2019-11-07
Lo studioso israeliano difende il nazionalismo che la Segre condanna
Esce lo strepitoso saggio di Yoram Hazony sulle virtù dell'amor patrio. Che smaschera pure l'odio progressista nei confronti di popoli e Stati.Luciana Lamorgese annuncia il sì di Tripoli alla modifica del memorandum e dà ragione a Matteo Salvini: «L'accordo ha diminuito le partenze e le morti in mare». Ma Matteo Orfini è durissimo: «Discorso imbarazzante e ipocrita».Lo speciale contiene due articoli Oltre al razzismo, alla xenofobia e all'antisemitismo, la mozione Segre approvata nei giorni scorsi condanna pure «i nazionalismi e gli etnocentrismi», specificando che il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa li fa rientrare nei cosiddetti «discorsi di odio». Non stupisce: ormai viene dato per assodato, in Europa, che nazionalismo sia sinonimo di odio. Chi non è d'accordo e per questo non ha approvato la suddetta mozione, è stato immediatamente accusato di essere razzista, fascista, antisemita e nazista. Anche in questo caso, nulla di singolare. Volete sapere, invece, una cosa davvero sorprendente? Il più efficace difensore del nazionalismo a livello mondiale è un signore di nome Yoram Hazony, ebreo israeliano, autore di un libro straordinario intitolato Le virtù del nazionalismo, in uscita il 13 novembre per l'editore Guerini. Hazony è presidente dell'Herzl Institute e il suo saggio è stato premiato come Conservative Book of the Year, suscitando un profondo dibattito negli Stati Uniti. Ora che è disponibile anche da noi, si spera che gli strenui difensori della mozione Segre lo leggano con attenzione. Qualora lo facciano, si renderanno conto che - se dominasse l'ideologia che anima quella mozione - lo Stato d'Israele semplicemente non esisterebbe. «L'accusa più comune contro il nazionalismo è che fomenti l'odio», scrive Hazony. «I nazionalisti sono concentrati per lo più sul benessere della loro nazione, auspicandone il trionfo nelle sue varie competizioni con le altre. Questo interesse particolare per sé stessi sarebbe da intendersi come un'espressione di odio verso gli altri e come una forma di violenza». In realtà, dice lo studioso, c'è un'altra forma di odio ben più insidiosa e oggi molto più diffusa. Un tipo di odio estremamente comune tra i liberal, sostenitori di una ideologia universalista che facilmente si sovrappone all'imperialismo. «L'internazionalismo liberal», spiega Hazony, «non è soltanto un'agenda programmatica tesa a cancellare le frontiere nazionali e a smantellare in Europa e altrove gli Stati nazionali. Si tratta di un'ideologia imperialista, che si accanisce contro il nazionalismo e i nazionalisti, prefiggendone la delegittimazione ovunque possano comparire in Europa o in nazioni come gli Stati Uniti e Israele, questi ultimi intesi come discendenti della civiltà europea». Questa ideologia universalista, prosegue il professore, si sviluppa a partire dal paradigma antinazionalista del filosofo Immanuel Kant, il quale - nel celebre Per la pace perpetua. Un progetto filosofico del 1795 - sostenne che i particolarismi e le tendenze all'autodeterminazione dei popoli fossero prerogativa dei «barbari» e rappresentassero «ferine involuzioni del genere umano». I popoli sviluppati, in base a questa idea, dovrebbero dunque tendere verso un governo universale capace di imporre la ragione sugli egoismi nazionali. Il pensiero di Kant è tra le maggiori fonti d'ispirazione dell'Europa unita, oltre che degli organismi internazionali come l'Onu. I quali ovviamente sono tra i più spietati quando si tratta di condannare i nazionalismi e le pretese di sovranità degli Stati. Alle idee kantiane, poi, si è sommata negli anni la «condanna marxista degli Stati nazionali occidentali», seguita, più di recente, dall'«antinazionalismo liberista che con entusiasmo si adoperò per il tramonto del vecchio ordinamento in nome del progredire kantiano verso l'Età della Ragione». Queste tendenze culturali si sono sovrapposte e mescolate e oggi agiscono compatte un po' ovunque nel mondo sotto forma di ideologia liberal. L'ideologia a cui si ispira la mozione Segre. «In virtù del loro zelo per un ordinamento politico universale, gli imperialisti liberal tendono a imputare l'odio ai particolarismi nazionali o tribali (o anche alle religioni), mentre ignorano o minimizzano l'astio direttamente conseguente dalla loro brama di concretare un ordinamento politico universale», prosegue Hazony. Egli propone anche esempi concreti, parlando dell'indignazione che si è abbattuta sulla «Gran Bretagna non appena decise di far ritorno alla propria indipendenza nazionale e all'autodeterminazione, come pure su nazioni quali la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia, che restano ferme nel mantenere in vigore le proprie politiche immigratorie, non conformandosi alle teorie dell'Unione Europea circa il reinsediamento dei rifugiati». Secondo il pensatore israeliano, «in questi e in altri casi similari, qualsivoglia obiezione sostanziale è soltanto secondaria al risentimento conseguente dalla possibilità stessa che una nazione europea possa condurre proprie politiche indipendenti. Come nel caso di Israele, queste politiche indipendenti sono comparate al nazismo o al fascismo». Già, perché condannare nazionalismo ed etnocentrismo significa, nei fatti, mettere in dubbio pure l'esistenza stessa dello Stato di Israele. Il punto è che se «se una nazione è europea, o di discendenza europea, allora ci si aspetta che si conformi