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2025-01-26
Rubio inizia a chiudere i rubinetti verso Kiev
Il neo segretario di Stato americano Marco Rubio (Ansa)
L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati.
Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.
Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.
Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.
Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.
Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.
Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto
Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato.
Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna.
Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini.
Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden.
Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
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Il nuovo segretario di Stato dà l’ok a una direttiva che pare tagliare gli aiuti militari a Zelensky (che tuttavia nega lo stop) e sospendere i programmi di accoglienza per rifugiati ucraini. È l’ennesimo segnale di un cambio di passo sul conflitto.Con la firma di due ordini esecutivi contro l'aborto, Trump cerca di ingraziarsi anche i vescovi americani con cui i rapporti sono tesi. Lo speciale contiene due articoli.L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati. Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marco-rubio-ucraina-2670999175.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-sempre-piu-pro-life-firmati-due-ordini-esecutivi-contro-laborto" data-post-id="2670999175" data-published-at="1737882527" data-use-pagination="False"> Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato. Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna. Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini. Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden. Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
Un Centro di assistenza fiscale (Ansa)
È l’incredibile storia della Società di servizi Cgil Sicilia srl, nata per organizzare sul territorio siciliano i servizi dei Caf, l’assistenza fiscale, controllata dalla Cgil Sicilia e da una serie di Camere del lavoro del sindacato sparse sul territorio dell’isola, che la trasmissione di Rai 3 Lo Stato delle cose, condotta da Massimo Giletti, racconterà nella puntata in onda stasera alle 21.30.
Nel servizio, realizzato dall’inviato Alessio Lasta, una frase, pronunciata dal commercialista Giannicola Rocca, già presidente della commissione crisi e risanamento di impresa dell’Ordine dei commercialisti di Milano, riassume meglio di tutte la situazione della società controllata dal sindacato guidato da Maurizio Landini. Chiamato dalla trasmissione ad analizzare i bilanci, Rocca ha riassunto così lo stato dei conti della Società di servizi Cgil Sicilia srl: «Se posso sintetizzare, questa è una società che si è finanziata non versando i contributi».
Come detto, il principale creditore della Società di servizi Cgil Sicilia è l’Agenzia delle entrate, che vanta pendenze per circa 3.350.000 euro per mancato versamento di contributi di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia, superstiti e infortuni sul lavoro, ovverosia tutta la parte contributiva e assistenziale che la società deve versare obbligatoriamente per legge a Inps e Agenzia delle entrate per la tutela dei lavoratori. Altri 377.000 euro riguardano crediti per tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e contributi degli enti locali non versati. Gli altri creditori sono l’Istituto di case popolari di Enna e due privati, un professionista e un dipendente a tempo determinato.
Secondo quanto ricostruito nel servizio, quest’ultimo, un ex addetto alle pratiche del Caf, deve ricevere 150.000 euro. Per l’ex presidente del consiglio d’amministrazione della società, Giuseppe La Loggia, oggi a capo dell’Inca (Istituto nazionale confederale di assistenza) della Sicilia, però è tutto a posto. Anche se di fronte alle domande dell’inviato Alessio Lasta, che gli chiedeva conto del motivo per cui la società non abbia pagato contributi Inps e Inail ai lavoratori e non abbia versato l’Iva, il sindacalista ha manifestato un notevole nervosismo. I due si incontrano in un centro congressi di Aci Castello, vicino a Catania.
L’occasione è un’assemblea della Cgil siciliana, alla quale partecipa anche il segretario nazionale Landini. L’inviato e La Loggia si sono già conosciuti in occasione di un precedente servizio della trasmissione che, a quanto pare, il sindacalista non ha gradito, tanto che inizialmente cerca di allontanare il giornalista in maniera sbrigativa: «Sei stato stronzo a fare quello che hai fatto, eravamo rimasti che ci dovevamo vedere e tu hai mandato il servizio», dice a Lasta davanti alla telecamera. E quando il giornalista gli fa notare che ci sono più di 3 milioni di debiti per i contributi non versati, il sindacalista risponde sprezzante: «E qual è il problema?». E alla domanda «Lei era presidente del consiglio di amministrazione, questa società è fallita», risponde con una frase che ha quasi dell’incredibile: «Come tante società falliscono in Italia, quindi qual è problema? L’amministravo? Mi assumo le mie responsabilità».
