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2025-01-26
Rubio inizia a chiudere i rubinetti verso Kiev
Il neo segretario di Stato americano Marco Rubio (Ansa)
L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati.
Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.
Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.
Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.
Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.
Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.
Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto
Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato.
Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna.
Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini.
Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden.
Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
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Il nuovo segretario di Stato dà l’ok a una direttiva che pare tagliare gli aiuti militari a Zelensky (che tuttavia nega lo stop) e sospendere i programmi di accoglienza per rifugiati ucraini. È l’ennesimo segnale di un cambio di passo sul conflitto.Con la firma di due ordini esecutivi contro l'aborto, Trump cerca di ingraziarsi anche i vescovi americani con cui i rapporti sono tesi. Lo speciale contiene due articoli.L’amministrazione Trump sta riformulando la politica americana sul conflitto ucraino? Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dato l’ok a una direttiva che sospende per 90 giorni quasi tutti gli aiuti esteri da parte di Washington in vista di una loro revisione. Se i finanziamenti militari a Israele ed Egitto vengono salvaguardati, la situazione è invece più ambigua su Kiev. Non essendo citati esplicitamente altri Paesi esentati, Politico ha riportato che l’ordine approvato da Rubio «sembra applicarsi ai finanziamenti per l’assistenza militare all’Ucraina». Si tratta di una decisione che, se confermata, sarebbe significativa: tale direttiva si spingerebbe infatti oltre l’ordine esecutivo che, firmato da Donald Trump lunedì, prescriveva una sospensione di 90 giorni ai soli aiuti internazionali per lo sviluppo. Come che sia, ieri sera Volodymyr Zelensky ha negato che l’assistenza militare americana sarebbe stata interrotta. «Mi concentro sugli aiuti militari; non sono stati interrotti, grazie a Dio», ha detto. Dall’altra parte, mentre La Verità andava in stampa, chiarimenti ufficiali del Dipartimento di Stato non erano ancora arrivati. Già la precedente amministrazione aveva iniziato a esprimere freddezza verso gli aiuti civili a Kiev. «L’amministrazione Biden sta parlando con i leader ucraini della possibilità di condizionare i futuri aiuti economici “riforme per contrastare la corruzione e rendere l’Ucraina un luogo più attraente per gli investimenti privati”», riportò Politico a ottobre 2023. Oggi, Trump sembra però voler procedere a una revisione complessiva dell’assistenza all’Ucraina: sia civile che militare. Non solo. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha anche sospeso alcuni programmi di accoglienza temporanea per immigrati, tra cui un’iniziativa rivolta specificamente ai cittadini ucraini.Ora, ci sono due modi per interpretare il quadro. La prima opzione è la narrazione classica del Trump disinteressato a Kiev, pronto a cedere su tutta la linea a Vladimir Putin. La seconda opzione è invece quella di una fotografia ben più complessa. Il Partito repubblicano non è mai stato rigidamente compatto sulla guerra in Ucraina. Al suo interno c’è sicuramente un’anima più scettica che esprime disinteresse per il dossier. Tuttavia, al Congresso, l’ala maggioritaria è sempre stata rappresentata da chi auspicava, sì, il sostegno militare a Kiev, ma evitando al contempo quello che l’allora leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, definì, a ottobre 2022, un «assegno in bianco». In altre parole, una buona parte dei repubblicani non rimproverava a Joe Biden di fornire armi all’Ucraina. Gli rimproverava semmai di non inserire questo sostegno militare all’interno di una strategia dagli obiettivi bellici e politici definiti: una strategia che, in altre parole, potesse essere misurabile in termini di progresso, regresso o stallo.Del resto, un grosso problema in questi tre anni d’invasione russa è stata la scarsa chiarezza negli obiettivi politico-militari. Il Washington Post raccontò che la controffensiva ucraina del 2023 andò meno bene del previsto anche perché «a volte i funzionari statunitensi e ucraini si trovarono in netto disaccordo su strategia, tattica e tempistica». A marzo di quell’anno, Politico aveva anche riportato che Biden e Volodymyr Zelensky non erano affatto allineati sulla questione della riconquista della Crimea. Senza contare che lo stesso Biden, pur garantendo sostegno militare a Kiev, lo ha fatto spesso in modo irresoluto e confuso. «Biden si è opposto alla fornitura di molti importanti sistemi d’arma, come carri armati, aerei e artiglieria a lungo raggio prima di cambiare idea. Il risultato è che l’Ucraina ha avuto abbastanza armi per combattere ma non abbastanza per vincere», scrisse a dicembre 2023 sul National Interest Keith Kellogg, l’attuale inviato speciale di Trump per l’Ucraina.Alla luce di tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca punta probabilmente a una razionalizzazione dell’assistenza militare a Kiev. E ciò va letto sotto due aspetti. Il primo è rivolto all’esterno e va considerato come una ridefinizione della strategia americana. Il secondo è rivolto all’interno: