2021-03-15
«L’ultima di Conte: la fibra ottica lasciata ai francesi»
Il vicepresidente del Copasir, Adolfo Urso: «Non ancora utilizzato a dovere lo scudo del golden power. Prevalgono sempre Parigi e Berlino».Senatore Adolfo Urso (Fratelli d'Italia), vice presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, la pandemia ha aggravato le debolezze del sistema economico. Teme l'ennesima campagna d'Italia a danno delle nostre eccellenze?«I primi sentori risalgono già a marzo dello scorso anno, alle prime avvisaglie dell'epidemia. Già allora chiedevamo un intervento normativo per allargare lo “scudo" del golden power ad altri settori ritenuti strategici, come facevano altri Paesi europei».Tlc, siderurgia, automazione, banche e assicurazioni. In un anno, le notifiche inviate a Palazzo Chigi per valutare l'esercizio del golden power sono quadruplicate.«L'allarme è stato riconosciuto da tutti, su più livelli. Eppure, nonostante la decretazione d'urgenza che ne ha determinato l'ampliamento, lo strumento del golden power non è stato ancora utilizzato come auspicavamo».Il motivo, secondo lei?«Dovrebbe chiederlo al governo. In questi mesi ci sono state diverse operazioni su cui si sarebbe potuto almeno valutarne l'utilizzo e invece si è preferito non farlo».Sta pensando a Interoute, su cui viaggiano i collegamenti di importanti operatori che operano in Italia, come Fastweb, Vodafone e Tiscali?«È stata l'ultima decisione presa dal secondo governo Conte. Stiamo parlando di una azienda fondamentale per i collegamenti in fibra ottica. La Interoute era già stata venduta a un fondo americano durante il governo Gentiloni, che in quella fase ha preferito non intervenire, nonostante qualcuno avesse sollecitato Cdp. Quando il fondo ha deciso di vendere per motivi di altra natura, il governo avrebbe potuto agire per riappropriarsi di un'azienda strategica, ma ha deciso di non farlo, malgrado oggi siamo tutti più consapevoli di come la competitività del Paese passi attraverso la digitalizzazione».Il governo Draghi non ha esercitato i poteri speciali di cui dispone sull'opa di Crédit agricole sul Credito valtellinese. Lo considera un errore?«In questo caso, si è arrivati all'ultimo momento utile: forse il governo Draghi non ha avuto sufficiente tempo per modificare un dossier gestito dal precedente esecutivo. Eppure, c'è un punto innegabile: ancora un volta, si è scelto di non intervenire per limitare la presenza della finanza francese nel nostro Paese».Sul fronte finanziario, il Copasir segnala un «attivismo costante» di Parigi. Vede un rischio per la stabilità finanziaria italiana?«Il pericolo arriva da lontano: già nella relazione al Parlamento del febbraio 2018, dell'allora governo Gentiloni, i servizi di intelligence definivano la “colonizzazione predatoria" da parte di soggetti stranieri un grave “rischio Paese". La pandemia ha acuito questa preoccupazione. Io non credo che in Francia ci sia reciprocità su questo argomento».C'è più attenzione verso la protezione degli asset strategici? «Il golden power francese protegge il 69% delle imprese. A Parigi è bastato minacciarne il ricorso per bloccare la potenziale acquisizione di Carrefour da parte di una società canadese. Stiamo parlando di un'azienda della grande distribuzione alimentare, non certo di un vero asset strategico come difesa, energia, telecomunicazioni, banche o assicurazioni».È per questo che avete presentato una interpellanza per chiedere l'indipendenza di Borsa italiana spa rispetto agli interessi francesi?«Abbiamo chiesto di sapere qual è la natura degli accordi raggiunti con Euronext. Vorremmo capire come verrà garantita l'autonomia di Borsa Italiana, la sua integrità e la governance. Non chiediamo nulla di più rispetto a quello che la Spagna ha ottenuto dagli svizzeri, a cui hanno ceduto la borsa di Madrid».Il Copasir dedica un'attenzione particolare alla penetrazione dei capitali cinesi in Italia. Quali sono i rischi?«Da qualche anno la Cina ha smesso di essere un'opportunità per il nostro Paese e per l'Occidente. La Cina di ieri era un grande mercato, un promettente partner commerciale. Il presidente Xi Jinping ha cambiato postura al suo Paese, basta guardare alle risorse spese per il riarmo, all'impiego della tecnologia dual use, alle rivendicazioni territoriali o alla politica del debito per asservire altri Paesi. La Cina di oggi ha una vocazione imperiale, punta al dominio globale, anche attraverso la supremazia tecnologica. Consapevole di questo, tutto l'Occidente sta cambiando atteggiamento: gli Stati Uniti e, in maniera più lenta, l'Europa».A che cosa attribuisce questa lentezza?«L'Unione Europea non ha ancora una politica estera comune e sta elaborando con fatica una propria politica industriale. Prevalgono ancora gli interessi di Germania e Francia, le cui economie si avvalgono del mercato cinese. Basta guardare al modo con cui è stato sottoscritto l'accordo sugli investimenti Ue-Cina, criticato persino dal Parlamento europeo: dal documento sono scomparsi i riferimenti ai diritti umani, che sembravano una pregiudiziale. Gli interessi economici di pochi hanno avuto un peso maggiore persino sui diritti fondamentali, che sono alla base della nostra Unione».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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