il capo dello Stato ha ricordato le vittime del terrorismo in occasione della Giornata delle memoria al Quirinale. Già martedì sera, al Colle erano arrivati segnali da Di Maio e Salvini, che chiedevano tempo per chiudere l'accordo. Alle 13 e 30, dal Quirinale è stato diramato un comunicato stampa: «M5s e Lega», recitava la nota, «hanno informato la presidenza della Repubblica che è in corso un confronto per pervenire ad un possibile accordo di governo e che per sviluppare questo confronto hanno bisogno di 24 ore». Il governo «neutrale», può restare in freezer ancora un po', perché in fondo il risultato a casa lo ha portato. Senza la accelerazione impressa con l'annuncio dell'imminente nomina di premier e ministri «neutrali», e del conseguente voto anticipato a luglio o ottobre, Silvio Berlusconi non sarebbe stato sottoposto al vero e proprio «assedio» che ieri ha subito da parte di deputati e senatori terrorizzati dalla prospettiva di non essere rieletti e di consiglieri come Fedele Confalonieri e Gianni Letta, convinti, come la figlia Marina, della necessità di chiudere l'accordo con Di Maio e Salvini chiedendo il massimo possibile in termini di contropartite «politiche». Mattarella, se l'accordo tra Lega, M5s e Berlusconi oggi sarà definitivamente siglato, si darà da fare per indirizzare il governo legastellato nei binari a lui cari: continuità in politica estera ed economica, rapporti saldi con Bruxelles. Giorgetti premier? Il Colle non potrebbe mai dire «no», ma fino a ieri sera l'ipotesi che il M5s possa concedere lo scranno più alto di Palazzo Chigi alla Lega (seconda forza della maggioranza) sembrava assai remota. Anzi: la casella ancora da riempire, nel puzzle governativo legastellato, era ancora proprio quella del presidente del Consiglio. Una lacuna che il Quirinale potrebbe aiutare a colmare, suggerendo lui stesso un nome (circolava ieri quello dell'ex presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, gradito ai 5 stelle). Più debole si dimostrerà l'accordo tra Di Maio e Salvini, più forte sarà la facoltà del presidente della Repubblica di indirizzare le scelte dei «ragazzi». Debolezza che aumenterà a dismisura se Forza Italia si schiererà alla opposizione, pur garantendo a Salvini la tenuta della coalizione nelle regioni e nelle città, dando così vita a un nuovo bipolarismo a livello nazionale, con Lega e M5s da un lato e Pd e Forza Italia dall'altro. L'importante, per il Quirinale, è che il ministero degli Esteri e quello della Difesa vadano al M5s o a figure terze, ma mai alla Lega. Luigi Di Maio, che a Washington, a Berlino e in alcuni circoli assai riservati ma che contano, considerano affidabile in quanto estremamente malleabile, è in pole. Il Colle, inoltre, chiede che il ministero dell'Economia venga assegnato a una figura «autorevole», con ottimi rapporti con Bruxelles e che non intenda sforare i vincoli europei. Mattarella auspica inoltre che il ministero della Coesione territoriale sia affidato a un big e non a un dirigente politico di secondo piano. Il capo dello Stato chiederà anche esplicitamente a Di Maio quale sia la posizione del Movimento rispetto alle ultime uscite pubbliche del «garante» Beppe Grillo, in particolare quella sul referendum sull'euro. Mattarella, infine, se anche questo estremo tentativo di accordo tra Salvini e Di Maio dovesse clamorosamente saltare, si ritroverebbe con la strada spianata per varare il suo governo «neutrale». Oggi attenderà novità da Fiesole dove partecipa a «The state of the Union», l'evento organizzato dall'Istituto universitario europeo. Appuntamento al quale parteciperanno anche il presidente della Bce Mario Draghi e il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Dopo una tappa a Palermo, il rientro del presidente a Roma è previsto per domani pomeriggio. 