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2024-12-12
Gara Macron-Orbán per chi risolve per primo il rompicapo ucraino
Viktor Orbán ed Emmanuel Macron (Ansa)
L’insediamento di Donald Trump si avvicina. E intanto, nel Vecchio Continente, si stanno mettendo in moto iniziative diplomatiche in vista delle trattative per risolvere la crisi ucraina. Ieri, Viktor Orbán ha avuto una telefonata con Vladimir Putin. «Stamattina ho avuto una conversazione telefonica di un’ora con il presidente Putin. Stiamo vivendo le settimane più pericolose della guerra in Ucraina. Stiamo usando tutti i mezzi diplomatici disponibili per contribuire a un cessate il fuoco e ai colloqui di pace», ha dichiarato il premier ungherese che, criticato poi da Volodymyr Zelensky per la telefonata, ha accusato quest’ultimo di aver rifiutato un cessate il fuoco a Natale (circostanza negata da Kiev). Dal canto suo, il Cremlino ha riportato che, durante il colloquio, «Putin ha delineato le sue valutazioni fondamentali sugli attuali sviluppi in Ucraina e sulla linea distruttiva del regime di Kiev, che continua a escludere la possibilità di una risoluzione pacifica del conflitto».
Dall’altra parte, oggi Emmanuel Macron incontrerà Donald Tusk, che, appena l’altro ieri, aveva reso noto che le trattative ucraine inizieranno probabilmente quest’inverno. Secondo Politico, i due leader dovrebbero discutere «dell’invio di una forza di mantenimento della pace postbellica in Ucraina». La proposta sarebbe stata avanzata dal presidente francese, anche se - stando a quanto riferito dalla testata - avrebbe, almeno al momento, lasciato fredda la Polonia, che vorrebbe discutere la questione in sede Onu od Osce e non a livello bilaterale.
È comunque interessante notare come, negli scorsi giorni, Trump avesse incontrato sia Orbán che Macron. In particolare, aveva ricevuto il premier ungherese in Florida lunedì, mentre sabato aveva preso parte a un trilaterale all’Eliseo insieme al leader francese e a Volodymyr Zelensky. A tal proposito, ieri Reuters ha rivelato alcuni dettagli del vertice parigino. Nell’occasione, il presidente ucraino aveva fatto presente «la necessità dell’Ucraina di garanzie di sicurezza in un’eventuale conclusione negoziata della guerra con la Russia». Dal canto suo, Trump si era «comportato in modo amichevole, rispettoso e aperto e sembrava essere in modalità ascolto». Durante il meeting, il presidente americano in pectore aveva, in particolare, invocato un cessate il fuoco e il rapido avvio di negoziati.
Insomma, è chiaro che l’avvicinarsi dell’insediamento di Trump sta mutando il paradigma. Ed ecco spiegato l’attivismo diplomatico (e forse in concorrenza) di Orbán e Macron, che puntano a ritagliarsi un ruolo centrale nel processo negoziale. Il tycoon sembra scommettere maggiormente sul premier ungherese. E lo scetticismo mostrato da Varsavia sulle iniziative di Macron testimonia la difficoltà del presidente francese nel farsi strada. In fin dei conti, il capo dell’Eliseo ha un duplice problema. Primo: i suoi rapporti con Trump storicamente non sono mai stati idilliaci. Secondo: Macron, sulla crisi ucraina, ha incarnato tutto e il contrario di tutto. Prima si era presentato come una colomba: telefonava a Putin e diceva che lo zar non andava umiliato. Poi, da quest’anno, si è reinventato falco antirusso ai limiti del bellicismo. Due atteggiamenti contraddittori con cui non ha portato a casa nulla.
Certo, è vero che Trump pretenderà probabilmente un maggiore coinvolgimento degli europei nello scacchiere ucraino anche in termini di peacekeeping, ma difficilmente Macron rientrerà nella strategia politico-diplomatica del tycoon. E comunque attenzione: Trump potrebbe non guardare soltanto a Orbán. Non è infatti escludibile che il tycoon possa coinvolgere nel processo l’India e, soprattutto, la Turchia. Senza infine trascurare Varsavia. Non dimentichiamo infatti che l’inviato speciale per l’Ucraina da lui nominato, Keith Kellogg, aveva avuto un incontro a maggio con l’attuale ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski. D’altronde, la strategia diplomatica che Trump ha intenzione di implementare appare piuttosto articolata. E punta a mettere sotto pressione sia Putin che Zelensky.
