2025-01-13
Marcello Cattani: «Sui nuovi farmaci ci siamo fatti superare da Pechino»
Marcello Cattani (Imagoeconomica)
Il capo di Farmindustria: «Fino al 2000 l’Ue era prima al mondo in innovazione. Paghiamo la troppa attenzione data al green». «La Cina ha sorpassato l’Europa nel numero di nuovi farmaci immessi in commercio, gli Stati Uniti hanno mantenuto la posizione come quote di mercato internazionale e con l’arrivo, probabile, dei dazi del presidente Donald Trump, diventeranno ancora più competitivi nel settore. E l’Europa? Spiace dirlo, ma non pervenuta. È rimasta al palo, perdendo posizioni dal ruolo di leadership che aveva in passato». Marcello Cattani, presidente di Farmindustria, è un fiume in piena.Ci può dare qualche numero sulla dimensione del fenomeno Cina nell’industria farmaceutica?«Certo e sono allarmanti. Delle 90 nuove molecole arrivate sul mercato l’anno scorso, più della metà sono made in Usa, 25 arrivano dalla Cina e solo 17 dall’Europa. È un segnale preoccupante se pensiamo che fino al 2000 l’Europa era prima nell’innovazione. Significa che l’Unione europea non è più in grado di fare una politica strategica, che ha perso forza di attrazione per gli investimenti e capacità di fare ricerca. Eppure l’industria farmaceutica rappresenta il primo settore in Europa per surplus con l’estero con un saldo positivo di 158 miliardi nel 2023 e investimenti in ricerca e sviluppo pari a 50 miliardi nello stesso anno. A livello globale tra il 2025 e il 2030 le imprese investiranno in ricerca e sviluppo 2.000 miliardi di dollari ma la Ue ne attrae sempre meno. Negli ultimi dieci anni ha dimezzato la sua quota nella ricerca clinica mondiale. Non possiamo permetterci di perdere un patrimonio così importante».Come è potuto accadere?«Durante il Covid, Pechino ha compreso in maniera chiara il valore strategico della salute e quindi l’importanza di avere un’industria farmaceutica concorrenziale. Il presidente Xi Jinping, a luglio 2022 ha annunciato un piano da 600 miliardi di dollari per potenziare le scienze della vita e il 24 giugno scorso ha ribadito che l’innovazione tecnologica sarà un campo di battaglia internazionale. Questo fa capire in che modo si stanno muovendo i colossi mondiali. E l’Europa? Non pervenuta per una serie di errori politici di visione strategica, per l’attenzione prioritaria alla transizione ecologica più che all’innovazione e alla ricerca tecnologica. La decrescita felice del Green Deal sta uccidendo l’industria europea. Nel decennio 2013-2023 in Cina c’è stata una impressionante crescita della quota a livello globale di studi clinici passati dall’8% al 29% mentre gli Stati Uniti mantengono sempre un ruolo prioritario. L’Europa, fanalino di coda, è invece passata dal 18% al 9%».Cosa dovrebbe fare l’Europa per recuperare il tempo perduto?«La prima legislatura di Ursula von der Leyen mi ha deluso e nel secondo mandato serve un chiaro cambiamento di marcia valorizzando i report di Enrico Letta e di Mario Draghi che hanno messo l’industria farmaceutica al centro della crescita economica. Negli ultimi 25 anni l’Europa ha perso il 25% di investimenti in ricerca e sviluppo rispetto agli Stati Uniti. Oltre alla Cina avanzano anche altri Paesi come l’India, l’Arabia, la Corea del Sud. Ciò che ci penalizza è la burocrazia che rallenta le fasi decisionali sull’immissione dei nuovi farmaci sul mercato».Ci faccia qualche esempio di questa lentezza burocratica.«Un farmaco dopo aver superato l’esame dell’Ema, l’ente di regolamentazione europeo, che rispetto ai tempi del Fda americano ci mette un anno di più, è sottoposto all’analisi dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che impiega circa 14 mesi per dare il via libera. Infine serve il semaforo verde delle Regioni che arriva in media dopo 16 mesi. Il risultato è che oggi il 50% dei nuovi farmaci non arriva in Europa perché l’Ema li blocca. Nella Unione europea ci sono 27 agenzie con poteri regolatori e tempi diversi per 27 Paesi. Servirebbe un coordinamento».Qualcuno potrebbe dire che l’Ema e l’Aifa italiana effettuano esami più accurati della Fda americana.