2023-04-03
«Insetti e carne sintetica? Qui ci saranno le barricate»
Nel riquadro lo chef Jacopo Malpeli (iStock)
Lo chef dell’Osteria del Viandante, Jacopo Malpeli: «Quasi nessuno mangerebbe bistecche non naturali. Per salvare l’ambiente si torni al “poco, ma buono”. Ma giù le mani dai piatti della nonna».Parafrasando Italo Calvino si potrebbe dire che se una notte (in qualsiasi stagione) un viandante avesse appetito di buono approderebbe alla Rocca di Rubiera che è insieme onfalos, cioè pietra sacra, punto d’equilibrio, e limes, cioè confine, tra l’apparire di una contemporaneità tremebonda e l’essere di una civiltà di millenarie certezze. Con spirito calvinista qui si guarda alle azioni piuttosto che alle proposizioni e con sapienza rinascimentale qui si celebra la centralità dello spirito umano. È il paradigma dell’Osteria del Viandante che assurge ad archetipo della nuova-antica cultura gastronomica italiana, che è l’alcova dell’identità di una cucina materica, contadina, raffinatissima e che viene amplificata da un contesto dove arte e arte di vivere s’alimentano in un’elegante circolarità virtuosa. È la casa di Jacopo Malpeli - stellato Michelin - di una passione gastronomica che si è fatta mestiere, e di un’amicizia con un compagno di scuola divenuto sodale di strada e di fatica, Leonardo Giribaldi. Si potrebbe dire che Jacopo è in qualche modo uno e bino. «Dilla meglio», esorta, «uno e vino! Perché l’amicizia tra me e Leonardo che si è fatta mestiere comune nasce dalla nostra avventura di adolescenti curiosi di Bacco». Entrando all’Osteria del Viandante (alle bellissime sale da pranzo e alla cucina che pare un’astronave di acciaio e rami lucidissimi lanciata nell’universo del piacere gastronomico s’accede, varcata la soglia medievale, da una scala regia) sulla sinistra c’è un inaccessibile sancta sanctorum. Custodisce tutti gli immensi vini francesi di Marco Bizzarri, il patron che ha fatto rinascere l’Osteria e che con questa sua passione enoica ripropone lo spirito di Gucci, ma c’è anche il meglio dell’Italia in vigna raccomandato dai due cucinieri. Si viene qui per evitare di smarrirsi tra carne in provetta e zuppa di cavalletta, si viene qui per confermarsi nel valore della cucina italica che chiede riconoscimento Unesco. «Che ci dovrebbe essere dato senza chiederlo» esordisce in questa chiacchierata Jacopo, 40 anni vissuti appetitosamente.Com’è cominciata?«Con la curiosità e il desiderio di stare bene. I ragazzi parmigiani hanno un inconscio gastronomico. Per me e per Leonardo è stato gioco, passione, studio. Facevamo il liceo classico da compagni di banco e poi il pomeriggio lasciato da parte Senofonte cucinavamo per bere. Poteva diventare un mestiere? Non lo sapevamo. Fatto sta che io ho continuato con i corsi di sommelier. Allora non era ancora esplosa la moda, era una sorta di ricerca filologica del piacere quella che mi conduceva a degustare, capire. Poi quando dovevo scegliere l’Università ha aperto Alma, a due passi da casa. E ci siamo ritrovati lì con Leonardo. Siamo di Parma e Colorno era la reggia estiva dell’arciduchessa Maria Luigia, andare a casa sua a imparare la gastronomia era una spinta irrefrenabile».Gualtiero Marchesi come primo maestro?«Sì, nel senso che ho fatto il primo corso di Alma messo in piedi e diretto da Marchesi. Ma il motore della nostra curiosità verso la cucina è stato Fulvio Pierangelini. Attorno al 2000 era all’apice, aveva sdoganato in un ristorante stellato la pappa al pomodoro e a noi dava la spinta a considerare che la cucina delle nostre radici potesse assurgere alla massima qualità».Il futuro però dicono che saranno gli insetti, per il bene del pianeta…«Premesso che ognuno è libero di mangiare quello che gli pare, non credo proprio che quello sia il futuro. Per coltivare la mia passione ho percorso in lungo e in largo il mio territorio, da Piacenza a Bologna credo di conoscere tutto: tutta la campagna, tutte le ricette. Non c’è un motivo al mondo per dire che mangiare insetti salva il pianeta o che c’è necessità di farlo. Mi pare che si stia smarrendo il primo degli ingredienti: il buon senso. Se si vuole davvero fare un’azione di armonia, di riequilibrio si deve tornare alla cultura italica: poco ma buono, poco di tutto e il meglio per tutti».Vale anche per la carne in provetta?«Stiamo parlando di una microfrangia che forse sarebbe disposta a consumarla. Torno lì: una volta la carne si metteva in tavola una o due volte alla settimana. Non credo che serva a salvare il pianeta mangiare carne costruita in laboratorio, serve un consumo consapevole. E comunque in questo periodo credo che nessuno sia disposto a mangiarla. Stiamo vivendo a livello gastronomico una fortissima innovazione che è basata su di una rivalutazione della tradizione. Il tempo degli Adrià è tramontato, anche René Redzepi era tornato alla cucina del fuoco diretto, degli elementi naturali. In questo periodo chi viene al ristorante vuole essere rassicurato, vuole sentirsi tranquillo, coccolato e per ottenere questo devi per forza attingere alla tradizione che vuol dire fare cucina contemporanea».Dunque non c’è spazio per la dieta omologata che sembrano voler imporre le multinazionali con la finta carne, il veganesimo a ogni costo, gli insetti?