2018-09-18
Marocchino sbatte al muro la figlia: «Vestiva troppo all’occidentale»
Nel Cremonese, uno straniero musulmano denunciato per violenze familiari. A far scattare l'ira dell'uomo, lo stile di vita della ragazza di 16 anni. Ma è solamente l'ultimo di una serie di casi simili.A Como, per protestare contro la chiusura di un centro d'accoglienza, il vescovo invita i parroci della città a leggere un comunicato contro la decisione del Viminale.Lo speciale contiene due articoliPoteva essere una nuova Sana. O finire come Hina. O come le altre giovani musulmane arrivate in Italia ancora bambine e, poi, cresciute, nonostante la famiglia, come occidentali, nell'anima e nei desideri. Soprattutto nel desiderio di essere libere, di studiare, di frequentare e sposare chiunque, senza imposizioni. A loro l'Islam, quello radicalizzato delle tante famiglie immigrate che, dal nostro Paese, prendono tutto quello che offre senza dare, in cambio, nemmeno il rispetto della vita altrui, non lascia scampo.E quando va bene sono botte e umiliazioni. Come quelle ricevute da una sedicenne di Solesina, nei pressi di Cremona, picchiata, forse per mesi, a sangue, tra le mura domestiche dal padre padrone che l'avrebbe voluta una musulmana perfetta.L'uomo, a quanto pare, non poteva sopportare che la figlia avesse amici italiani, volesse vestire all'occidentale, fare sport e diventare una ragazza indipendente e gioiosa come tutte le coetanee.Richieste assurde, inaccettabili per lui, 58 anni, originario del Marocco, venuto in Italia, sì alla ricerca di una vita migliore per sé e la famiglia, ma convinto di non dover dare in cambio nulla.Accanito fedele dell'Islam, evidentemente radicalizzato, l'uomo da buon padre musulmano, voleva imporre la sue regole anche a moglie e figli, ritenuti inferiori. E per la sedicenne che tentava di ribellarsi, erano botte da orbi.Non era la prima volta che i vicini sentivano litigare in modo furioso. Anzi era l'ennesima. E fortunatamente, sabato scorso, dopo l'ora di cena sentendo che i toni si stavano di nuovo scaldando, hanno chiamato le forze dell'ordine. Quando i carabinieri sono arrivati nell'appartamento, si sono trovati davanti la giovane piena di lividi ovunque e soprattutto sul viso tumefatto dai colpi.La sua colpa? Voler vestire all'occidentale e frequentare quegli amici italiani da cui era stata tanto ben accolta. Proprio quella sera, come probabilmente tante altre, poco prima dell'arrivo dei militari il padre l'aveva schiaffeggiata e le aveva sbattuto la testa contro un muro.Ora la posizione dell'uomo sarà vagliata dagli inquirenti che non hanno ancora formalizzato le accuse, ma nel frattempo la giovane è stata affidata a una comunità protetta. Poteva andare peggio. I nomi delle vittime, quelle che hanno subito lo stesso trattamento o che, addirittura, sono state uccise, li conosciamo.È successo a Rimini la settimana scorsa, quando una minorenne tunisina, dopo mesi di botte pestaggi e umiliazioni ad opera del padre, ha chiamato la polizia per chiedere un disperato aiuto.È successo a Sana Cheema, 25 anni, pachistana, residente Brescia, uccisa lo scorso aprile. È stata strangolata, in Pakistan dove era tornata per passare un po' di tempo con la famiglia, dal padre e dal fratello perché, da ragazza integrata e indipendente qual'era, voleva vivere all'occidentale e sposare un italiano.Ma è accaduto anche a Farah, giovanissima pachistana, cresciuta a Verona, portata, all'inizio dell'estate, con l'inganno in patria, segregata per settimane e costretta ad abortire il bimbo che portava in grembo perché figlio di un coetaneo italiano. A salvarla i messaggini che è riuscita a inviare alle amiche e la prontezza delle insegnanti della scuola che frequentava, che hanno fatto avviare le indagini sulla sua strana sparizione.E ancora, la quattordicenne residente a Bologna, ma originaria del Bangladesh rasata a zero, nella primavera del 2017, dalla madre perché non voleva portare il velo.O, di nuovo a Brescia, nel settembre del 2013 , la giovane pachistana che rifiutò un matrimonio combinato e venne segregata in casa e violentata da un cugino per punizione.E ancora prima, perché il fenomeno ha origini di vecchia data, nel 2011, sempre a Brescia c'è Jamila, 19 anni anche lei pachistana, tenuta a casa da scuola perché troppo appariscente, secondo i genitori. E ancora, nel 2010, a Novi, in provincia di Modena, c'è Nosheen, pachistana anche lei, che ha visto morire la madre massacrata nel giardino di casa per aver difeso la figlia ventunenne, decisa a rifiutare il matrimonio combinato.E Sanaa Dafani, uccisa dal padre in un paesino della provincia di Pordenone nel 2009. Era marocchina, aveva 18 anni e fu sgozzata dall'uomo perché voleva vivere all'occidentale