Il presidente americano in pectore vuole che il leader ucraino accetti di sedersi al tavolo delle trattative, abbandonando la sua storica precondizione: e cioè che le truppe russe si ritirino unilateralmente dai territori occupati. Si tratta di una richiesta che Trump considera infatti irrealistica. In tal senso, il tycoon ha ventilato l’ipotesi di ridurre l’assistenza a Kiev e non ha confermato né smentito l’esistenza della presunta telefonata che avrebbe avuto con Putin dopo la vittoria elettorale di novembre. Un’ambiguità strategica con cui Trump vuole far capire a Zelensky che, in caso di sua eccessiva rigidità, sarebbe disposto a trattare anche senza di lui. Dall’altra parte, convinto che la pace non possa essere scissa dalla deterrenza, il presidente americano in pectore sta mettendo pressione anche a Putin. Ha enfatizzato il fatto che lo zar ha abbandonato il regime di Bashar Al Assad in Siria, aggiungendo che, in Ucraina, Mosca «ha perso». Inoltre, Trump non ha preso le distanze dall’autorizzazione, concessa a Kiev da Joe Biden, di usare i missili Atacms in territorio russo.
Proprio ieri, Mosca ha accusato l’Ucraina di aver attaccato un aeroporto militare nella città di Taganrog con sei missili di questa tipologia. «Questo attacco con armi occidentali a lungo raggio non rimarrà senza risposta e saranno prese misure appropriate», ha tuonato il ministero della Difesa russo. A novembre, il Cremlino aveva modificato la propria dottrina nucleare, stabilendo che l’impiego di missili a lunga gittata avrebbe potuto consentire una risposta atomica. Inoltre, sempre ieri, un funzionario americano ha riportato all’Associated Press che Mosca potrebbe presto riutilizzare contro l’Ucraina il missile balistico a raggio intermedio già impiegato il 21 novembre.
Forse c’è da preoccuparsi, forse no. Non è insolito che, prima dell’avvio di trattative, venga alzata la tensione. È la de-escalation attraverso l’escalation. Vincerà il più imprevedibile.
Ambasciata, a Roma un Trump texano
Non è ancora ufficiale. Tuttavia, secondo la Cbs, Donald Trump avrebbe probabilmente scelto il prossimo ambasciatore americano in Italia. Si tratterebbe di Tilman Fertitta. Miliardario texano, è presidente e ceo di Landry, una mega società di alberghi, casinò e ristoranti, con un fatturato di circa tre miliardi di dollari e con oltre 50.000 dipendenti. È anche il proprietario degli Houston Rockets, squadra di basket di Houston che compete nella Nba. Negli ultimi giorni, si è inoltre detto interessato a comprare la squadra di football dei New Orleans Saints.
Amico di Trump e storico finanziatore del Partito repubblicano, quattro anni fa, secondo Forbes, effettuò qualche donazione anche alla campagna di Joe Biden. Tra l’altro, Fertitta è un buon amico del senatore democratico dell’Arizona, Mark Kelly: il che potrebbe favorire la ratifica della sua eventuale nomina alla camera alta. Nel 2020, Fertitta fu nominato dal governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, in una commissione incaricata di riaprire progressivamente le varie attività dello Stato a seguito della pandemia di Covid-19.
Staremo a vedere se, nelle prossime ore o nei prossimi giorni, la nomina di Fertitta sarà ufficializzata da Trump: una nomina che, in caso, dovrà ottenere il via libera definitivo dal Senato. Certo è che il prossimo ambasciatore americano in Italia potrebbe ritrovarsi a svolgere un ruolo geopoliticamente importante. Il Mediterraneo allargato rappresenta un’area sempre più cruciale per gli Stati Uniti: un’area che deve essere urgentemente stabilizzata per consentire a Washington di concentrarsi con maggiore impegno sull’Indo-Pacifico.