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Al culmine dei due giorni più lunghi nella storia di Forza Italia, è il governatore della Liguria a trovare la soluzione. E a proporre a Silvio Berlusconi qualcosa che non sia un appoggio esterno (posizione per lui insostenibile) e neppure le elezioni, parola che in questo momento fa correre i brividi lungo la schiena del Cavaliere al pari dell'altra, Vivendi. «Il tema vero è che la Lega e i 5 stelle hanno i voti per insediare un governo e fare un accordo politico, a cui Forza Italia non parteciperà con un appoggio esterno», spiega prima a Berlusconi a Palazzo Grazioli - dove il quartiere generale si è trasferito da Arcore per vivere le giornate decisive -, e poi a Radio 1. «Il che non vuol dire che, dopo sei settimane di stallo del Paese, non si possa guardare a questa esperienza di un nostro socio strutturale da 20 anni, con una benevolenza critica». Poi Toti approfondisce. «Consiste in una visione pragmatica e al tempo stesso benevola rispetto ai tentativi di formare il governo. È impossibile per Forza Italia condividere alcuni obiettivi dei 5 stelle e al tempo stesso anche l'atteggiamento politico e il grado di rispetto delle regole democratiche. Ma in ogni caso un governo che vedesse coinvolto un nostro alleato importante come la Lega e il candidato premier della coalizione Salvini, non potrebbe che avere da parte nostra una benevola attenzione. Non significa appoggio esterno coordinato e neppure una pregiudiziale ostilità, ma significa consentire la partenza di un'esperienza di governo che valuteremo caso per caso con attenzione al programma che abbiamo presentato agli elettori». Bingo. Il ragionamento piace, comincia a fare breccia, e non poteva che arrivare da un sincero sostenitore dell'alleanza sempre più stretta con la Lega, quella «sintonia oltre le differenze» alla base del successo del modello Liguria. Per questa sua linea, subito dopo l'esito del 4 marzo, Toti era stato accusato d'essere un «collaborazionista» dai colonnelli del partito. Ma ha saputo tenere duro e far rimangiare a tutti l'insinuazione di «averci venduti alla Lega». Era solo lungimiranza. Era solo consapevolezza che una nuova era politica stava nascendo. La benevolenza critica si esprimerà con l'uscita dall'aula di Forza Italia il giorno della fiducia e l'analisi di volta in volta dei provvedimenti da votare. All'interno del partito viene definita «un'opposizione selettiva», anche se difficilmente i nuovi responsabili faranno saltare il banco. La brillante trovata di ispirazione dorotea l'aspettavano in molti, come la pioggia nel Sahara. I parlamentari azzurri, terrorizzati di dover tornare alle urne con la concreta possibilità di finire dimezzati; gli storici consiglieri di Berlusconi, come Fedele Confalonieri e l'ascoltatissima figlia Marina, che da due giorni accerchiavano il leader per indurlo a uscire dalla tenda di Achille nella quale si era rintanato col broncio; lo stesso Cavaliere, finito all'angolo con i suoi ripetuti no e impossibilitato a sostenere l'unico esecutivo di salvaguardia per lui, il governo del presidente, dopo l'aut-aut di Giancarlo Giorgetti: «Se lo vota salta l'alleanza». Anche due esperti navigatori sempre molto vicini al leader, come Paolo Romani e Renato Brunetta, sono pronti a far partire l'avventura. Romani offre una benedizione non convinta: «Forse vale la pena che si sperimenti un governo giallo-verde, vediamo cosa può offrire...». E se lo dice chi è stato bruciato, alla presidenza del Senato, dal primo accordo Lega-5 stelle che ha prodotto Elisabetta Casellati, è significativo. Brunetta ricorda un precedente decisivo: «Se vogliono fare il governo, lo facciano. L'alleanza con la Lega resta perché per noi è un grande valore, ma nessuno ci può chiedere di più. Del resto anche nel 2011 e nel 2013 la Lega non votò per i governi di Mario Monti ed Enrico Letta (sostenuti da Forza Italia), ma l'alleanza rimase». L'ultimo gran visir da convincere è Gianni Letta, da sempre fautore di un esecutivo pilotato da Sergio Mattarella, sommamente diffidente nei confronti dei 5 stelle e per nulla tenero con Salvini, accusato di tradimento quando è corso a concordare le elezioni con Di Maio per fare pressioni sull'alleato. Nella pancia del partito non tutto è ancora risolto e lo stesso Berlusconi vorrebbe avere rassicurazioni sia sul nome del premier (la soluzione più apprezzata sarebbe Giorgetti, anche se il Quirinale spinge per il presidente Istat Enrico Giovannini), sia sulla reale volontà di Di Maio di concedergli un sottosegretario allo Sviluppo economico, posti chiave nelle tre commissioni permanenti e la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. La «roba» ha sempre un suo valore. E anche il Milan finalista di Coppa Italia, che gli consente una piccola pausa nel travaglio di ieri. Altro conforto al rovello del Cav, la compagnia fisica della primogenita Marina, che gli è stata