e si era fidanzata con un giovane italiano. E , come loro, tante altre ragazze di cui non conosciamo e non conosceremo, probabilmente mai, la storia.La prima in ordine di tempo a subire la sorte atroce fu Hina Saleem, ventenne pakistana, uccisa a Sarezzo nel bresciano dal padre Mohammed Saleem perché, anche lei, voleva vivere all'occidentale. Il suo corpo, ancora caldo, venne sepolta, dal padre con la collaborazione di due cognati e di uno zio, sotto pochi centimetri di terra, con la testa rivolta alla Mecca. Mohammed Saleem, è stato condannato definitivamente a 30 anni carcere e Hina venne riconosciuta come vittima di un «possesso-dominio»' da parte del padre che preferì vederla morta, piuttosto che felice.Alessia Pedrielli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marocchino-sbatte-al-muro-la-figlia-vestiva-troppo-alloccidentale-2605745760.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sullaltare-un-comizio-pro-migranti" data-post-id="2605745760" data-published-at="1760928795" data-use-pagination="False"> Sull’altare un comizio pro migranti La messa come le assemblee d'istituto: prima si prega, poi si ascolta il comunicato politicizzato dell'attivista di turno, con il parroco al posto del liderino del collettivo. Quando si parla della questione migranti, la Chiesa bergogliana non cessa di confondere religione e politica. L'ultima arriva da Como. Qui, la curia è scesa sul piede di guerra dopo che il Viminale ha annunciato di voler chiudere il centro d'accoglienza di via Regina Teodolinda, che il ministero vorrebbe dismettere alla scadenza della convenzione siglata due anni fa con la Croce rossa. Il centro dovrebbe chiudere entro fine anno. Le ragioni sono chiare: dato che la struttura è stata messa in piedi per garantire la prima accoglienza, con un occhio anche ai respingimenti alla frontiera svizzera, ora che sono diminuiti gli sbarchi il centro non serve più. Ma la Chiesa, che non ovviamente alcuna voce in capitolo sulla questione, non ci sta. Domenica scorsa, come riporta La Provincia di Como, il vescovo Oscar Cantoni ha invitato i parroci della città a dare lettura di un comunicato sulla vicenda al termine delle messe domenicali. Il testo ricalca un'analoga lettera diffusa il giorno precedente dalla Caritas. Il direttore della Caritas locale, Roberto Bernasconi, ha infatti espresso tutta la sua contrarietà alla chiusura: «Il campo di via Regina è funzionante e in piena efficienza. Ci si dimentica della stagione invernale alle porte, di chi dorme al Santarella, all'ex scalo merci, di chi dorme sotto i portici di San Francesco e al Gb Grassi. Ribadisco: la decisione di chiuderlo è una decisione molto grave, frutto di una scelta unilaterale. C'è ancora spazio per pensare a una riconversione, è una questione di buonsenso oltre che di volontà politica». Tanta ostilità alla chiusura del centro d'accoglienza deve aver generato più di un sospetto, in città, tant'è che lo stesso Bernasconi ci ha tenuto a precisare: «Lo scriva con chiarezza: il sottoscritto vive della pensione sua e di quella di sua moglie. Il lavoro che svolgo da direttore della Caritas è su base del tutto volontaria». Malelingue di provincia a parte, quello che stupisce è che questa polemica tutta politica e anche di natura piuttosto tecnica sia finita, con un'assurda e offensiva invasione di campo, nella messa domenicale delle chiese comasche, per invito del vescovo. Dalle omelie impregnate di appelli all'accoglienza si è quindi passati direttamente alla lettura dal pulpito di veri e propri comunicati, in cui si attacca la decisione degli organi competenti e si fa sostanzialmente politica nel senso più prosaico del termine. Solo pochi giorni fa, la Caritas aveva nuovamente protestato, quando 70 migranti ospitati nel centro di via Regina erano stati trasferiti verso altre strutture di Torino e Bologna. «L'intervento ci ha sorpreso e ci ha lasciato senza parole», aveva detto Bernasconi, specificando che «nessuno di Caritas Como era stato informato dei trasferimenti decisi, se non attraverso una fuga di notizie. Non lo riteniamo un modus operandi corretto, guardando alla rete di reciproca collaborazione costruita negli anni». Insomma, la voglia di «mettere il becco» in decisioni che arrivano dall'alto sembra ben consolidata, da quelle parti. Peccato che nella polemica abbiano finito per schierarsi anche le autorità ecclesiastiche. Un segnale inquietante, da segnalare a papa Francesco, che recentemente si era occupato della lunghezza delle omelie. Magari si potrebbero dire due parole anche per far sì che al termine delle suddette omelie i parroci non siano costretti a improvvisarsi comizianti. Fabrizio La Rocca
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)