2021-02-25
Malati abbandonati, la cura a casa resta tabù
Da mesi si parla di approntare protocolli adeguati per l’assistenza domiciliare, ma di fatto chi ha il Covid viene lasciato a sé stesso I medici prescrivono Tachipirina e invitano a chiamare il 118. Parenti delle vittime furiosi: «Chi risponde per i nostri cari defunti?»«ll mio medico di base consiglia solo Tachipirina e non fa visite a domicilio. Se la febbre si alza, mi ha detto di chiamare il 118». È una delle tante, sconcertanti segnalazioni che arrivano alla Verità. Confermano che molti positivi al Covid vivono in un limbo, privi di assistenza. Troppe persone si sentono abbandonate, impaurite scelgono l’ospedale pur di non restare a casa senza cure. «La pandemia non si batte solo con il buon governo centrale o territoriale: l’arma in più è la collaborazione attiva di ogni persona», dichiarava ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza. Altro che impegno del singolo cittadino, nuovamente atterrito dalle notizie sulle varianti (inevitabili) di un virus che circola. La realtà è un’altra. A distanza di un anno dall’inizio della pandemia, la medicina territoriale non offre risposte ai malati di Covid. Eppure il professor Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, da mesi lo ripete: «Questa è un’infezione che andrebbe curata a domicilio». Alla Verità, l’eminente virologo ha detto: «Questa pandemia, prima che un problema assistenziale è un problema di sanità pubblica». Se i malati di Covid «arrivano in ospedale senza essere stati trattati con quei pochi farmaci che abbiamo a disposizione», aveva aggiunto, «per loro diventa troppo tardi. Una percentuale di queste persone finisce in rianimazione». Secondo il professore, «la Tachipirina è del tutto inutile per non dire dannosa», però questo antidolorifico riduttore della febbre, a base di paracetamolo, continua a essere consigliato da medici di famiglia nei pazienti affetti da coronavirus «a basso rischio». E nelle linee di indirizzo Aifa, sulle principali categorie di farmaci da utilizzare nella gestione a domicilio dei casi di Covid-19 si legge che «paracetamolo o fans (farmaci antinfiammatori non steroidei, ndr) possono essere utilizzati in caso di febbre o dolori articolari o muscolari». Sempre sulla necessità di un protocollo per curare i pazienti a casa, lo scorso 3 febbraio il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco ci aveva confermato di averle «sollecitate direttamente al ministro Roberto Speranza, e mi ha confortato sapere che ha già affidato il compito all’Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che si occupa di salute pubblica ed entra proprio nel merito dell’assistenza territoriale». Il 19 febbraio, l’Agenas ha pubblicato i «Criteri di appropriatezza per i setting assistenziali di gestione dei pazienti affetti da Covid-19». Quando si arriva al ruolo che deve svolgere il medico a domicilio, leggiamo che «dovrebbe valutare il complesso delle informazioni disponibili, relative a parametri di interesse e ai fattori di rischio per decidere la giusta allocazione del paziente» e si rimanda all’apposita circolare del ministero della Salute dello scorso dicembre. In quel documento, per soggetti con caratteristiche cliniche quali febbre superiore a 37,5°, malessere, cefalea, congestione nasale, tosse, diarrea, perdita totale della capacità di percepire gli odori, alterata capacità di percepire e distinguere i sapori, l’avvertenza è che «non è indicata alcuna terapia al di fuori di una eventuale terapia sintomatica di supporto». Tra le indicazioni «di gestione clinica» ci sono «vigile attesa» (di che cosa?) e «trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo)». È evidente che queste non possono essere linee guida. E che, nell’assenza di un protocollo preciso, vengono adottate iniziative autonome come quelle avviate dal «Comitato cure domiciliari Covid», fondato dall’avvocato Erich Grimaldi di Napoli, che già un anno fa aveva creato il gruppo Facebook #Esercitobianco a supporto degli operatori sanitari impegnati nella lotta al coronavirus. Non sono indicazioni universali, ogni singolo caso andrebbe valutato, secondo i medici che hanno aderito al comitato. Non hanno nulla a che fare con i no vax, definiscono uno schema terapeutico per la cura domiciliare del Covid-19 dando supporto a pazienti positivi in tutta Italia. In linea generale, prevedono la somministrazione di eparina «a dosaggio profilattico» (quindi a scopo di prevenzione), di idrossiclorochina e di azitromicina, entrambe non raccomandate dall’Aifa che ne prevede l’uso «esclusivamente nell’ambito di studi clinici». Una eventuale prescrizione «nei singoli casi si configurerebbe quindi come uso off label», ovvero al di fuori delle condizioni autorizzate. Può essere aggiunto il desametasone, che è un antinfiammatorio e viene consigliato l’utilizzo della vitamina D secondo quanto riportano diversi studi americani. Lo schema avrebbe permesso di curare molti casi, evitando il più possibile il ricovero e i decessi. Di fatto, dopo aver condiviso l’intervista della Verità al professor Palù, in cui il l’esperto dichiara l’inutilità della Tachipirina che anzi può essere dannosa, sui social Rosanna Guatta ha scritto: «Questo lo dedico a mio fratello morto il 16 marzo a 53 anni senza patologie pregresse e non curato a casa. Ti voglio bene fratello mio, che sia risparmiata la tua fine a molte persone». Matte Manu è disperato: «Mio padre è deceduto ed è stato curato dal medico di base al telefono con Tachipirina e Fluimucil, senza prendere in considerazione la sua anamnesi clinica, chi deve rispondere di tutto questo? Dovete darci una risposta. Sono troppi i morti».
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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