2018-04-07
Sputasentenze Friedman pagato per taroccare le elezioni in Ucraina
Il «Guardian» accusa l'accusatore di Trump, Alan Friedman, di essere foraggiato dal team di Donald. Avrebbe concordato con Manafort un piano per screditare l'ex primo ministro ucraino e Hillary Clinton.«Un esploratore dell'ovvio che parla italiano come Oliver Hardy doppiato da Alberto Sordi»; la miglior definizione di Alan Friedman ci sembrava quella di Indro Montanelli. Ma dopo le rivelazioni del Guardian c'è da ricredersi perché non esiste nulla di ovvio nel tardivo colpo di genio del sonnolento opinionista di New York che ha trovato l'America nell'Italia di provincia come un Gorni Kramer o un Don Lurio dell'informazione. Perché dedicarsi per un anno e mezzo a smascherare il Russiagate nei talk show televisivi e poi essere accusato di averne creato uno simile nel 2011 è qualcosa di sublime, roba da sezione postatomica della Biennale Arte. Premessa, Friedman è un instancabile pubblico ministero delle presunte malefatte della Casa Bianca sviscerate surfando su scenari da spionaggio anni Cinquanta a beneficio dei telespettatori insonni di reti pubbliche e private. Teorico delle «black op» (operazioni segrete) perpetrate dal team di Donald Trump per vincere le elezioni, secondo il quotidiano radical chic britannico mister Friedman ne avrebbe messa in piedi una niente male. Avrebbe proposto a Paul Manafort - il diavolo del Russiagate, l'uomo nero della campagna elettorale trumpiana - un piano digitale per conto dell'allora presidente ucraino Viktor Yanukovich per infangare la rivale Iulia Timoshenko e il segretario di Stato Usa che la sosteneva. Guarda caso Hillary Clinton. Il contrappasso sembra perfino paradossale, degno di Graham Greene e del venditore di aspirapolveri scambiato per il nostro agente all'Avana. Ma al Guardian non hanno dubbi e sventolano i documenti dell'operazione a più livelli, che prevedeva anche interventi di modifica delle pagine di Wikipedia per mettere in cattiva luce la Timoshenko ed enfatizzarne la corruzione nel periodo del processo. Per completare l'opera il giornalista avrebbe avuto parte anche nella realizzazione di un falso think tank (traduzione, un pensatoio con il birignao di Capitol Hill) a Vienna per veicolare notizie e opinioni favorevoli a Yanukovich. La società di Friedman si chiamava Fbc media e sempre secondo lo scoop incassava, per le fake news, 520.000 dollari l'anno in quote trimestrali. Poco rispetto al cachet milionario di Manafort, ma sufficienti comunque per entrare nella lista dei cattivi. Proprio lui che ha trascorso una vita ad accreditarsi come il buon samaritano del giornalismo globale, eternamente filogovernativo, capace di accarezzare dalla parte del pelo ogni potente che gli sia capitato a tiro.La difesa di Friedman di fronte a un simile imbarazzante scenario è questa: «L'articolo del Guardian contiene infondate illazioni e sottintesi lesivi della mia reputazione. Non ho mai svolto l'attività di lobbista per l'Ucraina. La mia ex società a Londra, la Fbc media, ha lavorato sì per l'Ucraina, ma si è occupata di pubbliche relazioni. Il nostro lavoro consisteva in gran parte nel diffondere comunicati contenenti notizie vere; eravamo dei pr e svolgevamo progetti di pubbliche relazioni e profilatura del Paese. Non c'erano piani segreti. Il messaggio più significativo della campagna consisteva nel mettere in rilievo l'importanza di un avvicinamento dell'Ucraina all'Unione europea».Un intreccio complesso, di quelli che lui prefigura quando si trova nello stesso studio tv con Giulietto Chiesa e con tre obiettivi segnati sui target: oltre al presidente Usa, Vladimir Putin e Matteo Salvini. Questo perché gli piace spaziare, costruire scenari, passare indistintamente dai vaccini italiani agli hacker russi, dalle scie chimiche allo scacchiere siriano. Ci prese in pieno 15 anni fa svelando l'Iraqgate (la vendita di armi a Saddam Hussein da parte della Cia) ed è convinto che il mondo sia un grande buco nero. Non ha ancora detto la sua sull'Area 51 e sugli Ufo, ma «autorevoli voci» dicono che si stia preparando. Per ora si concentra sul destino del suo Paese, che dipinge come un rottame a stelle e strisce nonostante la seccatura dei numeri, forse per non smentire il suo penultimo libro Questa non è l'America, la cui lettura porterebbe anche un postmarxista ad avere la gastrite. Alan Friedman cominciò la sua carriera italiana con Gianni Agnelli, mentore di tanti intellettuali della penna conosciuti nel ristorante Smith&Wollensky, il cui merito primario era l'indossare giacche di buon taglio e rassicuranti frasi fatte. Lui entrò in sintonia con l'Avvocato e scrisse Tutto in famiglia, libro osannante la dinastia della Fiat. Proseguì con Rupert Murdoch, che lo ingaggiò per allestire l'informazione di Sky Italia. E concluse con Silvio Berlusconi, del quale nel 2015 ha pubblicato la prima biografia autorizzata dal titolo My way, che già dalla copertina preannunciava dolciastre sviolinate. Al Cavaliere ha riservato una proditoria gomitata quando ha venduto il 50% dei diritti dell'opera alla Leone film group per realizzare il documentario L'ascesa e la caduta di Silvio Berlusconi distribuito da Netflix con immagini girate durante le interviste nella villa di Arcore. Business is business. Del resto, Friedman si è creato un solido piedistallo come giornalista economico, prima corrispondente del Financial Times, poi del Wall Street Journal. Il pedigree gli aprì le porte della Rai che lo ingaggiò per convincere gli italiani che l'euro sarebbe stata una moneta vincente (Maastricht Italia, Mister euro, I vostri soldi). Come molti soloni, ne ha azzeccate poche e l'ultimo libro Dieci cose da sapere sull'economia italiana prima che sia troppo tardi attira l'undicesima: non leggerlo. Rimane immortale un suo consiglio in piena epopea renziana: «Gli italiani devono capire che Renzi è la loro unica chance». Una fake news, e il Guardian ci ha detto che non era la prima.