vicina per tutto il giorno. Al termine del quale, alle 21, Berlusconi decide di parlare. In un comunicato, dopo una stilettata a Mattarella, «che non ha acconsentito a un governo di centrodestra che avrebbe trovato i voti i Parlamento», il Cavaliere sostiene l'impossibilità di Fi governare con i grillini ma «se un'altra forza politica della coalizione di centrodestra ritiene di assumersi la responsabilità di creare un governo con i 5 stelle, prendiamo atto con rispetto della scelta. Non sta certo a noi porre veti o pregiudiziali». Il Cav conferma che Fi non voterà la fiducia all'esecutivo giallo-verde ma che «ne valuteremo in modo sereno e senza pregiudizi l'operato sostenendo lealmente i provvedimenti che siano in linea con il programma del centro-destra». Ecco lo scarto di lato. Che ha un corollario: «Se invece questo governo non potesse nascere, nessuno potrà usarci come alibi di fronte all'incapacità - o all'impossibilità oggettiva - di trovare accordi fra forze politiche molto diverse». Giorgio Gandola <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mattarella-chiedera-nomi-di-garanzia-per-neutralizzare-lanti-europeismo-2567392634.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="le-garanzie-domandate-a-casaleggio-su-tv-conflitto-di-interessi-e-agcom" data-post-id="2567392634" data-published-at="1765410003" data-use-pagination="False"> Le garanzie domandate a Casaleggio su tv, conflitto di interessi e Agcom Bisogna trattare bene ogni singolo punto, perché se questo governo con la Lega nasce, poi deve durare cinque anni. E il punto più delicato, in partenza, riguarda le concessioni da fare a Silvio Berlusconi per la «non sfiducia» o «la sfiducia di bandiera» (la prima volta e poi basta). Mentre inizia l'ultimo rush di trattative per il governo Salvini-Di Maio, il Movimento 5 stelle si trova ancora una volta a che fare con il fattore «S». «S» come Silvio, il convitato neppure troppo di pietra di questo esecutivo politico, con il quale le due forze che si definivano «anti sistema» tentano di evitare la trappola di un ennesimo governo tecnico. La prima reazione, quando si chiede ai 5 stelle della trattativa con il Cavaliere, è quasi di negarla. «Il problema di Berlusconi per noi non esiste, perché i numeri del governo con i leghisti sono blindati», osserva un esponente di vertice. Il ragionamento che ha fatto anche Luigi Di Maio con i suoi, del resto, è semplice: «Salvini ha solo bisogno di non passare per traditore dell'alleanza di centrodestra» e quindi la trattativa con Arcore la sta facendo lui. Sarà, ma è il segreto di Pulcinella che tanto Berlusconi quanto Davide Casaleggio e Beppe Grillo abbiano messo dei paletti e che Salvini sia impegnato in una mediazione faticosa. A parlare con i grillini più informati, quelli che hanno avuto modo di confrontarsi anche con i vari Paolo Romani, Anna Maria Bernini e Renato Brunetta, viene fuori che Forza Italia avrebbe chiesto un paio di ministri e le consuete garanzie su Mediaset, con l'abbandono assoluto della promessa di fare una nuova legge sul conflitto d'interessi. Si tratta di un «pacchetto» più ricco e composito di quanto si possa immaginare. Ma il programma elettorale dei 5 stelle sembra fatto apposta per far sbiancare il «Cavaliere mascarato», come lo chiamava Beppe Grillo: abolizione delle Authority; tetto azionario del 10% massimo per il possesso di ogni singolo canale televisivo nazionale; frequenze tv da riassegnare con apposita asta pubblica ogni cinque anni; tetto del 10% anche per il possesso di giornali nazionali; vendita di due canali Rai e un solo canale pubblico senza pubblicità; abolizione secca della legge Gasparri; tetto nazionale massimo del 5% per la raccolta pubblicitaria da parte di una singola società. Tanto per capire la portata della minaccia di un governo con dentro i 5 stelle per il Biscione, Publitalia nel 2017 aveva una quota di mercato del 38% e la Fininvest è ben oltre i limiti antitrust sognati da Di Maio e compagni. E allora Forza Italia ha chiesto, e pare anche già ottenuto, che «tutte le chiacchiere sul conflitto d'interessi vadano in soffitta e che la Gasparri non si tocchi». Non solo, ma alla luce della battaglia con Vincent Bollorè e la sua Vivendi, dove il governo Gentiloni e il Pd si sono sempre schierati con Mediaset e contro il finanziere bretone, Berlusconi avrebbe chiesto a leghisti e