Che, a quanto pare, non sono un ostacolo al ruolo di responsabile regionale dell’Inca in Sicilia, sul cui sito, ironia della sorte, si può leggere la frase: «L’Inca tutela e promuove i diritti riconosciuti a tutte le persone dalle disposizioni normative e contrattuali - italiane, comunitarie e internazionali - riguardanti il lavoro, la salute, la cittadinanza, l’assistenza sociale ed economica, la previdenza pubblica e complementare».
E anche per Landini, la situazione della Società di servizi Cgil Sicilia non sembra essere un grosso problema. «Sono state fatte delle cose non buone, non a caso si è intervenuti, stiamo gestendo la liquidazione». Una risposta che sembra non tenere a mente che a gestire la liquidazione, su richiesta della Procura di Catania, accolta dal tribunale, è un liquidatore giudiziario.
Per Landini, però, «il problema adesso non è guardare se ci sono stai degli errori, il problema è se chi ha visto gli errori si è assunto la responsabilità di intervenire». Ma alla domanda sull’opportunità che La Loggia sia a capo dell’Inca, il segretario confederale replica: «Qui, localmente, noi stiamo gestendo tutto il rapporto con il tribunale, stiamo facendo tutto quello che c’è da fare. Noi stiamo mettendo a posto tutte le cose».
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Ansa
Cinque giorni di sciopero con la città bloccata dai sindacalisti. «È stata, però, una mobilitazione di lotta necessaria, non solo per la difesa di più di 1.000 posti di lavoro ma anche per tutta Genova. Abbiamo strappato un’importante continuità produttiva per lo stabilimento di Cornigliano, almeno fino a febbraio Cornigliano non chiude e con esso continua a vivere la città e il quartiere». Lancio di fumogeni e uova contro gli agenti, mezzi di lavoro contro le reti di protezione, stazione di Brignole occupata oltre agli insulti sessiti al premier Giorgia Meloni per la Cgil sono stati «disagi», non certo una guerriglia urbana molto vicina a una rivolta sociale.
Inoltre, nessun accenno alle polemiche e alla degenerazione scaturita venerdì scorso quando una parte della Fiom e alcuni esponenti politici hanno indetto uno sciopero territoriale a cui la Uilm non ha aderito. «Noi partecipiamo agli scioperi proclamati dalle organizzazioni sindacali legittimate, non da partiti politici o da singoli esponenti», aveva spiegato il segretario generale Uilm, Rocco Palombella, riferendosi alla proclamazione attribuita all’ex dirigente Fiom, Franco Grondona. Comunque, pur non partecipando all’assemblea dei lavoratori delegati e sindacalisti, si erano avvicinati ai cancelli dello stabilimento e lì «sono stati presi a calci e pugni da individui con la felpa Fiom. Un’azione premeditata di Lotta continua», aveva commentato Antonio Apa, segretario generale della Uil Liguria. «Un attacco squadrista», aveva rincarato la dose il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri.
A rimetterci, il segretario generale della Uilm Genova, Luigi Pinasco, raggiunto da alcuni cazzotti e da una testata, mentre il segretario organizzativo Claudio Cabras aveva ricevuto colpi al petto e a una gamba. Entrambi, finiti al pronto soccorso, hanno poi presentato denuncia in questura. E benché il leader nazionale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, abbia parlato di «episodio squadrista che rischia di portare a derive vicine al terrorismo», dai colleghi di Cgil e Cisl non è arrivata alcuna condanna. Anzi, in una nota congiunta del leader Maurizio Landini e del segretario generale della Fiom, Michele De Palma, si legge: «Il forte clima di tensione al presidio sindacale non può essere in alcun modo strumentalizzato né, tanto meno, irresponsabilmente associato al terrorismo. La Fiom e la Cgil si sono sempre battuti contro il terrorismo e per affermare la democrazia, anche a costo della perdita della vita come accaduto proprio all’ex Ilva di Genova al nostro delegato Guido Rossa. Restiamo impegnati a ripristinare un clima di confronto costruttivo e di rispetto delle differenze per dare una positiva soluzione alla vertenza ex Ilva, in sintonia con le legittime aspettative di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori rese manifeste dallo sciopero dei metalmeccanici tenutosi a Genova».
