
Associazioni che muovono 6.000 miliardi scrivono all’Ue: non cedete alle richieste di Parigi e Berlino per ridurre le norme Esg.Che l’ossessione ambientalista e regolatoria dell’Europa sia andata oltre ogni più fanatica perversione e stia creando un gap di competitività per le aziende del Vecchio Continente, lo sostengono ormai anche i più incalliti (ex commissario Timmermans a parte) sostenitori del Green deal. Il perché non si riesca immediatamente a cambiare passo e a imporre un taglio draconiano a regole, obblighi da adempiere e paletti ecologisti, di genere e sostenibilità da rispettare, lascia un po’ più di spazio alle riflessioni. Di certo i problemi di governance, le lungaggini del processo decisionale che la perentorietà di Trump sta mettendo ancor di più in evidenza, è un problema. Ma la storia dell’Europa ci sta insegnando che il peso delle lobby e dei portatori di interesse che hanno per anni pianificato investimenti e strategie completamente indirizzate verso l’Esg e adesso temono di dover smantellare tutto, è fondamentale. Di recente De Telegraaf ha scoperchiato lo scandalo delle lobby che sarebbero state pagate segretamente dall’Ue per promuovere i progetti ambientalisti dell’ex commissario Frans Timmermans, ma le cose avvengono anche in modo più trasparente. Paradigmatico quanto successo nelle ultime due settimane a Bruxelles e dintorni. Nelle ore in cui Donald Trump si insediava alla Casa Bianca, infatti, la Francia inviava un lungo documento ai responsabili della Commissione per chiedere un drastico ridimensionamento delle regole Esg, nella consapevolezza che l’obbligo di sottostare a migliaia di adempimento stia impedendo alle aziende europee una parità di competizione con i gruppi asiatici e americani che operano negli stessi settori. Su questa linea la Francia ha trovato l’immediata sponda tedesca e per certi versi il recente annuncio della bussola per la competitività della nuova Commissione ha dato l’idea che qualcosa si stesse muovendo. Si è parlato per esempio della Corporate sustainability reporting directive, la Csrd che è entrata in vigore a gennaio e obbliga circa 50.000 aziende a pubblicare una relazione non finanziaria, focalizzandosi sugli aspetti della sostenibilità, dall’ambiente fino al sociale e alla governance. Un modello standard, tanto per intendersi, richiede la compilazione di circa 1.178 campi e documenti.È evidente che lo stesso sforzo non sarà mai richiesto a un competitor cinese o americano e questo crea un gap che grida vendetta. Insomma un taglio di norme e richieste Esg sarebbe sacrosanto, eppure in Europa ancora nulla è successo. Come mai?La stessa Bloomberg che riportava la notizia del documento francese inviato a Bruxelles, ci fa sapere che non molte ore fa un altro appello è arrivato nelle sedi del governo Ue, per evidenziare l’esatto contrario delle richieste di Francia e Germania. I mittenti, l’Institutional investors group on climate change (Iigcc), l’European sustainable investment Forum (Eurosif) e il Principles for responsible investment (Pri) - parliamo di tre gruppi di investitori che muovono 6,6 mila miliardi di euro di asset - hanno chiesto ai funzionari europei di non cedere alle pressioni per ridurre le norme Esg del blocco. Motivo? Si tratta di regole essenziali per aiutare i gestori di patrimoni e i proprietari a individuare dove allocare i fondi. Non solo. Perché, secondo i portatori di interesse riuniti nelle potenti associazioni, una messa in discussione dei requisiti ambientali, sociali e di governance europei «rischia di creare incertezza normativa e potrebbe in ultima analisi mettere a repentaglio l’obiettivo dell’Europa di essere all’altezza del suo Green Deal, sancito per legge».Messa in soldoni: importa poco o nulla alle associazioni degli investitori che l’industria europea sia in crisi e non parta ad armi pari nella competizione globale, ciò che conta è che i gestori non vengano mandati in confusione nel loro lavoro di allocazione dei fondi. Se non fosse chiaro, Iigcc, Eurosif e Pri confermano di aver condiviso le loro preoccupazioni con il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e di aver parlato con altri commissari «chiave» per assicurarsi che gli investitori abbiano «accesso tempestivo a dei report di alta qualità e che siano tra loro comparabili» da parte delle aziende, perché questi dati sono «un prerequisito per informare e guidare le decisioni degli investitori». Bloomberg riporta anche le riflessioni di Alexander Burr, responsabile delle politiche Esg presso Legal and General investment management, che si dice molto preoccupato per l’andazzo: «Il ritiro delle regole», sottolinea, «potrebbe mettere a rischio la nostra capacità di comprendere i rischi Esg».Il problema, andrebbe spiegato a mister Burr, è che la iper-regolamentazione su ambiente, genere e condizioni di lavoro sta mandando in recessione il sistema industriale del Vecchio Continente. E se le imprese fanno crac diventa difficile trovare qualcosa su cui investire. Con il paradosso che alle lobby e ai portatori di interesse Esg rimarranno solo le aziende cinesi.
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