2024-12-02
Mario Giro: «Perché scommetto sul piano Mattei»
L’ex viceministro degli Esteri in governi di centrosinistra: «Giusto puntare sulle nostre pmi, con cui gli africani preferiscono trattare. Nonostante le dimensioni ridotte, l’Italia può diventare il vero partner del continente».L’Africa è diventata terreno di scontro tra Usa, Cina, Russia e Europa. Abbiamo chiesto a Mario Giro, amministratore di Dante Lab, già vicepresidente di Sace, professore di Relazioni internazionali all’Università per stranieri di Perugia, viceministro degli Esteri nei governi Renzi e Gentiloni, di tracciarci uno scenario della posta in gioco. «Dal volgere del Millennio la Cina ha fatto dell’Africa uno dei suoi hub energetici e di materie prime come anche di prodotti agricoli, perché l’Africa è l’unico continente dove c’è ancora terra arabile libera (a parte le foreste). Per nutrire il pianeta ci sarà bisogno del continente nero. Va detto che l’intervento cinese ha rimesso l’Africa al centro degli interessi globali mentre gli occidentali, americani inclusi, l’avevano abbandonata negli anni Novanta, considerandola troppo impegnativa a causa delle guerre, dell’instabilità e della corruzione. Il coinvolgimento di Pechino ha ribaltato la situazione: i cinesi all’inizio hanno donato molto, poi hanno investito e fatto prestiti. Oggi sono il primo partner commerciale, anche se l’Ue resta il primo partner umanitario». E gli Usa?«Sono rimasti in una certa misura a guardare: gli ultimi programmi americani di rilievo per l’Africa sono stati l’Agoa (preferenzialità commerciale) di Bill Clinton e il Pepfar (contro l’Aids) di George W. Bush. Né Barack Obama né Donald Trump hanno mostrato interesse. Nemmeno Joe Biden si è mai recato sul continente: gli Usa si focalizzano sull’Asia-Pacifico. L’ultimo vertice Usa-Africa organizzato dall’amministrazione uscente ha ridato un po’ di slancio alla relazione, grazie al lavoro delle diaspore: nell’amministrazione Biden ci sono numerosi nigero-americani o africani di altra origine. In quella futura chissà, ma le diaspore Usa-Africa (da non confondere con gli afroamericani) contano sempre di più e si rivolgono in particolare al settore privato». Cina e Russia come si muovono?«La Cina si muove con le imprese di Stato ma ora ha la difficoltà del debito: non riesce a farsi rendere i soldi prestati ed è accusata di aver provocato una nuova crisi del debito. La Russia ha compiuto passi avanti di presenza e influenza con l’unico strumento che possiede: armi e contractors (Wagner e successori). Direi in sintesi che in Africa lo scenario è in movimento e che gli africani sono molto più autonomi e liberi di una volta: possono scegliere il partner che più li aggrada e permettersi anche di cambiarlo. Aspettiamoci sorprese». Come si posiziona l’Europa?«L’Europa resta il partner principale nell’aiuto allo sviluppo ma le viene chiesto di investire in quello privato sul quale è in ritardo. I grandi lavori infrastrutturali delle imprese europee sono molto più costosi che in passato. Una volta quando volevi un lavoro di qualità (per dighe, strade, porti ecc.) chiedevi agli italiani, e se avevi meno soldi ti rivolgevi agli jugoslavi, sempre buona qualità. Oggi se vuoi un lavoro di questo tipo devi chiedere agli asiatici (e al finanziamento dei Paesi del Golfo: gli unici ad avere la liquidità necessaria). I coreani offrono la qualità più alta, poi ci sono i cinesi e infine gli altri. Gli Stati del Golfo usano essenzialmente tali maestranze, oltre i turchi. In questo l’Europa è in difficoltà. Una volta i francesi erano favoriti dalla loro “relazione speciale” che si trasformava in una specie di monopolio ma ora tutto è cambiato. Bouygues o Bolloré ad esempio lasciano il continente sostituiti da altri. Msc di Aponte sta entrando muovendosi in totale autonomia: vedremo per quanto resterà». Il punto debole dell’Europa?«All’Europa manca una visione geostrategica sull’Africa, che Paesi molto più piccoli possiedono. Gli Emirati arabi uniti occupano porti con la tattica duale “commerciale-militare” che l’Europa, per ora, non può permettersi. Il Global Gateway europeo è stato criticato perché ha pochi soldi (300 miliardi, dei quali la metà sull’Africa, contro i quasi 1.000 della Via della seta cinese) e progetti vecchi ribrandizzati. Penso che ciò che serve è soprattutto un pensiero nuovo: vedremo se la prossima Commissione sarà capace di una visione». E l’Italia?«L’Italia è piccola per un continente immenso come l’Africa ma ha alcune carte da giocare. Non siamo più il Paese delle grandi imprese pubbliche degli anni Sessanta-Settanta che ha lasciato il segno sul continente: ancora tutti parlano delle realizzazioni che il nostro Paese vi ha fatto in quei decenni. Oggi resta solo WeBuild (Salini), oltre Eni, Enel, Fincantieri e Leonardo. Le ultime due sono fuori portata per gli africani. Eni e Enel sono molto presenti nel loro settore specifico. Oggi ci mancano del tutto campioni nazionali nel settore agroalimentare, turismo, pesca, lavori infrastrutturali intermedi (case, scuole, ospedali), logistica, trasporti, automotive. Lo Stato da solo non può sopperire. Una volta le città africane erano piene di Fiat, oggi solo di Toyota e auto cinesi. La Fiat non ha mai voluto aprire la fabbrica in Algeria ad esempio, già pronta peraltro, e ora Stellantis non è più italiana e vuole chiudere in