Non è quindi affatto escludibile che la nuova amministrazione Trump possa decidere di scommettere sull’Italia per conseguire questo fondamentale obiettivo. Roma potrebbe giocare innanzitutto un ruolo di mediazione, qualora gli Accordi di Abramo venissero estesi al Magreb. Giorgia Meloni potrebbe, in particolare, mettere a frutto le relazioni tessute in Nord Africa nell’ambito del Piano Mattei. In secondo luogo, Trump ha un duplice problema: pur non volendo impegnarsi troppo direttamente, ha necessità di recuperare influenza sul Sahel, dopo che Emmanuel Macron e Joe Biden l’hanno perduta nel corso degli ultimi anni. Ecco quindi che Roma potrebbe giocare un ruolo significativo anche da questo punto di vista.
Infine, ma non meno importante, il prossimo ambasciatore sarà anche incaricato di vigilare sul dossier cinese. Pechino è infatti interessata a rafforzare la sua influenza sul nostro Paese, anche se ultimamente ha subito alcune battute d’arresto: l’anno scorso, Giorgia Meloni non ha infatti rinnovato il controverso memorandum sulla Nuova via della seta. Del resto, nonostante una certa vulgata continui a sostenere che Trump ami Giuseppe Conte, i rapporti tra Stati Uniti e Italia divennero particolarmente tesi nel 2020 ai tempi del governo giallorosso. Il dipartimento di Stato americano era infatti assai preoccupato per l’avvicinamento che quell’esecutivo aveva promosso verso la Repubblica popolare. Stavolta, con l’attuale governo italiano, i rapporti tra Roma e Washington si avviano a rivelarsi assai più distesi sul dossier cinese.
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Il leader ungherese sente Putin dopo aver incontrato Trump, mentre il francese vedrà Tusk e ha ospitato il tycoon e Zelensky. Il magiaro ha un vantaggio: i rapporti di Parigi con Donald sono da sempre complicati.Secondo indiscrezioni, The Donald vorrebbe inviare nella sede diplomatica capitolina Tilman Fertitta, miliardario con interessi nei casinò e patron degli Houston Rockets.Lo speciale contiene due articoli.L’insediamento di Donald Trump si avvicina. E intanto, nel Vecchio Continente, si stanno mettendo in moto iniziative diplomatiche in vista delle trattative per risolvere la crisi ucraina. Ieri, Viktor Orbán ha avuto una telefonata con Vladimir Putin. «Stamattina ho avuto una conversazione telefonica di un’ora con il presidente Putin. Stiamo vivendo le settimane più pericolose della guerra in Ucraina. Stiamo usando tutti i mezzi diplomatici disponibili per contribuire a un cessate il fuoco e ai colloqui di pace», ha dichiarato il premier ungherese che, criticato poi da Volodymyr Zelensky per la telefonata, ha accusato quest’ultimo di aver rifiutato un cessate il fuoco a Natale (circostanza negata da Kiev). Dal canto suo, il Cremlino ha riportato che, durante il colloquio, «Putin ha delineato le sue valutazioni fondamentali sugli attuali sviluppi in Ucraina e sulla linea distruttiva del regime di Kiev, che continua a escludere la possibilità di una risoluzione pacifica del conflitto».Dall’altra parte, oggi Emmanuel Macron incontrerà Donald Tusk, che, appena l’altro ieri, aveva reso noto che le trattative ucraine inizieranno probabilmente quest’inverno. Secondo Politico, i due leader dovrebbero discutere «dell’invio di una forza di mantenimento della pace postbellica in Ucraina». La proposta sarebbe stata avanzata dal presidente francese, anche se - stando a quanto riferito dalla testata - avrebbe, almeno al momento, lasciato fredda la Polonia, che vorrebbe discutere la questione in sede Onu od Osce e non a livello bilaterale.