2018-10-12
Lo stallo sul Gse blocca 16 miliardi di fondi
Al decimo tentativo l'assemblea della società sblocca lo stallo che si trascinava dall'inizio dell'estate e nomina presidente Francesco Vetrò, oggi numero uno di Csea, e Roberto Moneta amministratore delegato. L'altro membro del cda, infine, è Laura Bajardelli, in arrivo da Intesa San Paolo. Si è sbloccato l'impasse su Gse, dopo quasi tre mesi di tira e molla, l'assemblea degli azionisti del Gestore dei Servizi Energetici (Gse), società del ministero dell'Economia e delle Finanze che ricopre un ruolo centrale nella promozione e nel monitoraggio dello sviluppo delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica in Italia, ha scelto i nuovi vertici dell'ente: il presidente è Francesco Vetrò, già a capo del Comitato di gestione della Cassa per il settore elettrico. Amministratore delegato è stato nominato Roberto Moneta, dirigente dell'Enea, l'altro membro del cda, infine, è Laura Bajardelli. Nel corso dell'assemblea, il ministero dell'Economia e delle Finanze ha ringraziato Francesco Sperandini e il Consiglio uscente per il lavoro svolto nell'ultimo triennio. Il Consiglio di Amministrazione nominato oggi resterà in carica fino all'approvazione del bilancio dell'esercizio 2020. Nel corso dell'Assemblea è stato approvato anche il bilancio dell'esercizio 2017: lo scorso anno il Gse ha generato un utile netto per l'azionista di circa 7 milioni di euro.----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Mezzogiorno di fuoco in Gse, il Gestore dei servizi elettrici, dove oggi in teoria l'assemblea dovrebbe nominare un nuovo presidente e amministratore delegato. Il condizionale è d'obbligo perché da quando si è insediato il governo gialloblù di Giuseppe Conte il posto è vacante e la mancanza di una governance sta penalizzando tutto il comparto industriale delle rinnovabili, ancora in attesa di poter pianificare gli investimenti per il 2019. Le fumate nere sono nove, oggi potrebbe essere la decima, per una poltrona che vale circa 16 miliardi di euro, perché decide l'assegnazione degli incentivi per le energie rinnovabili, ovvero il solare e l'eolico. A quanto pare il ministro dell'Economia Giovanni Tria avrebbe proprio ieri sbloccato la situazione, tanto che ieri mattina dalle parti del Mef davano per scontata la nomina di Raffaele Tiscar, un nome che era già circolato questa estate e poi accantonato nelle ultime settimane. Tiscar non sarebbe di sicuro un presidente in linea politicamente con il governo gialloblù Lega-5 stelle, anche perché nel 2014 fu nominato dall'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi come vicesegretario generale di Palazzo Chigi. Poi nel 2017 fu spostato al ministero dell'Ambiente guidato da Gian Luca Galletti. In questi anni Tiscar, toscano, è stato spesso accostato al Giglio magico. In realtà, dicono i ben informati, era semplicemente molto stimato da Renzi. Di Comunione e liberazione, un passato nella Dc fiorentina, vanta una lunga carriera al fianco dell'ex governatore lombardo Roberto Formigoni, prima come assistente parlamentare, poi con ruoli dirigenziali nell'amministrazione lombarda. Non è ancora sicuro però che sarà Tiscar a prendere il posto di Francesco Sperandini. Di sicuro c'è solo la grande preoccupazione nel comparto industriale, tanto che tre giorni fa l'Anev, Associazione nazionale energia del vento, ha diramato un comunicato molto duro dove viene criticato il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, che aveva promesso, come tutti i 5 stelle, una particolare attenzione per il settore delle rinnovabili. «Le posizioni estremamente favorevoli alle tecnologie pulite per la produzione di energia più volte dichiarate da parte del ministro Luigi Di Maio», si legge nella nota, «hanno fatto sperare gli operatori del settore in un cambio netto di indirizzo da parte del ministero dello Sviluppo economico. Le stesse dichiarazioni del ministro Di Maio a fine luglio rispetto all'imminente nomina dei vertici del Gse erano state accolte dalla platea degli operatori presenti al convegno organizzato dall'Anev con grande apprezzamento». E invece è tutto fermo. «Il fatto invece che al 9 di ottobre ancora siamo in attesa di capire quali saranno le necessarie modifiche al decreto sulle rinnovabili che possano consentire agli operatori di raggiungere gli obiettivi che lo stesso ministro Di Maio ha assunto in sede europea e che il soggetto istituzionale preposto al supporto delle rinnovabili non abbia ancora un bilancio approvato e un vertice nominato, destano grande timore nel mondo delle rinnovabili e dell'efficienza». Le parole devono essere arrivate all'orecchio degli interessati che da almeno quattro mesi (il 28 giugno c'è stata la prima convocazione del presidente) litigano sul nome di Roberto Moneta, dipartimento unità tecnica efficienza energetica dell'Enea, ente pubblico che opera nei settori dell'energia. A tutti gli esperti del settore è chiaro che la nomina di Moneta potrebbe rappresentare un conflitto di interessi anche perché potrebbe andare a occuparsi dei Tee (titoli di efficienza energetica) già affrontati in Enea e di competenza diretta di Gse. Ma dietro la sua nomina ci sarebbero le pressioni del sottosegretario al Mise Davide Crippa (M5s) e in particolare del suo segretario Emanuele Piccinno che, secondo il curriculum pubblicato sul sito, ha lavorato con Enea dal 2012 al 2018, quando era ricercatore senior di Isinnova, Istituto di studi per l'integrazione dei sistemi. Di fondo l'insistenza su Moneta, che secondo gli addetti ai lavori non avrebbe la visione strategica necessaria al Gse, avrebbe fatto perdere molto tempo alle aziende e rallentato l'emissione di due provvedimenti fondamentali. Il Fer1, che è il piano di incentivazione rinnovabili, molto atteso perché dovrebbe prevedere nuove incentivazioni per il fotovoltaico fermo da anni e impatterebbe migliaia di aziende con fondi per almeno 400 milioni di euro. È in carico al Mise ma senza il confronto e l'apporto del Gse sarebbe inopportuno approvarlo. Il secondo è ancora più importante. Si tratta del Dm controlli. Viene richiesto da anni dagli operatori perché stempera la dovuta severità che il Gse deve applicare per una normativa stringente e che mira a graduare le sanzioni. In ogni caso ci sono i tempi tecnici da considerare. Il rischio è che le aziende debbano aspettare un semestre per ricevere i fondi con ricadute sui piani industriali.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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