«Se coltivano l’idea di standardizzare la cucina e il gusto con delle linee guida magari motivate con diversi allarmi, dall’ambiente alla salute, devono sapere che stanno conducendo una battaglia contro i mulini a vento. Gli italiani sarebbero pronti a fare la rivoluzione, sono certo che su questo farebbero le barricate. Chi andasse a toccare i piatti della nonna rischia la vita! Noi in Italia siamo trincerati dietro il bastione di un’enorme biodiversità che alimenta una cucina territoriale che si è definita nelle campagne. Noi siamo tutelati da questo. Se poi c’è da fare degli adeguamenti è ovvio che si fanno, la tradizione evolve, ma non c’è alcuna possibilità, né alcuna necessità di sconvolgerla, né di rinunciare alla nostra straordinaria biodiversità».Da questo nasce il recupero del Savarin alla moda di Cantarelli, il vostro piatto forte?«È un’esigenza prima ancora che una scelta. Ho imparato tanto da Marco Dallabona che sta a Soragana e lui ha conosciuto di persona Peppino e Mirella Cantarelli. Loro hanno segnato una svolta nella cucina italiana. Era un obbligo di testimonianza e una scelta di piacere e culturale riproporre il loro Svarin, noi cerchiamo di farlo il più filologico possibile».Ma con la carne in provetta addio lingua salmistrata…«Un motivo in più per non crederci. Se si fa la carne in provetta la mia lingua me la posso scordare! Dopo gli anni Cinquanta i tagli del quinto quarto, l’anteriore del manzo, sono stati demonizzati. Invece lì risiede il nostro immenso patrimonio gastronomico. Qui all’Osteria del Viandante si è sempre fatta la cucina del quinto quarto, da vent’anni. Io l’ho mangiata qui da cliente e ora la faccio da cuoco. L’alta cucina è riuscire a valorizzare questi tagli. Che è anche il miglior modo per evitare la carne in provetta».Perfino Alain Ducasse ha affermato che la cucina italiana è imbattibile perché conta su ingredienti di qualità assoluta. Non si rischia di distruggere tutto con i novel food? Di azzerare quegli artigiani del gusto che sono i vostri fornitori?«Quelli sono degli eroi. Ci collaboro da anni, ormai c’è una condivisione di valori e intenti. Che vuoi dire a uno che si mette ad allevare di nuovo le trote in un paese abbandonato dell’Appennino? O a un altro che nella campagna di Fidenza fa il migliore grano Senatore Cappelli possibile fregandosene delle rese? O chi alleva maiali con una passione e un sacrificio maniacale per darti dei prosciutti che sono opere d’arte? I novel food sono roba da industria. Non c’interessano Noi abbiamo una biodiversità unica: siamo stretti e lunghi e stiamo, o forse stavamo, in una fascia climatica eccezionale. Forse solo il Portogallo ha qualcosa di simile. La nostra ricchezza e il valore della nostra cucina sta lì. Quella biodiversità va preservata, ma va anche coltivata».La cucina italiana merita il riconoscimento di patrimonio culturale dell’umanità?«Ma lo è già nei fatti. È la più imitata e la più desiderata al mondo; è una cucina tradizionale che esalta la materia prima artigiana e contadina, è insuperabile. È però vero che al contrario dei francesi non siamo in grado di fare corporazione, tendiamo a fare troppo individualismo. E questo depotenzia la nostra qualità che non ha eguali al mondo. La nostra forza è il made in Italy in tutti i suoi prodotti, in tutte le sue forme ed espressioni. Quello dobbiamo promuovere e preservare. Poi se ci danno le targhe o le medaglie poco importa».È vero che non si trovano più aspiranti cuochi, aspiranti maitre?«È vero che c’è meno interesse verso questo lavoro e c’è anche meno disponibilità al sacrificio. Rispetto a dieci anni fa, quando c’è stata la bolla con i ragazzi che dicevano di voler fare il cucco come prima dicevano di voler fare il calciatore, si fa più fatica a trovare personale. Questo è un mestiere faticoso e di sacrificio: tu lavori quando gli altri si divertono. Ed è qui la chiave. Bisogna formare i giovani a comprendere il valore culturale della cucina e il valore umano del nostro operare. Noi riceviamo anche grandissime soddisfazioni dai clienti, il loro appagamento è la nostra ricompensa. Certo poi c’è il discorso economico, ma se si lavora bene si riesce ad avere il giusto. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che noi siamo spacciatori di felicità. E non c’è niente di più bello».E il piatto della felicità di Jacopo Malpeli qual è?«La mia felicità è l’amicizia con i clienti, con Leonardo, le nostre famiglie sono di fatto una cosa sola, i suoi figli sono i miei nipoti. Il cibo della felicità è il pane: il pane deve essere buono. A me piacciono tanto le verdure, con l’olio extravergine buono. Però se devo dirla tutta da parmigiano il vero cibo della felicità è pane, salame e un bicchiere di Lambrusco, ma di quello buono davvero.»
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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