«Non mi risulta. È un problema di complessità delle procedure, non di più o meno attenzione. In Italia si fa un gran parlare di digitalizzazione, ma ancora manca l’applicazione su larga scala dei dati digitali soprattutto nel settore della salute. Nel nostro Paese manca un registro vaccinale nazionale, si traccia solo la spesa. Le Regioni vanno accompagnate nella digitalizzazione, che è un cambio di mentalità oltre che di competenze. Inoltre bisogna superare il pregiudizio della competizione tra pubblico e privato. O si lavora insieme non si va da nessuna parte. Il pubblico da solo non ce la fa».A che punto è la proposta di legislazione farmaceutica europea?«Noi speriamo che venga riformulata. Bruxelles sta andando nella direzione opposta a quella che mette l’industria del farmaco in condizione di competere a livello internazionale. Mi riferisco all’intenzione di accorciare i tempi della proprietà intellettuale, tagliando di due anni la data protection. Rischiamo di essere ancora meno competitivi rispetto agli Usa e all’Oriente che sta crescendo a vista d’occhio. Ricordiamoci che l’Europa già sconta condizioni difficili sull’approvvigionamento di energia e materie prime».Il caro energia come impatta nel settore?«L’aumento del costo dell’energia è solo una voce tra le tante di rincari. Mi riferisco agli imballaggi, per non parlare dei principi attivi di provenienza cinese e indiana. Anche su questo tema scontiamo politiche miopi del passato che hanno spinto alcuni settori a delocalizzare in Cina e India. Ora questi Paesi sono diventati monopolisti del settore e impongono i prezzi che vogliono. Servirebbe una politica in grado di incentivare il reshoring delle attività strategiche, ma non vedo segnali in questa direzione. I nuovi rincari dell’energia preoccupano anche nel 2025».Quale è la situazione in Italia?«Il nostro Paese ha archiviato una performance solida nell’ultimo anno, a partire dall’incremento dell’export, che secondo l’Istat ha superato i 49 miliardi di euro nel 2023 con una produzione di oltre 50 miliardi. È il dato più alto di sempre, con una crescita di quasi il 3% rispetto al 2022 e di quasi il 90% negli ultimi 5 anni. Possiamo dire che il settore è uscito più forte dal Covid perché è maturata la consapevolezza delle capacità in termini di competenze della nostra industria. Mi sarei aspettato però che l’ultima legge di Bilancio contenesse un aumento delle risorse destinate alla spesa farmaceutica pubblica, invece così non è stato. Eppure c’è il problema dell’invecchiamento della popolazione e della necessità di maggiori cure. Il livello di finanziamento e i modelli di gestione della spesa andrebbero adeguati a questo trend. Ci preoccupa anche l’applicazione del regolamento Ue sulla tracciatura europea dei medicinali».Di cosa si tratta?«A partire dal 9 febbraio l’industria farmaceutica sarebbe obbligata ad adottare alcune disposizioni di cui a oggi non sono note nemmeno le specifiche tecniche. Disposizioni che richiederebbero passaggi amministrativi e autorizzazioni ancora non chiari. Nei testi preliminari circolati sulla stampa mancano ancora elementi ovvi come il necessario periodo di transizione di almeno 24 mesi per gli adempimenti richiesti alle aziende e come la certezza di poter continuare ad operare secondo gli standard oggi vigenti per un periodo atto ad aggiornare le proprie procedure. La legge delega prevede un tempo congruo di adattamento, tutti i Paesi lo hanno avuto. Dobbiamo averlo anche per l’Italia altrimenti nel rispetto di altre normative, le aziende non potrebbero procedere al rilascio per la commercializzazione dei lotti dei farmaci prodotti il 9 febbraio 2025. Questo significherebbe il rischio concreto e drammatico di carenze di medicinali, anche per patologie gravi, e di blocco della produzione. Ne stiamo parlando con il ministero della Salute e siamo fiduciosi in una soluzione adeguata per il bene di tutti i cittadini».