2021-04-12
Alessandro Rosina «Assegno unico? Rivoluzione a metà»
Il demografo: «Esaltano i 250 euro, ma devono assicurare fondi alle classi medie, asili nido e occupazione. Sbaglia Mario Draghi a prendersela con i giovani: in questo Paese, se non saltano la fila restano sempre in coda»Alessandro Rosina, demografo, professore alla Cattolica di Milano, lo ripete da anni: l'Italia è afflitta dalla piaga del «degiovanimento».Professore, di che si tratta?«È una definizione nuova: finora si è parlato solo di invecchiamento, ma il termine concentra l'attenzione solo sulla popolazione anziana».È sbagliato?«Siamo in una fase in cui il problema vero è che i giovani sono una risorsa scarsa. Ma con loro accade il contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare, in base alle leggi dell'economia».Ovvero?«Quando un bene è scarso, di solito diventa più prezioso. Così non è andata con il “bene" giovani: sono sempre meno e su di loro, in Italia, si investe poco rispetto alla media europea. È un circolo vizioso».Cioè?«Poiché sono sempre meno, i giovani incidono scarsamente sulle decisioni politiche. Al contempo, faticano a rendersi autonomi dalle famiglie, a inserirsi nei settori produttivi e, quindi, a creare dei loro progetti di vita, delle loro famiglie. E ciò accentua ulteriormente il degiovanimento quantitativo, perché si riduce la natalità».Un bel guaio.«Eppure, in Italia avremmo particolarmente bisogno di giovani al centro della vita attiva, per compensare l'aumento degli anziani e quello, conseguente, del debito».La pandemia ha aggravato questo fenomeno?«Si è inserita in un contesto già compromesso. È dal 2007 che l'Italia ha sia i record europei di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, sia di bassa fecondità. Con la recessione del 2008-2013, la situazione è peggiorata: natalità e percorsi formativi e occupazionali dei giovani si sono ulteriormente allontanati dalle medie europee».E dal 2013 a oggi?«Finita la fase acuta delle recessione, il divario ha continuato a crescere. Siamo arrivati al 2019 con una serie terribile di record storici negativi nel tasso di natalità. La pandemia ha aggravato i problemi esistenti, come la povertà infantile e delle famiglie, che aumenta dopo la nascita del secondo figlio».Ecco.«È ovvio: lavorativamente, i più penalizzati sono i giovani con contratti a tempo. I matrimoni sono crollati. La condizione femminile è peggiorata: s'è ridotta la possibilità di conciliare lavoro e famiglia».In che senso?«Le complicazioni nell'organizzazione della vita familiare, legate allo smart working e al fatto che i figli piccoli fossero costretti a restare a casa, ha creato un sovraccarico soprattutto sulle donne. Ma la pandemia ha peggiorato anche un altro indicatore negativo, di tipo psicologico».Quale?«L'incertezza sul futuro. E in questa situazione, le famiglie si sono sentite abbandonate».L'assegno unico aggiusterà le cose?«Il Family act è un ripensamento delle nostre deboli politiche familiari, nella direzione di ciò che hanno fatto già altri Paesi europei».Ad esempio?«La Germania: prima della grande recessione, aveva introdotto l'assegno universale per le famiglie».Quindi?«Il passo in avanti è il segnale culturale: il figlio non è più un costo privato, ma un bene riconosciuto dalla collettività, che quindi si assume l'impegno di sostenerlo. Questo, però, da solo non basta».Che altro serve?«Servizi efficienti».Tipo?«La Germania, ad esempio, era rimasta molto indietro, rispetto alla Francia, sui nidi e i servizi per l'infanzia, avendo concentrato gli investimenti sui congedi. Dunque, ha trasformato in un diritto dei bambini un posto negli asili nido, eliminando l'incertezza in cui versavano i genitori».L'Italia che farà?«Il punto è che l'assegno unico può funzionare se non è solo una misura di contrasto alla povertà, ma anche un aiuto concreto alle famiglie del ceto medio».E a che punto siamo?«A metà del guado. C'è una rivoluzione, ma rischia di rimanere incompiuta, se non si fanno questi passi in più».Quali?«Appunto: innanzitutto, erogare un assegno che sia percepito anche dal ceto medio come in aiuto sostanziale».L'importo dovrebbe essere di 250 euro a figlio, no?«Sì, ma poi bisogna vedere quali paletti vengono imposti».Insomma, chi non ha un Isee proprio bassissimo, rischia di ricevere molto meno?«Esatto. Ma è l'impatto di queste misure sul ceto medio che farà la differenza».C'è il rischio che i politici si «vendano» i 250 euro sulla stampa, ma che poi quei 250 euro a figlio arrivino a poche famiglie?«Proprio così. L'assegno unico, certo, riduce la frammentarietà delle misure che c'erano prima».Però?