2024-01-27
L’ipocrisia dei colossi del farmaco. No alla pena di morte, sì all’eutanasia
In Alabama, un condannato è stato ucciso con l’azoto perché le aziende, tra cui Pfizer e J&J, rifiutano per protesta di fornire i barbiturici. Gli stessi che vengono usati nel suicidio assistito, senza che nessuno fiati.I farmaci usati per eseguire la pena di morte e quelli impiegati per l’eutanasia o il suicidio assistito sono gli stessi, ma le aziende farmaceutiche si schierano in modo diverso. Il motivo per cui non forniscono quelli per l’esecuzione capitale non è legato a questioni etiche, ma piuttosto di opportunità, di mercato. A evidenziare il cortocircuito è la cronaca di questi giorni.Mercoledì sera, in Alabama, Kenneth Smith - già sopravvissuto a un’iniezione letale nel 2022 perché gli operatori, per oltre un’ora, non hanno trovato la vena su cui inoculare il farmaco - è stato giustiziato con l’azoto. È la prima volta nella storia, americana e mondiale, che una condanna a morte viene eseguita con questo metodo controverso, non usato più nemmeno sugli animali, e definito dall’Organizzazione delle nazioni unite «una tortura», cosa non ammessa dall’ottavo emendamento della Costituzione americana. La pratica, legale negli Stati Uniti, consiste nel far inalare azoto puro. La morte sopraggiunge per ipossia, cioè carenza di ossigeno. La maschera d’azoto per uccidere un condannato è una metodica mai usata sull’uomo e in medicina veterinaria è stata impiegata solo nei suini e poi abbandonata, perché, nei mammiferi, comporta dei rischi: può non provocare subito il decesso bensì causare ictus e stati vegetativi, con risvolti sia medico-scientifici sia etici, visto che può allungare l’agonia.Secondo le autorità dell’Alabama, Smith è morto nel giro di qualche minuto. In ogni caso, è stato ucciso con l’azoto per carenza di iniezioni letali: le case farmaceutiche non consegnano più questi prodotti. «È una crudeltà», non è la «compassione a guidare questa scelta, la questione non è posta sul piano etico: temono la pubblicità negativa e i risvolti sul mercato», afferma però Francesco Giunta, già professore ordinario di Anestesia e rianimazione docente di Bioetica presso facoltà di filosofia Università di Pisa. Il boicottaggio cominciò nel 2011, con il blocco, su iniziativa italiana, della produzione del pentothal, un barbiturico usato nelle iniezioni letali, da parte dell’americana Hospira (oggi Pfizer) nello stabilimento vicino a Milano. Tra i motivi della scelta fu indicata anche la preoccupazione per il suo utilizzo nelle esecuzioni negli Stati Uniti. Nello stesso anno, l’Unione europea votò per vietare la vendita e il trasporto di tutti i farmaci utilizzati per le iniezioni letali Oltreoceano. Ciò ha reso difficile per molti Stati procurarsi farmaci per le esecuzioni e, a causa di questa difficoltà, mentre le scorte si assottigliavano, alcuni hanno provato a produrli per conto proprio o hanno cercato delle alternative, come l’azoto.Attualmente, secondo lethalinjectioninfo.org, sono una sessantina le aziende che hanno messo in atto una serie di azioni per evitare che i loro medicinali siano impiegati nelle esecuzioni capitali. Lo scorso settembre, secondo un articolo di The Intercept, all’elenco si sono aggiunti quattro produttori di forniture mediche - Baxter, B. Braun Medical, Fresenius Kabi e Johnson & Johnson - che hanno dichiarato il loro «rifiuto a vendere le loro attrezzature (cateteri, flebo, sacche, ndr) là dove ci sia il sospetto che vengano utilizzate nelle esecuzioni con iniezione letale». Fresenius Kabi ha già contestato l’uso improprio dei suoi prodotti da parte dello Stato, facendo causa al Nebraska nel 2018 per aver acquistato i suoi farmaci da utilizzare nell’iniezione letale. All’epoca, l’acquisto era avvenuto dopo l’avvertimento lanciato nel 2012 dall’azienda secondo cui eventuali tentativi di aggirare le restrizioni l’avrebbero costretta a porre limitazioni anche nelle vendite agli ospedali per gli usi consueti. Le farmaceutiche non sono così solerti però nei riguardi dell’eutanasia o del suicidio assistito, in cui gli stessi medicinali banditi dal braccio della morte sono autosomministrati da chi decide di uccidersi. «Sono farmaci usati normalmente in neurologia e rianimazione», sottolinea, alla Verità, il professor Giunta, «difficile ricostruire la filiera: se non sono reperiti all’ospedale, si possono avere altrove», anche in farmacia. Certo, osserva l’esperto, «l’azienda potrebbe dichiarare che non devono essere usati per l’eutanasia o il suicidio assistito», ma non si potrebbe verificarne l’applicazione. Così, non stupisce che, lo scorso novembre, per la prima volta in Italia, una donna, Anna di 55 anni, a Trieste, abbia avuto accesso al suicidio assistito «con l’assistenza completa del Servizio sanitario nazionale», che ha fornito «il farmaco letale, la strumentazione», spiega l’associazione Luca Coscioni, «e un medico individuato dall’azienda sanitaria che, su base volontaria, ha provveduto a supportare l’azione richiesta, quindi senza intervenire direttamente nella somministrazione del farmaco, azione che è rimasta di esclusiva spettanza della donna». Forse, per quanto eutanasia ed esecuzione capitale si possano considerare realtà profondamente diverse, perché l’una è volontaria e l’altra è involontaria, come suggeriva già anni fa Lucetta Scaraffia, per il fatto che si usano gli stessi metodi e farmaci per morire «non possiamo più continuare a vedere le due esperienze distinte» tra «forse tortura e liberazione dignitosa». Non si può restare nell’ambigua scelta delle farmaceutiche che «negano nei penitenziari la possibilità di una morte dignitosa», conclude Giunta, «per questioni di immagine». E sull’eutanasia fanno spallucce. Per uscirne serve l’etica, porre la questione anche sulla dignità del vivere e non solo del morire.