È comunque interessante notare come, negli scorsi giorni, Trump avesse incontrato sia Orbán che Macron. In particolare, aveva ricevuto il premier ungherese in Florida lunedì, mentre sabato aveva preso parte a un trilaterale all’Eliseo insieme al leader francese e a Volodymyr Zelensky. A tal proposito, ieri Reuters ha rivelato alcuni dettagli del vertice parigino. Nell’occasione, il presidente ucraino aveva fatto presente «la necessità dell’Ucraina di garanzie di sicurezza in un’eventuale conclusione negoziata della guerra con la Russia». Dal canto suo, Trump si era «comportato in modo amichevole, rispettoso e aperto e sembrava essere in modalità ascolto». Durante il meeting, il presidente americano in pectore aveva, in particolare, invocato un cessate il fuoco e il rapido avvio di negoziati.Insomma, è chiaro che l’avvicinarsi dell’insediamento di Trump sta mutando il paradigma. Ed ecco spiegato l’attivismo diplomatico (e forse in concorrenza) di Orbán e Macron, che puntano a ritagliarsi un ruolo centrale nel processo negoziale. Il tycoon sembra scommettere maggiormente sul premier ungherese. E lo scetticismo mostrato da Varsavia sulle iniziative di Macron testimonia la difficoltà del presidente francese nel farsi strada. In fin dei conti, il capo dell’Eliseo ha un duplice problema. Primo: i suoi rapporti con Trump storicamente non sono mai stati idilliaci. Secondo: Macron, sulla crisi ucraina, ha incarnato tutto e il contrario di tutto. Prima si era presentato come una colomba: telefonava a Putin e diceva che lo zar non andava umiliato. Poi, da quest’anno, si è reinventato falco antirusso ai limiti del bellicismo. Due atteggiamenti contraddittori con cui non ha portato a casa nulla.Certo, è vero che Trump pretenderà probabilmente un maggiore coinvolgimento degli europei nello scacchiere ucraino anche in termini di peacekeeping, ma difficilmente Macron rientrerà nella strategia politico-diplomatica del tycoon. E comunque attenzione: Trump potrebbe non guardare soltanto a Orbán. Non è infatti escludibile che il tycoon possa coinvolgere nel processo l’India e, soprattutto, la Turchia. Senza infine trascurare Varsavia. Non dimentichiamo infatti che l’inviato speciale per l’Ucraina da lui nominato, Keith Kellogg, aveva avuto un incontro a maggio con l’attuale ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski. D’altronde, la strategia diplomatica che Trump ha intenzione di implementare appare piuttosto articolata. E punta a mettere sotto pressione sia Putin che Zelensky.Il presidente americano in pectore vuole che il leader ucraino accetti di sedersi al tavolo delle trattative, abbandonando la sua storica precondizione: e cioè che le truppe russe si ritirino unilateralmente dai territori occupati. Si tratta di una richiesta che Trump considera infatti irrealistica. In tal senso, il tycoon ha ventilato l’ipotesi di ridurre l’assistenza a Kiev e non ha confermato né smentito l’esistenza della presunta telefonata che avrebbe avuto con Putin dopo la vittoria elettorale di novembre. Un’ambiguità strategica con cui Trump vuole far capire a Zelensky che, in caso di sua eccessiva rigidità, sarebbe disposto a trattare anche senza di lui. Dall’altra parte, convinto che la pace non possa essere scissa dalla deterrenza, il presidente americano in pectore sta mettendo pressione anche a Putin. Ha enfatizzato il fatto che lo zar ha abbandonato il regime di Bashar Al Assad in Siria, aggiungendo che, in Ucraina, Mosca «ha perso». Inoltre, Trump non ha preso le distanze dall’autorizzazione, concessa a Kiev da Joe Biden, di usare i missili Atacms in territorio russo.Proprio ieri, Mosca ha accusato l’Ucraina di aver attaccato un aeroporto militare nella città di Taganrog con sei missili di questa tipologia. «Questo attacco con armi occidentali a lungo raggio non rimarrà senza risposta e saranno prese misure appropriate», ha tuonato il ministero della Difesa russo. A novembre, il Cremlino aveva modificato la propria dottrina nucleare, stabilendo che l’impiego di missili a lunga gittata avrebbe potuto consentire una risposta atomica. Inoltre, sempre ieri, un funzionario americano ha riportato all’Associated Press che Mosca potrebbe presto riutilizzare contro l’Ucraina il missile balistico a raggio intermedio già impiegato il 21 novembre.Forse c’è da preoccuparsi, forse no. Non è insolito che, prima dell’avvio di trattative, venga alzata la tensione. È la de-escalation attraverso l’escalation. Vincerà il più imprevedibile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macron-orban-ucraina-2670440935.