Italia stessa come sappiamo. Cosa ci resta? Le migliaia di pmi che gli africani prediligono: preferiscono trattare da pari a pari con le nostre piccole imprese piuttosto che vedersi imporre tutto dalle multinazionali. Conoscono ed apprezzano la qualità italiana. E poi abbiamo le cosiddette multinazionali tascabili, molto utili per l’Africa. Si tratta di aiutare l’Africa a industrializzarsi, cosa mai fatta prima e unica via per un vero sviluppo, come è accaduto all’Asia. Solo i settori differiscono: ad esempio per l’Africa conta molto l’agribusiness. L’Italia è il partner ideale se le istituzioni avranno il coraggio di garantire gli investimenti delle nostre pmi, che altrimenti non ce la faranno. Ci vuole una rivoluzione copernicana per tutto il sistema (Sace, Cdp, Simest e Ice): accettare di garantire investimenti che normalmente non potrebbero esserlo. È tutto un tema di rischio. In alternativa, creare degli strumenti di garanzia specifici. Questo cambierebbe tutto. L’altro vantaggio italiano è di non avere – almeno nelle percezioni africane – strascichi post o neocoloniali. Sappiamo che non è del tutto vero ma è un fatto. Quindi possiamo avvantaggiarcene». Il piano Mattei che prospettive presenta? «Sul piano ho appena pubblicato un libro a più voci per fare proposte concrete. Il piano è un contenitore che può essere riempito di progetti innovativi miranti all’industrializzazione dell’Africa. Questa è la scommessa. Con il piano proseguono le buone cose già fatte a livello di sanità, educazione, formazione ecc., aumentandone la magnitudine. Abbiamo molte buone pratiche italiane (pubbliche, private e delle Ong/Osc) da replicare. In secondo luogo il piano può partecipare a programmi europei o nazionali di grandi dimensioni, inclusa l’energia. In terzo luogo il piano cercherà di inserire le nostre pmi sul continente. Quest’ultima per me è la scommessa più importante: se ci riusciamo diverremo il vero partner del continente. Al limite non importa quanti soldi ci mettiamo ma quanto know how, tecnologia e quanto spirito di cooperazione paritaria. Gli africani si accorgono subito se vieni a sfruttare o a costruire qualcosa assieme». L’Europa è sufficientemente attrezzata per contendere alle grandi potenze l’influenza sull’Africa? «Lo sarebbe se si comportasse unitariamente. Ma l’Europa è un Giano bifronte: da un lato appare come l’Europa unita, senza scomode eredità, innovatrice, umanitaria, pronta alla collaborazione. Ma poi si gira e si vede la faccia degli Stati membri, in competizione tra loro, incapaci di cooperare, litigiosi e rancorosi. Guardate cosa hanno fatto Francia e Italia sulla Libia: uno scandaloso battibecco il cui unico risultato è di averla consegnata a turchi e russi. Inutile gettarsi la colpa: siamo entrambi responsabili di questo vergognoso fallimento». Davvero gli Stati africani si lasceranno spogliare delle risorse? «Assolutamente no. Per l’Africa è un buon momento, malgrado le crisi in atto come la guerra atroce in Sudan o l’instabilità etiopica, i golpe nel Sahel o il jihadismo in certe aree come il Nord Mozambico. Gli Stati africani hanno imparato in questi decenni, in particolare dall’inizio dei conflitti in Ucraina e a Gaza, che le grandi potenze (Usa, Russia e Cina) e i Paesi ricchi (Ue, G7, G20 e anche i Brics oramai) fanno solo i propri egoistici interessi e non badano più al multilateralismo. In tale contesto caotico e sregolato, anche l’Africa trova lo spazio per fare i propri interessi (giusti o sbagliati che siano), cambiando partner e adattandosi. Oggi gli Stati africani (quando non esplodono per crisi interne) sono paradossalmente più indipendenti di prima. Altro discorso per le popolazioni, visto che la democrazia si indebolisce, come d’altronde accade anche in Europa». Che carte si gioca la Russia? «La carta militare. I russi sono disponibili a inviare armi e mezzi mentre Occidente e Cina non lo vogliono fare. Mosca in buona sostanza svuota i suoi immensi arsenali, magari armi vecchiotte ma buone per l’Africa. Molti Stati africani si chiedono perché l’Europa non dia armi per combattere i jihadisti ma solo la Russia. Questo stabilisce delle alleanze, anche se non credo che potranno durare a lungo se non ci sarà altro. Gli africani non si fanno strumentalizzare, a parte forse qualche cerchia militare che voglia mantenersi al potere. Ma anche questo dura poco». A cosa punta la Cina? «La Cina desidera essere considerata come co-partner nella conduzione del mondo, assieme agli Usa. In altre parole vuole lo stesso ruolo che ebbe l’Urss e che la Russia ha perso. Ma gli Usa non hanno nessuna intenzione di accettarlo e preferiscono restare l’unica superpotenza, in solitaria. Questo è il punto che crea l’instabilità globale: non sono i terroristi o i jihadisti o gli Stati canaglia o i ribelli di ogni sorta, ad accrescere l’instabilità globale. Certamente vi contribuiscono ma in primis a creare tensione sono le tre grandi potenze che si battono fra loro per il primato: una per tornare ad esserlo (Russia), una per issarsi in cima (Cina) e una per evitare che ciò avvenga (Usa)».
(Ansa)
L'ad di Cassa Depositi e Prestiti: «Intesa con Confindustria per far crescere le imprese italiane, anche le più piccole e anche all'estero». Presentato il roadshow per illustrare le opportunità di sostegno.
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)