
Parla il neodeputato, entrato al Parlamento Ue dopo l'addio degli inglesi: «La Brexit è un'opportunità: si può ridimensionare Berlino con un fronte mediterraneo. I sovranisti però creino il loro establishment».Vincenzo Sofo, 33 anni, leghista, è una «conseguenza» della Brexit: dopo l'addio degli eurodeputati inglesi, è entrato in Parlamento europeo. Ma che avesse un profilo internazionale era noto: ha riempito le cronache rosa per la sua relazione con Marion Maréchal, nipote della numero uno del Rassemblement national, Marine Le Pen.È più la soddisfazione per l'ingresso all'Europarlamento, o il timore che la dipartita degli inglesi ci lasci soli dinanzi a Parigi e Berlino?«La dipartita degli inglesi, in realtà, è una grande opportunità per l'Italia».Ma come?«Sì: l'Ue s'è resa conto di non essere irreversibile».E allora?«L'Europa si è indebolita e l'Italia adesso può riequilibrare i rapporti di forza, soprattutto nei confronti della Germania».In che modo?«Sfruttando il suo ruolo di porto del Mediterraneo».Intanto si discute di riforma del Patto di stabilità, ma nessuno vuole ripensare i parametri di Maastricht.«Chi comanda oggi nell'Ue non è disposto a rivedere le regole».Dunque?«Un cambiamento può passare solo dai rapporti di forza tra Stati. Basta guadare i Paesi dell'Est».I quattro di Visegrád?«Hanno guadagnato peso contrattuale realizzando questo sottogruppo: dobbiamo fare lo stesso».Come?«Creando un fronte comune dell'Europa latina: Francia e Spagna in primis».Sì, ma i Paesi di Visegrád hanno governi euroscettici. In Francia c'è Emmanuel Macron, in Spagna Pedro Sánchez, in Italia Giuseppe Conte...«L'interesse nazionale, la strategia necessaria a medio-lungo termine, dovrebbero prevalere».Intanto abbiamo incassato il «pacco» del Mes: si firma ad aprile. E il famoso «pacchetto»? L'unione bancaria?«Si vede che al di là della retorica dei giallorossi su quanto finalmente contiamo in Europa, in realtà continuiamo a essere bistrattati».Che ne pensa del Green new deal?«Mettiamo più soldi di quanti ne riceveremo, solo per finanziare la ristrutturazione del sistema industriale dei Paesi legati alla Germania».Per realizzare il fronte mediterraneo bisogna saper costruire rapporti internazionali. La Lega è ancora debole da quel punto di vista? «Non è vero che siamo deboli. Ma ci vuole una strategia comune con Fratelli d'Italia».Fdi invece sta provando a farvi le scarpe? Giorgia Meloni ha aperto il convegno dei conservatori a Roma, poi è volata negli Usa, dove tornerà a fine mese...«Fdi sta legittimamente cercando di potenziarsi. Se cresce, io sono contento. Mi preoccuperei se crescesse il Pd...».Pare che se Viktor Orbán fosse cacciato dal Ppe, entrerebbe nel gruppo della Meloni, non in quello della Lega. Ma non era il grande amico di Matteo Salvini?«Non credo che Orbán uscirà dal Ppe. Lui, almeno, ha tutto l'interesse a rimanerci».Perché?«L'Ungheria ha un rapporto economico e geopolitico molto stretto con la Germania: lui è costretto a collaborare con Angela Merkel».Lei che, in un certo senso, l'ha costruita anche in amore, crede nell'internazionale sovranista?«Non in quella alla Steve Bannon».No?«Sono sempre stato scettico perché non credo si possa prendere un modello politico nato negli Stati Uniti e importarlo sic et simpliciter in Europa».Quindi niente internazionale?«Qualcosa si può fare: una piattaforma di dialogo tra partiti sovranisti».Il problema è che gli interessi nazionali sono divergenti.«Sì, ma come ha scritto Marcello Veneziani, non ci dobbiamo scordare che essere patrioti contempla anche la difesa delle radici della civiltà europea».Le pare facile?«Niente affatto, perché l'Europa è eterogenea».E storicamente divisa da secoli di guerre.«Senza dubbio. Perciò credo si debba partire da una collaborazione tra Paesi culturalmente vicini e con interessi convergenti, come quelli mediterranei».La Lega ha bisogno di meno felpa e più cravatta?«Servono entrambe: la politica deve rappresentare tutta la società».La Dc lo chiamava interclassismo.«Ed è una cosa saggia: non si può escludere un pezzo di Paese. Con la felpa si interpretano i bisogni del popolo, con la cravatta si gestisce il ruolo del sistema finanziario e bancario».Lei è un emblema della nuova Lega nazionale: nato a Milano, origini calabresi - e accento non esattamente meneghino.(Risata) «Sì, sono un ibrido... Ma di sangue 100% calabrese».Il pregiudizio anti Lega al Sud è estinto? A vedere Salvini contestato a Palermo non si direbbe...