«Però deve essere un sostegno realmente universale, rivolto ai bambini, indipendentemente dalle caratteristiche economiche dei genitori. E trasformativo, cioè capace di incidere sulle scelte del ceto medio - quindi, in grado d'invertire le dinamiche della natalità».Basterebbe questo?«Nessuna misura, da sola, è una bacchetta magica».E allora?«L'assegno unico non sarà efficace, se non entrerà in combinazione con altre misure: servizi per l'infanzia, congedi, miglioramento delle condizioni dei giovani. Consideri solo questo dato».Che dato?«Servizi per l'infanzia: l'Italia è ancora lontana dall'obiettivo minimo del 33% di copertura per la fascia 0-2 anni».Va raggiunto al più presto.«No: va superato».Perché?«Abbiamo il più basso tasso di occupazione femminile e di fecondità d'Europa. Se vogliamo rialzare questi indicatori, il livello di copertura deve arrivare a quello dei Paesi più attrezzati, come Svezia e Francia, che garantiscono una copertura al 50%. E ci vogliono i congedi di paternità».Mancano?«Sono stati portati da due a quattro giorni obbligatori, come sperimentazione, faticosamente confermata nelle leggi di bilancio. Questo governo s'è impegnato a portarli a dieci giorni, ma è ancora poco rispetto agli altri Paesi».Oggi i figli sono considerati un impegno gravoso, una scelta da ponderare, anche in relazione alle proprie ambizioni di carriera. Questa mentalità non influisce sul calo delle nascite?«Il cambiamento di mentalità aveva già portato, negli anni Cinquanta e Sessanta, a una riduzione del numero di figli messi al mondo dalle coppie. Si facevano, ma se ne facevano meno. Ora, la condizione, diciamo, di default, è non avere figli. Anziché una scelta “in riduzione", si deve fare una scelta “in aggiunta"».E sui paradigmi culturali non si può intervenire?«Attenzione: è interessante che, pur in presenza di questa condizione di default, il numero di figli desiderato dagli italiani sia rimasto attorno a due».Ah sì?«Il punto è che un tempo, se non facevi nulla, comunque finivi per mettere al mondo due figli. Ora, se non fai nulla, i figli non arrivano».Serve una «spintarella».«Chiamiamola così. Il mondo è complesso, è difficile diventare autonomi dalle famiglie d'origine, trovare un'abitazione adeguata, pagare un mutuo, e c'è pure il rischio costante di perdere il lavoro, il che rende necessaria la doppia entrata, cioè la crescita dell'occupazione femminile. La scelta di fare un figlio deve combinarsi con tutti questi altri fattori, inclusa la possibilità, per una donna, di conciliare il lavoro con la maternità».Il modo in cui sono stati dipinti i giovani durante la pandemia - irresponsabili, untori, concentrati solo sugli aperitivi - è una spia del «degiovanimento» che affligge l'Italia?«Ne sono fortemente convinto. Ma era già inascoltabile la narrativa dei giovani “bamboccioni" o “choosy". La pandemia ha peggiorato le cose. Sembra che siano loro i responsabili dei contagi».Non lo sono, però?«Hanno bisogno di essere responsabilizzati, perché certi comportamenti riguarderanno più le loro vite, che quelle degli attuali ottantenni».A che si riferisce?«Al fatto che il mondo in cui crescerà chi oggi è adolescente sarà più esposto a pericoli legati alle epidemie. Però i giovani devono vivere in un Paese attento non solo alla salute pubblica, ma anche alla loro formazione, al lavoro, alle loro attività di relazione, che dovrebbero ripartire il prima possibile». Son parole coraggiose.«Mi è dispiaciuto ascoltare la frase di Mario Draghi sui giovani psicologi saltafila».D'altronde, è stato lui a volere l'obbligo di vaccinazione per sanitari e parasanitari, no?«Servono anzitutto regole chiare da parte del governo. Ma c'è pure da dire che, in questo Paese, se i giovani non saltano la fila, rimarranno per sempre in coda. E se rimangono in coda, l'Italia non cresce».Il prolungato blocco dei licenziamenti danneggerà chi s'affaccia sul mercato del lavoro?«Potrebbe, se esso renderà più difficile per le aziende ristrutturarsi e promuovere un ricambio della manodopera».Lo darebbe il voto ai sedicenni?«Certo. Lo dico dal 2007».Così non scadiamo nella retorica giovanilista?«Quella, di solito, la usa chi vuol tenere i giovani fermi al proprio posto».Lei, invece, che pensa?«Che ogni strumento consegnato ai giovani presuppone una fase formativa nelle scuole».E poi?«Io partirei dal voto per le amministrative: i sedicenni possono lavorare e pagare le tasse. Dunque, possono anche dire la loro su chi amministra i loro territori. Sperando che arrivino ai 18 anni più consapevoli di chi li ha preceduti».
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