2023-11-11
Al lavoro sulle materie prime solo imprese Usa o canadesi. L’Europa è la grande assente
La Cina possiede la maggior parte delle risorse necessarie alla transizione energetica. Oltre che asiatici, i gruppi che controllano le miniere sono quasi tutti dell’anglosfera.La transizione ecologica affonda le proprie radici nelle viscere della terra, cioè nelle miniere. Una semplice verità che si tende a nascondere e che comporta una serie di conseguenze. Nel tentativo di sostituire i combustibili fossili e gli idrocarburi come fonte primaria di energia, elettrificando i consumi energetici, si sta transitando da una dipendenza ad un’altra. Produrre energia elettrica con sole e vento significa sfruttare risorse naturali disponibili liberamente, è vero, ma per fabbricare le necessarie attrezzature occorre sfruttare le miniere. Non solo quelle esistenti, che dovranno essere coltivate in maniera più estesa, ma anche aprirne di nuove, con processi che possono durare fino a quindici anni. L’intensità minerale della cosiddetta transizione ecologica è infatti molto alta. Per un singolo megawatt di capacità di produzione eolica, ad esempio, servono da tre a sei tonnellate di rame, circa cinque di zinco, 800 chili di manganese. Senza contare le tonnellate di acciaio e alluminio necessarie per l’infrastruttura. Una torre eolica da 10 megawatt di potenza può contenere cioè fino a sessanta tonnellate di rame. I piani per la decarbonizzazione europei parlano di aumentare entro il 2030 la capacità eolica di oltre 300.000 megawatt. I calcoli sono presto fatti: anche considerando questi numeri un po’ grossolanamente, con turbine eoliche da 10 megawatt servirebbero in 7 anni un 1.800.000 tonnellate di rame. Questo solo per le turbine eoliche. Poi c’è tutto il resto (le reti, il fotovoltaico, l’auto elettrica). Questi minerali sono, appunto, «critici», nel senso che la loro disponibilità è fondamentale per poter procedere nella cosiddetta decarbonizzazione. Nel racconto della transizione, ormai assurta a vero e proprio genere letterario, anche i romanzieri che tutti i giorni affollano i media sono costretti ad ammettere che sì, in effetti, è la Cina ad avere in mano la gran parte delle risorse necessarie. L’Unione europea ha emesso nei mesi scorsi un atto, il Critical raw materials act, in cui elenca i materiali necessari alla transizione e delinea le modalità con cui l’Europa può provare a ridurre la propria dipendenza dalla Cina. In realtà, si tratta di un insieme di misure complessivamente poco efficaci, e il documento non fa altro che prendere atto di una inferiorità strategica.Il romanzo della transizione e gli atti dell’Unione europea non tengono però conto di una realtà di cui si parla poco, ma che è fondamentale conoscere.Energy Monitor ha esaminato quali sono i Paesi che effettivamente esercitano un certo grado di controllo delle risorse minerarie necessarie alla transizione, esaminando dove hanno sede le compagnie con controllo di maggioranza o con la partecipazione maggiore in miniere già operative o in fase di sviluppo (nella fase di prefattibilità, fattibilità o costruzione). La Cina è un discorso a sé, naturalmente, avendo la gran parte delle risorse sotto controllo sul proprio territorio. Ma sul resto, che non è poco, può essere una sorpresa per qualcuno scoprire che i Paesi che più hanno partecipazioni e investimenti in materiali critici sono il Canada, gli Usa, il Regno Unito e l’Australia. In pratica, quella che viene chiamata l’anglosfera è il contraltare della Cina nel dominio sulle materie prime critiche. Il Canada, che nel proprio territorio ha già una certa presenza di cobalto, litio, nichel e grafite, è al primo posto come produzione annuale controllata all’estero. Complessivamente, si parla di 507 milioni di tonnellate all’anno di produzione tra rame, cobalto, nichel, litio e manganese. La parte controllata all’estero dal Canada è superiore anche a quella della Cina, le cui compagnie all’estero controllano circa 300 milioni di tonnellate di produzione. Anche la Gran Bretagna, che ha una produzione nazionale pari a zero, controlla all’estero più risorse di quelle controllate da Pechino e insidia il primato del Canada con 502 milioni di tonnellate di minerali. Complessivamente, le aziende minerarie con sede nei quattro paesi anglofoni controllano una produzione di minerali critici pari a 1,62 miliardi di tonnellate all’anno. Non male. Cile e Perù, dove c’è rame e litio, si distinguono come le principali destinazioni per gli investimenti esteri nelle miniere di minerali critici. Seguono poi Kazakistan, Zambia, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo.L’Unione europea, ancora una volta, è molto indietro, non solo perché non dispone sul proprio territorio di importanti riserve dei minerali necessari alla transizione, ma anche perché la sua debolezza finanziaria e l’assenza di compagnie minerarie degne di nota, gli impedisce di essere presente nel mondo laddove serve. Al contrario, compagnie di paesi tra loro alleati militarmente e affini culturalmente, che costituiscono una buona parte del prodotto mondiale, sono ben posizionate ed assieme alla Cina hanno in mano le chiavi dello sviluppo economico europeo.Non è solo, o non è tanto, la presenza di materie prime sul territorio, ad essere importante, ma la capacità finanziaria di investire e di occupare un Paese con le proprie aziende. Anche in questo nuovo, ipotetico paradiso che dovrebbe essere il mondo Net zero emission. È il nuovo imperialismo, un colonialismo due punto zero. Questa volta però l’Europa è fuori da giochi.