ai criteri e ai requisiti europei, il che sempre più equivale alla kantiana rinuncia al diritto nazionale di poter deliberare e agire in indipendenza e autonomia, specie in relazione al ricorso alla forza. Al contrario, l'Iran, la Turchia, i Paesi arabi e il Terzo Mondo in genere, secondo questa opinione, sarebbero da considerarsi popolazioni primitive, che ancora non sono riuscite a lambire quel livello di Stato nazionale consolidantesi attraverso la legge. Il che significa, nelle sue declinazioni pratiche, che, per lo più, non si considera loro applicabile alcuno standard morale». Dell'atteggiamento occidentale descritto da Hazony abbiamo prove ogni giorno, specie quando si affronta il tema delle migrazioni. E sarebbe ora di ammettere che si tratta di un atteggiamento profondamente razzista. Non solo. Sarebbe anche ora di riconoscere e combattere l'odio che l'ideologia internazionalista esercita nei confronti degli Stati e dei popoli. Hazony lo descrive alla perfezione. Nazista pure lui? Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lo-studioso-israeliano-difende-il-nazionalismo-che-la-segre-condanna-2641240001.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-patto-con-la-libia-spacca-il-governo" data-post-id="2641240001" data-published-at="1757923005" data-use-pagination="False"> Il patto con la Libia spacca il governo Il memorandum fra Italia e Libia fa deflagrare le contraddizioni e le ipocrisie della maggioranza governativa, con Matteo Orfini che attacca frontalmente il ministro che doveva rappresentare il fiore all'occhiello giallorosso: Luciana Lamorgese. Galeotto fu l'assenso di Tripoli alla richiesta italiana di rivedere l'accordo che andrà a scadenza il prossimo 2 febbraio. «L'1 novembre», ha detto il ministro dell'Interno nella sua informativa alla Camera sull'accordo con la Libia per contrastare l'immigrazione illegale, «l'ambasciata italiana a Tripoli ha proposto la convocazione di una riunione della Commissione congiunta Italia-Libia per concordare un aggiornamento del memorandum attraverso modifiche per migliorarne l'efficacia e la proposta è stata accolta dalla Libia che ha comunicato la sua disponibilità a rivedere il testo». Lo stralcio del memorandum era di fatto un provvedimento bandiera per gran parte della sinistra, che ha sempre contestato le politiche in merito di Matteo Salvini, ma anche quelle del suo predecessore, il piddino Marco Minniti, il vero iniziatore dell'asse con Tripoli. La realpolitik, tuttavia, sembra aver avuto la meglio. Lamorgese, a Montecitorio, ha difeso l'accordo che, ha detto, «ha contribuito alla drastica riduzione delle partenze dalla Libia. Al momento della stipula, la situazione dei flussi migratori era preoccupante. Oggi c'è stata una forte diminuzione, del 97% nel 2019, ma sarebbe comunque sbagliato abbassare la guardia. Sono molto calate anche le morti nel mare, e sono convinta che il memorandum abbia contribuito a questi dati». Meno partenze uguale meno morti: dove lo avevamo già sentito? Ah, già: era un refrain caro a Matteo Salvini. A questo punto, per rimarcare la discontinuità, non resta che sbandierare le modifiche al memorandum chieste da Roma a Tripoli. Quattro i punti su cui l'Italia chiede di intervenire al governo di Fayez Al Serraj: centri di detenzione, corridoi umanitari, controllo delle frontiere al Sud della Libia e nuovo piano di progetti per il Paese nordafricano. Particolare importanza riveste ovviamente il primo punto, non a caso centrale nelle richieste di chi, da sinistra, chiedeva di stralciare l'accordo. A tal proposito, Lamorgese ha chiesto «il miglioramento dei centri di detenzione con l'obiettivo di una loro graduale chiusura per giungere a centri gestiti dalle agenzie dell'Onu». Il che, a fronte di una reiterata retorica che dipinge tali centri come lager (parola usata per evocare ben precisi riferimenti storici), suona davvero strano. Delle due l'una: o la richiesta è folle, o quelli non sono lager. L'intervento della Lamorgese ha sollevato più di un mal di pancia nella stessa maggioranza. Per giungere infine al tweet al veleno di Matteo Orfini, che contro quello che fu il prefetto del «modello Milano» di Beppe Sala usa parole durissime: «Ho appena ascoltato alla Camera l'intervento della ministra Lamorgese sulla Libia. Un intervento imbarazzante e ipocrita. I lager sono “centri" di migranti. Il memorandum una cornice da difendere. I libici partner affidabili. Davvero vogliamo continuare a far finta di non sapere?». È il commento che, per ovvi motivi, fa più rumore. Per il resto, Pino Cabras (M5s) si riscopre novello Kissinger («Ogni azione in questo campo si misura non con il raggio corto delle polemiche domestiche, ma con le leve lunghe delle relazioni internazionali»), mentre Lia Quartapelle (Pd) ammette che «è necessario collaborare con la Libia». Quanto al centrodestra, Andrea Delmastro (FdI) attacca a testa bassa: «Sapete di recitare una commedia, annunciate cambiamenti radicali ma poi zero, c'è solo una spruzzatina di umanitarismo per salvare formalmente la dignità di una sinistra affetta da doppiopesismo morale». Per il leghista Nicola Molteni, «l'Italia non deve demonizzare la Guardia costiera libica ma deve ringraziarla», mentre Laura Ravetto (Fi) spiega che rinegoziando il memorandum la sinistra espone «il nostro Paese al rischio che la Libia non lo confermi». Adriano Scianca
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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