Quasi fosse responsabilità dei sindacalisti Uil, il segretario Landini ha minimizzato l’episodio così come continua a non voler vedere il distacco con la Uil, prima sempre al fianco della Cgil per scioperare e, soprattutto, attaccare il governo. Un fatto grave che non ha meritato parole di solidarietà. Fim e Fiom si scusano con i genovesi per i pesanti disagi provocati per la loro mobilitazione sul futuro dell’ex Ilva ligure ben sapendo che nell’ex Ilva di Taranto è proprio la Uilm il primo sindacato.
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La scritta apparsa a Marina di Pietrasanta (Ansa)
La polizia del commissariato di Forte dei Marmi ha avviato gli accertamenti per individuare i responsabili e sta verificando la presenza di telecamere nella zona che possano aver ripreso l’autore o gli autori del gesto. Non il primo ai danni del presidente del Consiglio, ma sicuramente annoverabile tra i più violenti.
Risale ad appena pochi mesi fa l’altra scritta che aveva suscitato parecchia indignazione: «Meloni come Kirk». Una frase per augurare al premier la fine dell’attivista americano Charlie Kirk, morto ammazzato durante un comizio a causa di una pallottola. Un gesto d’odio che evidentemente alimenta altro odio. La frase di Marina di Pietrasanta potrebbe essere una risposta a un’altra frase, pronunciata da Giorgia Meloni lo scorso 25 settembre in occasione di Fenix, la festa di Gioventù nazionale, partendo da una considerazione proprio sui post contro Charlie Kirk: «Non abbiamo avuto paura delle Brigate rosse, non ne abbiamo oggi». Fdi ha diffuso una nota dove si parla di «minacce al presidente Meloni, firmate dall’estremismo rosso: l’ennesima prova di un clima d’odio che qualcuno continua a tollerare». Nel testo si ribadisce che «la violenza si argina isolando i facinorosi, non strizzando loro l’occhio. La condanna unanime resta, per certa sinistra, ancora un esercizio difficile. Non ci intimidiscono. Non ci hanno mai intimidito». Anche la Lega ha espresso immediatamente la sua solidarietà al presidente del Consiglio. «Una frase aberrante, una minaccia di morte tutt’altro che velata. Auspichiamo una condanna unanime e bipartisan. Un clima d’odio inaccettabile che non può essere minimizzato», ha commentato Andrea Crippa, deputato toscano del Carroccio.
«Un gesto vile che conferma un clima di odio politico sempre più preoccupante. Da tempo denuncio questa deriva: nessun confronto può giustificare incitamenti alla violenza», commenta il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Parole di vicinanza e di condanna anche da parte del ministro della Salute, Orazio Schillaci, e dal ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «Un gesto intimidatorio inaccettabile».
«Ha ragione il ministro Crosetto: c’è il rischio di trovarsi da un giorno all’altro con le Brigate rosse 4.0 se si continuerà a minimizzare l’offensiva di violenza dell’estrema sinistra», sostiene il capo dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Piena solidarietà al Presidente del consiglio Giorgia Meloni per la scritta minacciosa», commenta Paolo Barelli (Fi): «È indispensabile uno stop immediato a questo clima avvelenato: serve una condanna unanime e trasversale, e occorre abbassare i toni per riportare il dibattito pubblico entro i confini del rispetto».
Per Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, si tratta di un fatto «gravissimo che va condannato senza ambiguità: evocare le Brigate rosse significa richiamare una stagione buia che l’Italia non vuole e non deve rivivere». Solidarietà anche da Maria Stella Gelmini .
Durissima la presa di posizione dell’Osservatorio nazionale Anni di Piombo per la verità storica, che parla di «atto infame» e di un gesto che «evoca la stagione del terrorismo e delle esecuzioni politiche».
Giornaliste italiane esprime «la più ferma condanna» per il gesto invitando «tutti i colleghi giornalisti, i media, le forze politiche, i rappresentanti della società civile a condannare e non far calare il silenzio su un episodio che colpisce le nostre istituzioni. Contribuire, ciascuno nel proprio ambito, alla costruzione di un clima pubblico rispettoso, lontano da logiche che alimentano tensioni e contrapposizioni assolute è una responsabilità che coinvolge tutti». Da Pd, Avs e M5s silenzio assoluto.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa dell'8 dicembre con Carlo Cambi