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ambasciata-a-roma-un-trump-texano" data-post-id="2670440935" data-published-at="1734001067" data-use-pagination="False"> Ambasciata, a Roma un Trump texano Non è ancora ufficiale. Tuttavia, secondo la Cbs, Donald Trump avrebbe probabilmente scelto il prossimo ambasciatore americano in Italia. Si tratterebbe di Tilman Fertitta. Miliardario texano, è presidente e ceo di Landry, una mega società di alberghi, casinò e ristoranti, con un fatturato di circa tre miliardi di dollari e con oltre 50.000 dipendenti. È anche il proprietario degli Houston Rockets, squadra di basket di Houston che compete nella Nba. Negli ultimi giorni, si è inoltre detto interessato a comprare la squadra di football dei New Orleans Saints. Amico di Trump e storico finanziatore del Partito repubblicano, quattro anni fa, secondo Forbes, effettuò qualche donazione anche alla campagna di Joe Biden. Tra l’altro, Fertitta è un buon amico del senatore democratico dell’Arizona, Mark Kelly: il che potrebbe favorire la ratifica della sua eventuale nomina alla camera alta. Nel 2020, Fertitta fu nominato dal governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, in una commissione incaricata di riaprire progressivamente le varie attività dello Stato a seguito della pandemia di Covid-19. Staremo a vedere se, nelle prossime ore o nei prossimi giorni, la nomina di Fertitta sarà ufficializzata da Trump: una nomina che, in caso, dovrà ottenere il via libera definitivo dal Senato. Certo è che il prossimo ambasciatore americano in Italia potrebbe ritrovarsi a svolgere un ruolo geopoliticamente importante. Il Mediterraneo allargato rappresenta un’area sempre più cruciale per gli Stati Uniti: un’area che deve essere urgentemente stabilizzata per consentire a Washington di concentrarsi con maggiore impegno sull’Indo-Pacifico. Non è quindi affatto escludibile che la nuova amministrazione Trump possa decidere di scommettere sull’Italia per conseguire questo fondamentale obiettivo. Roma potrebbe giocare innanzitutto un ruolo di mediazione, qualora gli Accordi di Abramo venissero estesi al Magreb. Giorgia Meloni potrebbe, in particolare, mettere a frutto le relazioni tessute in Nord Africa nell’ambito del Piano Mattei. In secondo luogo, Trump ha un duplice problema: pur non volendo impegnarsi troppo direttamente, ha necessità di recuperare influenza sul Sahel, dopo che Emmanuel Macron e Joe Biden l’hanno perduta nel corso degli ultimi anni. Ecco quindi che Roma potrebbe giocare un ruolo significativo anche da questo punto di vista. Infine, ma non meno importante, il prossimo ambasciatore sarà anche incaricato di vigilare sul dossier cinese. Pechino è infatti interessata a rafforzare la sua influenza sul nostro Paese, anche se ultimamente ha subito alcune battute d’arresto: l’anno scorso, Giorgia Meloni non ha infatti rinnovato il controverso memorandum sulla Nuova via della seta. Del resto, nonostante una certa vulgata continui a sostenere che Trump ami Giuseppe Conte, i rapporti tra Stati Uniti e Italia divennero particolarmente tesi nel 2020 ai tempi del governo giallorosso. Il dipartimento di Stato americano era infatti assai preoccupato per l’avvicinamento che quell’esecutivo aveva promosso verso la Repubblica popolare. Stavolta, con l’attuale governo italiano, i rapporti tra Roma e Washington si avviano a rivelarsi assai più distesi sul dossier cinese.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.
A Bruxelles c’è nervosismo: l’Italia ha smesso di dire sempre sì. Su Ucraina, fondi russi e accordo Mercosur, Roma alza la voce e rimette al centro interessi nazionali, imprese e agricoltori. Mentre l’UE spinge, l’Italia frena e negozia. Risultato? L’Italia è tornata a contare. E in Europa se ne sono accorti.