«Il pregiudizio è estinto, ma Lega e Sud sono due mondi che ancora devono conoscersi bene».C'è il pericolo che s'infiltrino gli impresentabili?«Quel pericolo in politica esiste sempre. Ancora c'è da sviluppare una vera e propria classe dirigente: per ora abbiamo i commissari che provengono da altre Regioni».Cosa le ha lasciato l'esperienza della campagna elettorale per le europee in Calabria?«Il desiderio di lavorare per il rilancio del Sud».Questo lo dicono tutti...«Glielo spiego meglio, infatti. Partiamo da un presupposto: il Nord è saturo».Saturo?«Di crescita economica, di occupazione, di utilizzo delle risorse. E non si può più permettere di trainare il Sud».Quindi?«Il Sud deve ripartire da solo, sfruttando il suo vantaggio geopolitico: è un ponte sul Mediterraneo. Ciò ha una valenza strategica per l'Italia intera».E come si deve agire?«Portando il Sud in Europa. Dove non è mai entrato».Concretamente?«La prima battaglia di cui mi farò carico al Parlamento Ue sarà per l'istituzione di un'agenzia europea per la tutela dei beni archeologici».Internazionalizzare i bronzi di Riace?«Se lo ricorda quando, prima dell'Expo 2015, scoppiò la polemica sul trasferimento dei bronzi a Milano?».Si disse che dovevano rimanere a Reggio Calabria per valorizzare il territorio.«Cerchi su Google “rapimento bronzi di Riace"».Cosa viene fuori?«Un gruppo di persone che andò al museo di Reggio Calabria per cercare di “rapire" i bronzi e portarli all'Expo».Ah sì?«Tra quelle persone c'ero io».Messaggio chiaro: il Sud esca dal provincialismo.«E approfitti delle vetrine internazionali. Così la pensavamo noi “talebani"».Ecco, a proposito: nel 2009 lei fondò Il Talebano. Si può definirlo un pensatoio leghista?«Sì. Nacque per creare un ponto tra il mondo leghista tradizionale - nel 2009 c'era ancora la Lega di Umberto Bossi - e la destra nazionale, rimasta orfana di An».Lei fu un precursore della svolta salviniana, allora?«Da questo punto di vista sì».Perché quel nome?«In omaggio a Massimo Fini».E come lui, siete dei «liberi pensatori». Alcune delle vostre posizioni divergono da quelle ufficiali della Lega. Penso al provocatorio «elogio di un terrorista», su Qassem Soleimani.«Sì, perché noi non siamo un organo della Lega». Cosa siete?«Il Talebano, che oggi è diretto da Fabrizio Fratus, è un pensatoio del mondo identitario».E quindi?«Ci scrivono leghisti, militanti di Fdi e persone che non hanno affiliazioni partitiche. Serve a creare un confronto culturale per unire diversi mondi, con un taglio che, sin dal nome, è evidentemente provocatorio».Dove ha conosciuto Marion Maréchal?«A una conferenza a Milano sul futuro dell'Europa, cui partecipava anche Salvini».«Galeotto» fu Salvini?«Pure Il Talebano, perché la conferenza era organizzata da noi».Perché Maréchal ha abbandonato il partito?«Sta facendo un ragionamento lungimirante».Quale?«Dedicarsi alla costruzione di una classe dirigente con la sua scuola di scienze politiche e manageriali. È una necessità».Dice?«Per realizzare un progetto politico servono imprenditori e dirigenti pubblici con una certa visione». Bisogna fare sistema?«Se hai gli eletti, ma non hai i manager e il tessuto produttivo che condivide la tua idea, vinci le elezioni per niente. Orbán l'ha detto chiaramente».Che ha detto?«Che il potere non bisogna solo conquistarlo, bisogna saperselo tenere».Bannon, alla Verità, ha fatto un'osservazione simile: ai sovranisti non basta vincere le elezioni, perché l'establishment farà di tutto per impedire loro di governare. Devono imparare a diventare loro stessi establishment.«È così. D'altronde, establishment non è una parolaccia. L'obiettivo dei sovranisti è di proporne uno alternativo».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.
Matteo Lepore (Ansa)
Quella che in un istituto era stata presentata come la «Giornata della cittadinanza» si è rivelata essere della mera propaganda pro immigrazione, mascherata da attività extra didattica. Fdi: «Denunceremo».
Doveva essere una sorta di lezione civica rivolta agli studenti. La comunicazione arrivata ai genitori degli allievi delle medie della scuola Guido Guinizelli di Bologna citava testualmente «Un evento gratuito», che si sarebbe svolto il 20 novembre dalle 10 alle 13 al Teatro Manzoni per la «Giornata della cittadinanza 2025». Luca (nome di fantasia) non ha esitato a dare il suo consenso, convinto che per la figlia dodicenne Margherita poteva essere un momento didattico.