grillini di avere persone di fiducia in Consob, Antitrust, Agenzia delle Comunicazioni, Autorità garante della privacy. Tutte caselle strategiche e che possono spostare miliardi di euro con un semplice provvedimento che al grande pubblico passa totalmente inosservato. La risposta dei 5 stelle è ancora tutta da pesare, come sanno Fedele Confalonieri e Gianni Letta, che hanno fatto arrivare le loro richieste con la massima discrezione anche a Davide Casaleggio. Sicuramente su Telecom e Mediaset, la posizione dominante in M5s è che «con tutta la buona volontà, è davvero impossibile schierarsi con i francesi, che hanno avuto un atteggiamento predatorio». E sulle televisioni, anche per Grillo è già abbastanza chiaro che lo stesso Salvini non andrebbe a fondo sul conflitto d'interessi e si accontenterebbe di occupare le caselle di rito in Viale Mazzini. Una pratica, quella della lottizzazione, che per inciso potrebbe sedurre in tempi rapidi anche M5s. «Noi spingeremo per la fibra ottica ovunque, per il 5G e per tutto ciò che modernizza il Paese», spiega un esperto di tlc del Movimento. Come a dire che a superare il conflitto d'interessi berlusconiano non sarà una nuova legge antitrust, ma il progresso stesso e il cambio delle abitudini dei cittadini internettiani. Più tosta la trattativa su un tema come la giustizia. Al solo sentire circolare il nome dell'avvocato forzista Bernini come ministro di Giustizia, Di Maio si è irrigidito e ha ricordato che in via Arenula vuole il fedelissimo Alfredo Bonafede. Però è interessante l'apertura su due ministri ufficialmente di Forza Italia e la chiusura a soluzioni «un po' ipocrite» come personaggi «di area». Anche se poi Berlusconi sa che alcune Authority, e alcune deleghe ministeriali, valgono più di un ministero. D'altronde i 5 stelle restano con la guardia alta e anche se accetteranno il via libera di Forza Italia si metteranno di traverso su ogni mossa che odori di Nazzareno 2. Ieri sera, per esempio, un gruppo di senatori guidati da Daniele Pesco, Elio Lannutti, Paola Taverna e Vito Crimi ha presentato una micidiale interrogazione parlamentare sul nuovo presidente della Consob, Mario Nava, designato prima di Natale con un accordo tra Pd e Forza Italia. Gli si rinfaccia di non aver sciolto il nodo del doppio incarico in Europa e di voler addirittura «raddoppiare» la presunta incompatibilità portandosi da Bruxelles la sua assistente personale.Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mattarella-chiedera-nomi-di-garanzia-per-neutralizzare-lanti-europeismo-2567392634.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="premier-e-liste-dei-ministri-prove-di-spartizione-lega-m5s" data-post-id="2567392634" data-published-at="1765410003" data-use-pagination="False"> Premier e liste dei ministri: prove di spartizione Lega-M5s Tutto si capirà nella notte, dopo che il segretario della Lega Matteo Salvini avrà incontrato il leader pentastellato Luigi Di Maio e soprattutto il fondatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Ma già ieri, dopo le prime aperture da parte del governatore ligure forzista Giovanni Toti a un governo gialloverde («Un'astensione benevola»), tra centrodestra e M5s sono iniziate le trattative sulla formazione dell'esecutivo, con il classico totonomi per ministri, viceministri e sottosegretari. La trattativa è serrata, potrebbe non andare neppure in porto, ma un paio di suggestioni stanno già iniziando a emergere a microfoni spenti e nei conciliaboli di leghisti, pentastellati, esponenti di Fratelli D'Italia e degli stessi azzurri. L'incastro non è facile, bisognerà capire per esempio come Berlusconi (non) legittimerà il governo e come ne farà parte. Per questo motivo è il «non ruolo» di Forza Italia quello che al momento appare più complicato. Non solo. Non è ancora chiaro il nome del possibile presidente del Consiglio e si discute anche su quanto durerà l'esecutivo, se sarà a tempo - per fare la legge elettorale, mettere mano alla finanziaria e dare una stretta sul fronte immigrazione - oppure di lunga permanenza. Proprio sulla durata si gioca il ruolo di Salvini e Di Maio. Il primo è dato come ministro degli Interni, ma in via Bellerio c'è chi sostiene che il segretario possa restarne fuori per poi ricandidarsi a premier nel 2019 in caso di nuove elezioni. Il secondo, invece, potrebbe essere vicepresidente del Consiglio