2019-01-18
Lo spettro della Brexit selvaggia spaventa più Bruxelles che Londra
Trattative serrate nel Regno Unito per evitare l'opzione «no deal»: lunedì Theresa May presenta il suo piano B Se non si trova l'accordo, l'Ue rischia di perdere i 45 miliardi che la Gran Bretagna le deve per il divorzio. Se non esce prima di maggio, anche Londra potrebbe partecipare alle elezioni aggiungendo altro caos e scenari imprevedibili a una situazione già complicata Lo speciale comprende due articoli. Dopo la bocciatura del suo piano per la Brexit di martedì sera e la mozione di sfiducia evitata ventiquattro ore più tardi, il premier britannico Theresa May è stato costretto, dopo quasi due anni di negoziati, ad aprire i tavoli di discussione con i partiti d'opposizione alla Camera dei Comuni. Il suo ufficio ha spiegato ieri che il premier è determinato a far rispettare i «principi» della sua Brexit durante i colloqui avviati dopo la batosta alla Camera dei Comuni sul suo accordo per l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea. Lunedì, comunque, presenterà un «piano B», che sarà poi votato il 29 gennaio. Il portavoce di Downing Street ha parlato ieri alla stampa sottolineando la disponibilità del premier ad ascoltare «con spirito costruttivo» le richieste e le indicazioni dei vari gruppi ma, non appena gli è stato chiesto quanto Theresa May fosse disposta a cedere sulle sue linee rosse, ha spiegato: «Vuole onorare il risultato del referendum». Ciò significa no all'unione doganale e no a un secondo referendum, le due opzioni caldeggiate dai partiti che si sono seduti al tavolo con lei. Onorare l'esito della votazione del 23 giugno 2016, secondo la May, che considera una nuova votazione il più grave tradimento del suo popolo, implica una politica commerciale indipendente (ecco spiegato il no all'unione doganale). Il portavoce di Downing Street ha però indicato nei diritti dei lavoratori e negli standard ambientali i due temi su cui il premier è aperta a discussioni. Eventuali concessi al Partito laburista aprirebbero la strada a una versione ancora più soft della Brexit. Ma i colloqui sono partiti con il piede sbagliato. Il premier May ha incontrato i vertici del Partito liberaldemocratico, del Partito nazionale scozzese e del gallese Plaid Cymru. Ma non Jeremy Corbyn, leader del maggior partito d'opposizione, che ha chiesto al premier conservatore, quale precondizione per dialogare, l'impegno a escludere dal tavolo l'ipotesi dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea senza un accordo, cioè il caso «no deal», quello che più preoccupa Londra ma anche Bruxelles. Theresa May, che pur non ha chiuso la porta, si è detta «delusa» dall'atteggiamento di Corbyn, convinta che il leader laburista, nonostante la mozione contro il governo da lui presentata e bocciata mercoledì sera dalla Camera dei Comuni, punti ancora a sfiduciarla per portare il Paese a elezioni anticipate. Per Corbyn rimane, infatti, questa la strada migliore per «uscire dal vicolo cieco» in cui è finita la Brexit. Tuttavia, dopo il flop della mozione e sotto la pressione del suo partito, il leader laburista ha iniziato a valutare anche l'opzione di «una nuova consultazione pubblica», cioè un secondo referendum. Nel frattempo, i 27 Paesi dell'Ue hanno iniziato a lavorare sui piani per far fronte allo scenario «no deal». All'inizio dei negoziati, il Regno Unito si divideva tra chi sosteneva la «soft Brexit» e chi la «hard Brexit». Ora, con un unico piano sul tavolo, quello di Theresa May bocciato dai ribelli nel Partito conservatore perché ritenuto troppo morbido, lo scenario più duro è quello dell'uscita senza accordo. Un'eventualità che vuole evitare anche l'Unione europea, come dimostra una dichiarazione del portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas, che ieri ha spiegato, in merito ai contatti tra Bruxelles e Londra, che «il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il premier britannico Theresa May non hanno parlato, ma sono in contatto via sms». La paura del «no deal» nelle stanze europee è provata anche da quando detto da Michel Barnier, capo negoziatore dell'Ue per la Brexit: «Se il Regno Unito sposterà i suoi paletti, faremo altrettanto». Il suo auspicio è che le consultazioni avviata dal premier britannico possano portare a «una nuova fase» delle trattative, per arrivare a un divorzio «ordinato». È evidente dalle parole dei leader europei il timore del «no deal», ipotesi che spesso viene descritta come spaventosa per Londra ma che sta iniziando a intimorire anche Bruxelles. Per tre ragioni. La prima è politica: impedendo un'uscita «ordinata» a suon di no, l'Unione europea alimenterebbe i sospetti di chi la ritiene un meccanismo dal quale è impossibile uscire anche volendolo. Le altre due ragioni sono economiche. Una riguarda l'assegno di divorzio che il Regno Unito ha accettato di versare all'Unione europea per saldare i conti della Brexit: 39 miliardi di sterline (circa 45 miliardi di euro), che Bruxelles non incasserebbe in caso di «no deal» venendo meno l'accordo che li prevede. L'altra riguarda i servizi finanziari, per i quali Londra è piazza fondamentale a livello europeo e mondiale (il Regno Unito, invece, importa dall'Ue soprattutto merci). In caso di uscita senza accordo, infatti, i singoli governi europei sarebbero costretti, per salvaguardare le prestazioni dei servizi finanziari, a trattative bilaterali con Londra. Che rischiano di essere complicate ma soprattutto, ed è ciò che spaventati mercati e investitori, lunghe. