2019-04-15
L’intervista a Johnson Righeira: «Gli Anni 80, l’ultimo decennio solido»
Il cantante: «La nostra musica è diventata un genere, oggi è tutto più impalpabile. Di soldi ne ho fatti eccome, non so come li ho spesi. Le ragazze? Ne successero di ogni, però prendevamo gli scarti degli Spandau Ballet».Il nome Stefano Righi potrebbe non dirvi granché, eppure in molti devono a lui il suono delle migliori estati della loro vita. Basta una parola per evocarle: Righeira. È il duo che Righi formò con il socio (ormai ex) Stefano Rota all'alba degli Anni 80 e che ci accompagnò con i suoi successi in tempi di spensieratezza: Vamos a la playa (1983) su tutti, ma anche No tengo dinero (1983-84) e L'estate sta finendo (1985). Oggi torna con un disco che è un tributo a quell'epoca. Leggero, pieno zeppo di ragazze (anzi, «sbarbine»). Azzardo: Vamos a la playa ha segnato gli Anni 80 come Sapore di sale gli Anni 60. Ne eravate consapevoli? «No, eravamo giovani e incoscienti. Sognavamo il successo ma andò oltre ogni più rosea previsione». Come nacque quella canzone?«Mi ispirai proprio agli Anni 60, quando ci fu una rottura con la musica italiana tradizionale. Edoardo Vianello in primis. Abbronzatissima, ricorda?».Ovvio.«Anche Gino Paoli, per carità. Ma soprattutto Guarda come dondolo, I watussi… Testi surreali che si contrapponevano a quanto ascoltato fino a quel momento. Tipo Nilla Pizzi. E io ero punk». Punk? Sono confuso.«Le spiego. Il punk era ripartito in un certo senso dal rock delle origini, quello di rottura. Così io a inizio Anni 80 volli fare un'operazione analoga recuperando la rottura nella musica italiana di vent'anni prima. E che cos'era? Gli urlatori. I twist. I geghegé. Non per niente una delle mie prime canzoni si chiamava Clonazione geghegè». I Clash stanno a Elvis Presley come i Righeira a Rita Pavone. «Con quella canzone portammo la musica da spiaggia a un livello successivo, infatti era un testo post atomico». Non si offenda ma in pochi se ne accorsero. Era in spagnolo e bastava sapere il ritornello per sentirsi felici. «Allora gliela spiego adesso. Diceva che c'era stata un'esplosione nucleare però… noi vamos a la playa. Ma che sono 'ste bombe, andiamo in spiaggia a divertirci e vaffanculo. Ci si abbronza di radiazioni e si diventa tutti blu, pazienza. In quel periodo la Guerra fredda ci influenzava, anche se non ce ne rendevamo tanto conto. Forse senza saperlo stavamo esorcizzando quella paura». Era il meraviglioso ottimismo degli Anni 80. Com'è possibile che oggi quello spirito si sia perduto? Eppure anche allora i guai non mancavano: la mafia, l'Aids, la minaccia nucleare, appunto. «C'era più speranza». C'erano i soldi, oggi no tengo dinero, per citare un altro grande successo dei Righeira…«C'era creatività. La creatività genera ottimismo». C'era anche tanto narcisismo. Il piacere personale travolse il bene collettivo. C'erano gli yuppie e si parlava di «edonismo reaganiano», tormentone di Roberto D'Agostino a Quelli della notte, altro manifesto degli Anni 80. «Sì, erano considerati anni vacui, superficiali, fatti di pura apparenza. Ma si sbagliavano di grosso. In realtà sono stati l'ultimo decennio in cui tutti gli ambiti artistici e creativi hanno espresso qualcosa, qualcosa che sia davvero rimasto. Basta pensare a Keith Haring e a Versace, Sottsass e il postmoderno. Nella musica c'è stata la cosiddetta “italo disco": non abbiamo mai venduto tanti dischi all'estero come in quel periodo». Faccia qualche nome.«Era un fermento. I Gazebo con I like Chopin, Spagna e le sue hit, Ryan Paris e la Dolce vita, Den Arrow. E poi Savage, i Novecento, Mike Francis. P.Lion con Happy Children... E chissà quanti me ne dimentico. Ci incontravamo ai festival in giro per l'Europa, era divertente. Una volta incrociai Boy George dei Culture Club, si mise a cantarmi Vamos a la playa… La nostra musica nel tempo si è stabilizzata ed è diventata un genere. Oggi si organizzano feste a tema ed è bello vedere che vengono anche i giovani». Quelli che sfuggono alla trap. «La trap è un fenomeno, ma è più omologata. Non so se rimarrà come ha fatto la nostra musica».Ogni generazione ha la sua, no?«Ma si, però una volta uno poteva abbracciarsi il suo disco, oggi hai i file. Hai lo streaming. Tutto è usa e getta, impalpabile. Si passa oltre. Ma forse è solo un modo di andare avanti, e fermarsi da qualche altra parte. Però se tanta gente torna al vinile, un motivo ci sarà».Ci racconti l'arrivo del successo, come fu? «Strano. Quando i Righeira esplosero facevo il militare: dall'ottobre 1982 all'ottobre 1983». Chiuso in caserma mentre fuori la acclamavano… I suoi commilitoni che le dicevano? «Prima del successo, quando ancora lavoravo sulle ultime cose, mi guardavano come un illuso. Dopo invece un po' in cagnesco. Per me fu un periodo strano. Ero costretto a prendere le licenze per andare in tivù. Di giorno la gente mi chiedeva gli autografi, di sera tornavo in caserma... At-tenti! Ri-poso! Tant'è che ad agosto mi feci mandare alla neuro». L'Italia ballava con la sua musica e lei era chiuso alla neuro?