2020-03-04
Lombardia e Veneto comprano i caschi e liberano posti letto
Le due Regioni acquistano i Cpap dedicati ai contagiati. Si potrà gestire meglio la rianimazione ed evitare il tracollo del sistema.In Lombardia e Veneto sono in arrivo 122 caschi respiratori per curare i pazienti con la sindrome polmonare da coronavirus anche al di fuori dei reparti di terapia intensiva, ormai al collasso. Secondo l'assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, «il 50% dei pazienti trattati con questi macchinari non ha bisogno di terapia intensiva». La Covid-19 causa infatti problemi respiratori che, nei casi più gravi, evolvono in polmonite interstiziale. Per avere una funzione respiratoria adeguata, questi pazienti hanno quindi bisogno di un supporto ventilatorio che tipicamente viene garantito nelle terapie intensive. Anche se questa complicanza interessa il 10% dei casi positivi al test, numeri alla mano, le 900 rianimazioni lombarde, già piene al 90% per gestire le necessità ordinarie, a fatica possono trattare i quasi 170 pazienti che attualmente necessitano di queste cure. Il fatto poi che il numero delle nuove infezioni cresca ancora nell'ordine delle centinaia al giorno e che l'assistenza respiratoria possa essere necessaria anche per settimane rendono ragione dell'allarme per il rischio del tracollo del sistema ospedaliero e quindi delle cure. La soluzione che in questo momento di emergenza sta implementando la Lombardia, dove si trova il focolaio epidemico più esteso in Italia, è l'acquisto - con una parte dei 40 milioni di euro stanziati dalla Regione per l'emergenza - di 62 caschi respiratori Cpap (Continuous positive airway pressure) ovvero ventilazione a pressione positiva continua . «Il casco», spiega a La Verità il direttore della fisiopatologia respiratoria dell'Università-Azienda ospedaliera di Padova, Andrea Vianello, «è un sistema di ventilazione esterno che permette, in casi di insufficienza respiratoria, di evitare l'intubazione, cioè la ventilazione invasiva attraverso la trachea». Esistono vari modelli di casco e sono prodotti da diverse aziende, anche italiane, ma hanno più o meno tutti un aspetto che ricorda lo scafandro da palombaro che viene posto sulla testa e saldato alle spalle. Questa struttura, tutta trasparente, è collegata al ventilatore per il supporto alla respirazione. Sono dispositivi portatili, abbastanza comodi e leggeri, che hanno un costo contenuto. Il volume interno è di diversi litri, non è molto agevole, ma permette il movimento della testa. I modelli più confortevoli pesano poche centinaia di grammi. Sono tutti provvisti di vari sistemi di sicurezza, come manometri per misurare la pressione interna e valvole antisoffocamento. «Introdotti inizialmente per la cura delle riacutizzazioni della Bpco (broncopneumopatia cronica ostruttiva), sono impiegati da una quindicina d'anni nell'insufficienza respiratoria», spiega il professore che è stato tra i primi pneumologi a impiegare la ventilazione esterna per ridurre il rischio di polmonite da intubazione in questi pazienti. Il casco respiratorio è stato inserito in ambiente anestesiologico e rianimatorio ed «è sovrapponibile, nell'impiego, alle maschere che invece sono più usate dagli pneumologi». Questi apparecchi si sono diffusi per un numero sempre più ampio di patologie. Il casco, ad esempio è utilizzato per le polmoniti in pazienti con linfomi e leucemie, la maschera invece negli obesi o nelle patologie neuromuscolari», dice lo pneumologo. «Quando sono stati introdotti negli ospedali, è stata una rivoluzione perché hanno consentito, tra l'altro, di spostare il trattamento del paziente fuori dalle rianimazioni. «Questi dispositivi sono potenzialmente molto utili per far fronte all'emergenza coronavirus», continua Vianello. «Il casco, usato tempestivamente, prima che la situazione si aggravi, può evitare l'accesso alla terapia intensiva», quindi togliere un po' di pressione a questi reparti a rischio implosione. Proprio in questi giorni di criticità estrema, la sanità lombarda reagisce mettendo in pista una soluzione che potrebbe fare la differenza. Il casco Cpap infatti dovrebbe infatti non solo preservare i posti letto per i pazienti più gravi, a rischio saturazione con il crescere dei contagiati da Covid-19, ma anche snellire la pressione sul personale sanitario. Si deve infatti considerare che in una terapia intensiva serve un medico ogni quattro pazienti, mentre per controllare i caschi respiratori, che possono essere impiegati anche in altri reparti come la pneumologia, bastano gli infermieri con la supervisione di un medico. Non è un dettaglio, soprattutto se si considera che circa il 10% del personale sanitario lombardo è stato contagiato dal coronavirus. Attualmente sono 20 i medici e 24 gli infermieri arrivati in aiuto degli ospedali anche dall'ambiente militare. Nei prossimi giorni dovrebbero essere attivati altri 50 posti in terapia intensiva e arrivare in aiuto dei caschi respiratori. Tutto nel tentativo di contenere, frenare il più possibile, l'avanzata del coronavirus.