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lo-spettro-della-brexit-selvaggia-spaventa-piu-bruxelles-che-londra-2626299199.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="europee-stravolte-in-caso-di-stallo" data-post-id="2626299199" data-published-at="1757969777" data-use-pagination="False"> Europee stravolte in caso di stallo In vista dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea fissata per il 29 marzo, il Parlamento europeo ha deciso lo scorso giugno di ridurre il numero di deputati passando da 751 a 705. Saranno 73 i seggi che si libereranno in seguito alla Brexit: di questi, 46 verranno posti «in riserva» e potranno essere assegnati a eventuali nuovi Paesi aderenti; gli altri 27 verranno ridistribuiti tra 14 Paesi dell'Unione per compensare le attuali sottorappresentazioni (all'Italia toccherebbero tre seggi in più, da 73 a 76). Come spiega però il testo approvato dall'Europarlamento, la nuova assegnazione si applicherà soltanto nel caso in cui il Regno Unito lasc l'Ue. In caso contrario, le attuali disposizioni rimarrebbero in vigore fino a nuovo ordine. Ciò comporta che, nel caso in cui Londra e Bruxelles si accordassero su un rinvio della data della Brexit oltre l'ultima settimana di maggio, quando cioè si terranno le elezioni europee, e senza un nuovo ordine, i cittadini britannici verrebbero convocati alle urne per scegliere i loro eurodeputati. Dopo le difficoltà del premier britannico Theresa May di compattare il suo governo, il suo partito e il suo Parlamento sull'accordo che aveva chiuso a novembre con i leader dell'Unione europea, l'ipotesi di rinvio della data della Brexit, assieme a quella di un nuovo referendum (ipotesi sostenuta ora anche da uno dei protagonista della campagna per la Brexit, l'eurodeputato dell'Ukip Nigel Farage), ha iniziato a circolare con sempre maggior insistenza sia nelle stanze di Londra sia in quelle di Bruxelles e Strasburgo. Questo scenario creerebbe un problema giuridico per l'Unione europea perché, come spiega una fonte europea alla Verità, di chiaro, a livello legale, non c'è molto. È lo stesso problema che si è venuto a creare con l'articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che, attivato dal Regno Unito il 29 marzo 2017, ha dato inizio ai due anni di negoziati. Quell'articolo, di soli cinque paragrafi, scritto probabilmente con la convinzione che mai nessuno Stato membro avrebbe deciso di lasciare l'Unione europea, non offre dettagli tecnici sul ritiro di un Paese. Queste mancanze hanno contribuito, assieme alle tensioni tra Londra e Bruxelles, alla situazione confusa e indecifrabile nella quale versa oggi la Brexit. Anche sulla questione delle elezioni europee in caso di rinvio della data del divorzio britannico, i trattati non offrono dettagli. C'è solo il testo approvato a giugno. Diamo un'occhiata agli scenari possibili. Se l'estensione fosse di sei settimane circa, il Regno Unito sarebbe fuori dall'Ue prima delle elezioni e non ci sarebbero problemi. Se durasse tre mesi, cioè fino a fine giugno, l'attuale Parlamento europeo sarebbe ancora nel suo mandato quinquennale e di conseguenza potrebbe ratificare l'accordo sulla Brexit. Ogni decisione europea presa dopo il 2 luglio andrebbe, invece, ratificata dall'Aula votata tra il 23 e il 26 maggio. Inoltre, con un rinvio della Brexit, la questione dei seggi ridistribuiti rimarrebbe aperta. Pensiamo all'Italia, che guadagnerebbe tre posti all'Europarlamento: a quattro mesi dal voto, ancora non sappiamo se i deputati che dovremo eleggere saranno 73 o 76. Ecco perché, alla fine, per evitare di aggiungere caos al caos, Londra e Bruxelles potrebbero trovarsi a firmare, nella peggiore delle ipotesi, un accordicchio che eviti altri problemi giuridici e che, soprattutto, garantisca ai cittadini europei nel Regno Unito le tutele che verrebbero meno in caso di «no deal» e ai leader di Londra e Bruxelles di evitare una figuraccia, quella di non essere riusciti a realizzare la Brexit.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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