2022-11-13
Lo strano fiasco della pillola Pfizer. Si riammala il 30% di chi la prende
Fioccano segnalazioni di ricomparsa dei sintomi dopo la cura con Paxlovid. La società stimava meno del 2% di «rebound», ma studi e medici parlano di incidenze molto più alte. E si teme che il virus sviluppi resistenze.Cosa hanno in comune Joe Biden e sua moglie Jill con Rochelle Walensky, numero uno dei Centers for disease control and prevention, la virostar Anthony Fauci e pure il popolare presentatore americano del Late show, Stephen Colbert? Sono tutti famosi, sì. Sono tutti di sinistra, manco a dirlo. E, in particolare, si sono tutti beccati l’effetto «rebound» dell’antivirale Paxlovid. Di cosa si tratta? Il farmaco fabbricato da Pfizer, utile per curare il Covid, qualche volta gioca un tiro mancino: il paziente si sottopone a un trattamento, si negativizza, ma dopo qualche giorno, i sintomi ricompaiono e, con essi, la positività al tampone. Con un’ulteriore beffa: come ha confermato alla Cnn Michael Charness, dottore al Centro medico per i veterani di Boston, chi è vittima del «rimbalzo» torna anche contagioso. E ad ogni modo, deve rimettersi in isolamento, almeno nei Paesi in cui è prevista la quarantena. A essere onesti, il fenomeno di «rebound» non è una novità in medicina. E bisogna riconoscere che, al contrario di quanto accade con altri medicinali, nella maggior parte delle circostanze, dopo il Paxlovid, la malattia si manifesta in modo meno grave della prima volta. L’inconveniente, però, sembra essere ben più frequente di quanto avevano stimato l’azienda produttrice e la Food and drug administration, che ipotizzavano un’incidenza inferiore al 2%. Al contrario, uno studio uscito sul Journal of the american medical association, a fine ottobre, aveva conteggiato un 30% di casi di riacutizzazione del Covid nei soggetti che avevano assunto il Paxlovid. Un paio di giorni fa, Abc news, non esattamente un network complottista, citava dei sanitari secondo i quali, appunto, il valore dei «rebound» oscillerebbe tra il 10 e il 30%. Un po’ difficile considerarlo raro, come hanno insistito gli esperti. «Sto informando i miei pazienti che è molto comune», confermava alla testata George Diaz, dell’Associazione americana di malattie infettive. E Joseph Boselli, professionista del Jefferson health di Filadelfia, dichiarava che se all’inizio prescriveva il Paxlovid «pressoché a chiunque», ormai lo riserva solo a over 60 fragili o non vaccinati. Anche perché il beneficio del farmaco sulle altre categorie di persone è dubbio, al di là della frequenza con cui avviene il «rimbalzo» della malattia. Che questo fosse meno sporadico di quanto garantiva Pfizer - per la serie, non chiedere all’oste se il vino è buono - lo si poteva già intuire da una strana coincidenza: il numero di Vip che, almeno negli Stati Uniti, sono incappati nel fastidioso inconveniente. Il più illustre è stato certamente il presidente Biden, che ha contratto il Sars-Cov-2 a fine luglio, nonostante fosse già quadridosato e che, tre giorni dopo aver iniziato la terapia con il Paxlovid ed essersi negativizzato, è ridiventato positivo. Per un incredibile scherzo della statistica, pure sua moglie, la First lady, ha vissuto la stessa esperienza: infezione a metà agosto, cura con l’antivirale, ricaduta. Una famiglia bersagliata in modo inusuale dal Sars-Cov-2. Tuttavia, come se non fosse stata abbastanza infingarda, la sorte si è accanita altresì su due simboli dell’ortodossia pandemica: Fauci e Walensky, la direttrice dei Cdc, vaccinata con cinque dosi, l’ultima delle quali il bivalente anti Omicron. Quindi, i personaggi pubblici, incluso l’anchorman Colbert, hanno una notevole sfortuna con le pillole antivirus. Le autorità sanitarie insistono sul fatto che il Covid continua a mietere vittime tra anziani e soggetti con comorbidità. Per cui, sull’inghippo del «rebound», sarebbe meglio sorvolare. Così sia: non vogliamo certo sostenere che il Paxlovid vada gettato via. Il guaio, anzi, è che specialmente nel nostro Paese, anziché curare la gente, si lasciano scadere le dosi. Ma è un peccato che, sui protocolli di terapia precoce a domicilio, i «competenti» siano sempre stati ben più schizzinosi. E che si siano accorti che il Covid si può curare solo quando sono comparsi i nuovi ritrovati di Big pharma, questi sì, giudicati quasi infallibili, a differenza dei banali antinfiammatori. C’entrerà qualcosa il fatto che, a differenza dell’ibuprofene, in vendita da decenni e piuttosto economico, un trattamento con il Paxlovid costa 700 euro? E che, per Pfizer, esso rappresenta un business da 10 miliardi di dollari? Nel frattempo, la ricerca scientifica va avanti. Ed emergono altri dettagli poco rassicuranti. Un’indagine discussa su Science, ad esempio, aveva messo in luce che, dopo una serie ripetuta di esposizioni al principio attivo del farmaco, il coronavirus ha sviluppato tre mutazioni, le quali hanno ridotto la sua suscettibilità al medicinale di ben 20 volte. Un altro paper, ancora in attesa di revisione paritaria, ha acceso i riflettori su due alterazioni nella struttura del Sars-Cov-2: combinate, rendono il Paxlovid addirittura 80 volte meno efficace. È presto per parlare di resistenze, ma è necessario un monitoraggio attento. Saggiamente irriguardoso degli interessi finanziari in ballo. D’altronde, al di là della retorica celebrativa, le credenziali di Pfizer si sono un po’ incrinate: il vaccino che non immunizza, l’antivirale che ti fa riammalare... Bilancio rivedibile.