è, cioè, un segnale a quella working class della Rust Belt che guarda con irritazione ai costi degli aiuti statunitensi all’estero. Si tratta di qualcosa che non va tuttavia confuso con l’appeasement. Trump teme infatti che l’Ucraina possa diventare ciò che l’Afghanistan fu per il predecessore: un vaso di Pandora in grado di innescare un effetto domino, capace di azzoppare la deterrenza degli Usa.Non a caso, mercoledì, Trump ha minacciato di colpire Mosca con sanzioni e dazi, se si rifiuta di concludere un accordo per la pace. Minacce che qualche effetto sembrano averlo sortito: non solo Putin ha aperto a un incontro col tycoon, ma ha anche iniziato a blandirlo, definendolo «intelligente» e «pragmatico». Magari sarà una forma di strategia. Ma, almeno per ora, lo zar sembra aver lasciato da parte i toni bellicosi. Tra l’altro, è per lui motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che Trump, a Davos, abbia garantito all’Europa delle forniture di gas naturale liquefatto statunitense. Le stesse dichiarazioni del presidente americano sulla Groenlandia sono state stranamente ricevute in modo remissivo da Mosca: un fattore significativo, soprattutto se consideriamo che, secondo il Pentagono, Russia e Cina hanno intensificato la cooperazione militare nell’Artico. Ed è qui il punto: Trump vuole far sì che la revisione della politica americana sull’Ucraina si accompagni a un progressivo ripristino della deterrenza nei confronti di Mosca.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marco-rubio-ucraina-2670999175.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-sempre-piu-pro-life-firmati-due-ordini-esecutivi-contro-laborto" data-post-id="2670999175" data-published-at="1737882527" data-use-pagination="False"> Trump sempre più pro life: firmati due ordini esecutivi contro l’aborto Donald Trump sta invertendo la rotta di Joe Biden sull’aborto. Il nuovo presidente americano ha graziato alcuni attivisti pro life che erano stati arrestati ai tempi della precedente amministrazione. Ha inoltre inviato un proprio intervento video alla marcia per la vita, tenutasi venerdì a Washington, in cui ha dichiarato: «Torneremo a sostenere con orgoglio le famiglie e la vita». Alla marcia ha, tra l’altro, preso parte di persona il vicepresidente, JD Vance. «Il nostro Paese si trova davanti al ritorno del presidente americano più pro famiglia e più pro life della nostra vita», ha detto, aggiungendo che Trump «ha mantenuto la promessa di porre fine alla sentenza Roe v Wade». «Voglio più bambini negli Usa. Voglio più bambini felici nel nostro Paese e voglio bei ragazzi e ragazze che siano ansiosi di accoglierli nel mondo e desiderosi di crescerli», ha anche affermato. Sempre venerdì, Trump ha siglato due ordini esecutivi. In uno, ha ripristinato la cosiddetta Mexico City Policy: una politica, risalente dall’amministrazione Reagan, che impedisce di promuovere l’interruzione di gravidanza a quelle organizzazioni internazionali che ricevono finanziamenti statunitensi. Si tratta di una direttiva che, a livello storico, viene puntualmente abrogata dai presidenti dem e altrettanto puntualmente ristabilita da quelli repubblicani. Nell’altro ordine esecutivo, Trump ha poi prescritto l’applicazione dell’emendamento Hyde: un dispositivo legislativo che impedisce l’uso di fondi federali per finanziare l’aborto, salvo i casi di incesto, stupro e rischi per la salute della donna. Con questi provvedimenti, il presidente ha lanciato un segnale chiaro al mondo pro life. A luglio, alcuni settori di quella galassia avevano storto il naso, dopo che Trump aveva fatto espungere dal programma del Partito repubblicano la proposta di un divieto federale all’interruzione di gravidanza. Il tycoon era infatti convinto che, alle elezioni di metà mandato del 2022, il Gop fosse andato peggio del previsto, in quanto percepito come troppo rigido sul tema dell’aborto. La posizione assunta da Trump già nel 2016 è del resto quella espressa dalla Corte Suprema, quando, due anni e mezzo fa, cassò Roe v Wade: e cioè che le decisioni sull’interruzione di gravidanza debbano essere lasciate ai parlamenti dei singoli Stati, che sono eletti dai cittadini. Un altro aspetto politico interessante risiede nel fatto che, con i suoi due decreti, Trump ha probabilmente voluto tendere un ramoscello d’ulivo anche alla Conferenza episcopale statunitense, con cui potrebbe avere delle tensioni a causa della linea dura sull’immigrazione clandestina. Tutto questo, fermo restando che il tycoon, a novembre, ha vinto nettamente nel voto cattolico contro Kamala Harris. E che alti esponenti del cattolicesimo americano non hanno affatto gradito la linea fortemente abortista dell’amministrazione Biden. Infine, vale la pena di fare un cenno alle potenti lobby pro choice che storicamente finanziano il Partito democratico. A giugno scorso, Planned Parenthood annunciò che avrebbe donato 40 milioni di dollari per sostenere i dem alle elezioni novembrine. Addirittura la Ceo dell’organizzazione, Lori Alexis McGill Johnson, ha parlato alla Convention nazionale dem del 2024, contribuendo inoltre alla campagna della Harris. Tutto questo, mentre la presidentessa di Reproductive Freedom for All, Mini Timmaraju, lavorò nel team elettorale di Hillary Clinton nel 2016 ed è stata anche senior advisor nell’amministrazione Biden. Insomma, finanziamenti e porte girevoli col Partito democratico non mancano di certo.
Getty Images
Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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