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2025-01-26
Rubio inizia a chiudere i rubinetti verso Kiev
Il neo segretario di Stato americano Marco Rubio (Ansa)
L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati.
Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.
Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.
Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.
Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.
Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.
Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto
Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato.
Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna.
Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini.
Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden.
Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
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Il nuovo segretario di Stato dà l’ok a una direttiva che pare tagliare gli aiuti militari a Zelensky (che tuttavia nega lo stop) e sospendere i programmi di accoglienza per rifugiati ucraini. È l’ennesimo segnale di un cambio di passo sul conflitto.Con la firma di due ordini esecutivi contro l'aborto, Trump cerca di ingraziarsi anche i vescovi americani con cui i rapporti sono tesi. Lo speciale contiene due articoli.L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati. Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marco-rubio-ucraina-2670999175.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-sempre-piu-pro-life-firmati-due-ordini-esecutivi-contro-laborto" data-post-id="2670999175" data-published-at="1737882527" data-use-pagination="False"> Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato. Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna. Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini. Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden. Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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