«Stress, depressione, esaurimento nervoso». Ma era vero? «Un pochino esaurito lo ero. Mi stava cambiando la vita e io non c'ero. Un rimpianto che avrò sempre».Quindi vero a metà. «All'ospedale raccontai che stavo male, che ero studente universitario, che ero stanco. Tutte storie poco convincenti. Capii che dovevo giocare il tutto per tutto. Vinsi la mia timidezza e dissi allo psicologo: “Senta, conosce Vamos a la playa?". E quello: “Sì…". “Allora: sono uno dei due Righeira, ho bisogno di 20 giorni per registrare l'album e partecipare alla finale del Festivalbar". Chiamò il capitano, che mi fece tutto un discorso ampolloso sull'importanza del servizio militare e bla bla bla. E alla fine: “Comunque le do 20 giorni". Tièèè!».E quando uscì… festini? «No no, io sono uno tranquillo».Se le dico che non ci credo? «Ne successero di ogni…».Donne.«Ho fatto meno di quanto avrei potuto. Frequentavamo i locali underground di Milano, tipo il Plastique, dove per le ragazze eravamo troppo commerciali. Le altre invece - quelle più “leggere" - ci trovavano strani, ci guardavano con sospetto. In effetti un po' inquietanti lo eravamo».Così ci ammazza il cliché della graziosa ragazza che entra nel camerino dell'artista famoso.«Qualcosa è successo, ma non come ai Duran Duran o agli Spandau. Prendevamo i loro scarti, ecco» (ride).Ha fatto tanti soldi? «Non l'ho mai saputo. Non riesco a quantificare perché appena guadagnavo, spendevo. Prima non avevo una lira, dopo sì ma era come se non avessero valore. Ristoranti dove pagavo per tutti, lussuosi residence dove abitavo... Non me lo ricordo neanche, non ho più molta memoria».Di droga ne girava tanta? «Certo. Erano gli Anni 80, vuole che non ne girasse? Cocaina, ça va sans dire». Nel 1993 fu arrestato per spaccio e poi assolto… «A quei tempi si viveva nelle discoteche, certe cose sembravano normali anche se non lo erano. E io ero troppo vicino a certi personaggi. Ma lì, a Padova, sapevano tutti che non c'entravo. Forse anche i poliziotti. L'intero apparato inquisitorio si crogiolò nell'idea che un mio coinvolgimento avrebbe dato visibilità all'operazione. Così fu». Come finì?«5 mesi di custodia cautelare. Mi crollò il mondo addosso. Poi fui assolto ma la notizia non trovò molto spazio sui giornali: in testa alla gente rimase l'arresto, che era stato sparato in prima pagina. Su questo io non perdono. Però guardi, ne vorrei parlare il meno possibile. Anche se sono passati 25 anni e ho fatto tante altre cose, questa storia la trovi ancora in cima alle ricerche di Google. È fastidioso». Il suo ex socio nei Righeira, Stefano Rota, le stette vicino? «Sì, molto. Anche perché sapeva che ero innocente».In che rapporti siete oggi? «Ci siamo separati. E non ci siamo lasciati bene. Ma anche di questo preferirei non parlare». Così fa il Righeira tutto da solo. «Io sono 100 per cento Righeira. Sono più Righeira che mai». Presto uscirà un inedito prodotto dai fratelli La Bionda, gli stessi delle grandi hit dei Righeira, ma intanto la ascoltiamo in Mi piaccion le sbarbine, cover di un classico degli Skiantos. Perché ha scelto proprio la loro canzone del 1980? «Suonarono nel mio primo 45 giri Bianca Surf. Ero amico del loro leader Freak Antoni con cui passai un periodo straordinario a Bologna, città che alla fine degli anni 70 era un po' la Seattle italiana, culla della prima ondata del punk rock italiano. Lui è scomparso 5 anni fa e secondo me non è ricordato abbastanza. Snobbato dalla cultura ufficiale, quella con la K». Il testo dice Mi piaccion le sbarbine… Quelle alte 1 metro e 80/quelle basse 1 e 50/non esiste divisione/quel che conta è il calore. Eccetera... «Sì, ma non c'è niente da spiegare. È così e basta. Ricordiamoci che quando uscì eravamo in coda agli Anni di piombo. Gli Skiantos portarono una certa leggerezza demenziale che forse era proprio una risposta a quel periodo». In tempi di Tinder, l'app per il sesso mordi e fuggi molto diffusa, è quanto mai attuale. «Ci sono canzoni che non passano mai. Cambia il mondo ma loro rimangono attuali». Il video della canzone è girato in un bordello torinese con bambole di silicone. «Ci divertiva solo l'idea. E poi costava meno che metterci le sbarbine vere» (ride). L'intervista sta finendo... Parafraso un suo collega e le chiedo, cosa è rimasto di quegli Anni 80? «È rimasto molto, a cominciare da me (ride). Tanti artisti di allora sono ancora attivi, compreso lo stesso Raf». Rimangono i ricordi. «Come le dicevo non ho per niente memoria, quindi posso soltanto pensare al futuro. E il meglio deve ancora venire».
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