o anche ministro degli Esteri, in modo da avere un ruolo attivo nel tanto acclamato «governo del cambiamento». Lo scoglio Forza Italia e Berlusconi non è facile da superare. O meglio, qualcuno dalle parti di Arcore e di palazzo Grazioli avrebbe già trovato lo schema. In pratica tre ministri di area e storicamente vicini (o comunque non nemici), nei ruoli di ministro della Giustizia, dell'Economia e dello Sviluppo economico potrebbero andare bene a Berlusconi. Se da un lato il Cavaliere non voterà la fiducia - magari approvando leggi caso per caso, come ha spiegato il Senatùr Umberto Bossi - dall'altro potrebbe comunque continuare a seguire gli aspetti che più gli stanno a cuore, tra giustizia e aziende. Come Guardasigilli il nome forte che circola in queste ore è quello di Giulia Bongiorno, storico avvocato di Giulio Andreotti, il suo profilo era già emerso nelle scorse settimane come possibile presidente del Consiglio di un esecutivo gialloverde. Candidata con la Lega, ha avuto in passato qualche attrito con il leader di Forza Italia, in particolare durante il quarto governo, tra il 2008 e il 2011: smontava tutte le leggi ad personam che i forzisti cercavano di far passare in Parlamento. Ma è comunque un avvocato «con cui si può parlare», si ragiona in Forza Italia. Allo Sviluppo economico, il Mise, invece viene dato per quasi sicuro Carlo Sangalli, storico presidente di Confcommercio, già deputato della Dc, amico e conoscitore di tutto il tessuto economico politico italiano, in particolare quello del Nord. Di Maio lo conosce bene, i due si sono incontrati il 14 marzo scorso a Milano. Per l'Economia il gioco a incastri è molto delicato. E a quanto pare da questo dicastero dipende la poltrona di presidente del Consiglio. Ieri pomeriggio è iniziato a circolare il nome, come possibile premier, di Enrico Giovannini, già presidente dell'Istat, ex ministro del governo di Enrico Letta, autore della prefazione al libro Presi per il Pil dell'economista grillino Lorenzo Fioramonti. Giovannini sarebbe una soluzione gradita al Quirinale che potrebbe liberare la casella di via XX Settembre. Qui c'è chi sostiene che possa arrivare Giancarlo Giorgetti, il capogruppo alla Camera della Lega, a cui sempre Bossi affiderebbe il ruolo di numero uno di palazzo Chigi. Di sicuro Giorgetti, da ministro dell'Economia, dovrà avere un vice del Movimento 5 stelle, come per esempio Andrea Roventini, che fu proposto nella lista dei ministri che Di Maio aveva presentato prima delle elezioni. Il capitolo Mef non è semplice da districare, c'è chi dice che un posticino potrebbe ritagliarselo anche Alberto Bagnai, economista di casa Lega da sempre critico nei confronti delle imposizioni economiche di Bruxelles. A quanto si apprende in ambienti grillini gli uomini di cui il leader pentastellato non potrà fare a meno sono Alfonso Bonafede, che era dato alla Giustizia, Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento) ed Emanuela Dal Re agli Esteri. Allo stesso tempo si parla anche di incarichi di prestigio per Stefano Buffagni, l'uomo delle nomine, e per lo stesso Fioramonti. All'Ambiente è dato per certo il generale dei carabinieri Sergio Costa, che fu comandante regionale in Campania del Corpo forestale dello Stato, in prima linea nelle indagini sulla Terra dei fuochi. Complesse le altre caselle da riempire, anche perché si vocifera che la Lega potrebbe voler ricreare un ministero per Autonomia e federalismo. Non solo. Su Sanità, Cultura e Istruzione, Trasporti ci sarà da discutere. Così come sull'Agricoltura, dicastero caro ai leghisti. E anche qui Salvini potrebbe far sentire la sua voce, magari proponendo i nomi di Nicola Molteni, Barbara Saltamartini o il giovane Alessandro Morelli. Tra i capitoli più intricati c'è quello della Difesa. Molto dipenderà da quale sarà il ruolo di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. A quanto pare su Fdi ci sarebbe stato un mezzo veto di Di Maio, durante le consultazioni. Ma ora sarebbe arrivata luce verde. E per la Difesa il nome forte che circola è quello di Guido Crosetto, già sottosegretario. Qui Di Maio aveva proposto Elisabetta Trenta, ma per far partire un governo bisogna pur rinunciare a qualcosa. Anche i grillini lo hanno capito.Alessandro Da Rold
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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