2024-08-30
L’Irlanda vieta la costruzione di un data center a Google perché sarebbe mancata l’elettricità per famiglie e imprese.Il ministero dell’Ambiente vara le linee guida in un settore che vale da noi 15 miliardi. Lo speciale contiene due articoli. La transizione energetica si scontra con quella digitale, evidenziando, ancora una volta, le contraddizioni insite nel modello di sviluppo che le élite contemporanee stanno portando avanti.Le notizie di questi giorni sottolineano come le due «rivoluzioni» tecnologiche non solo non vanno a braccetto, ma ora entrano in chiaro conflitto.Qualcuno ha fatto i conti e, come riporta Il Sole24ore di ieri, risulta che i big della Silicon Valley hanno molta fame di energia, e non certo per l’aria condizionata degli uffici. Sono i data center, gli enormi contenitori di potenti server, a richiedere quantità massicce di energia, per il funzionamento e il raffrescamento. Ciascuna delle due maggiori società americane del settore, Microsoft e Google, ha consumato nel 2023 circa 24 miliardi di kilowattora di energia elettrica per le proprie attività di cloud computing, compresa l’Intelligenza Artificiale (AI). Il che significa che, insieme, le due compagnie hanno consumato il 50% in più di interi paesi come la Nigeria (che ha 230 milioni di abitanti) o la Serbia.Qualche giorno fa, poi, è emerso che il South Dublin County Council, in Irlanda, ha negato il permesso a Google di espandersi per costruire un nuovo datacenter nell’area metropolitana di Dublino. Ci sono valide ragioni, per questo diniego.Nell’isola britannica vi sono già 82 data center, la maggior parte nell’area sud di Dublino, con un impegno di potenza di oltre 1.200 megawatt in tutte le ore del giorno. Nel 2023, il 21% dei consumi elettrici in Irlanda era dovuto ai datacenter, contro il 18% dei consumi delle famiglie. Secondo le stime di EirGrid, il gestore della rete elettrica, nel 2030 oltre un terzo dei consumi elettrici irlandesi sarà dovuto ai datacenter.Il regolatore irlandese, Commission for the Regulation of Utilities, nel 2021 ha innalzato i requisiti per le connessioni alla rete elettrica dei datacenter. Dal gennaio 2022 le domande per costruire le strutture nell’area di Dublino sono sottoposte ad una moratoria di fatto sino al 2028. È in questo stop è incappata Google: il punto è che le reti non sono adeguate e non c’è abbastanza energia greenTra le motivazioni che spingono le compagnie tecnologiche di tutto il mondo a stabilire in Irlanda le proprie infrastrutture, secondo molti, vi sarebbero il clima, la lingua e la poca burocrazia. Ma un fattore ben più rilevante è che l’Irlanda è un paradiso fiscale all’interno della zona euro (aliquota combinata pari all’11%), da cui è assai conveniente esportare ricchi servizi informatici. Nel 2023 l’export di servizi dall’isola è stato pari a 340 miliardi di euro, di cui il 60% circa di servizi in Information e Communication Technology, per un controvalore di 196 miliardi di euro. Davvero buono, il clima, in Irlanda. Irlanda a parte, se ai consumi mostruosi del digitale mondiale si aggiunge la spinta all’elettrificazione dei consumi energetici imposta dal green deal, è chiaro che tra pochi anni i sistemi elettrici rischiano di saltare. Il problema è produrre energia in abbondanza, a basso costo, in sistemi elettrici affidabili e sicuri. Ma il green deal sta portando il mondo esattamente sulla strada opposta.La crescita vertiginosa delle attività digitali richiede robusti interventi nel mondo fisico. I data center consumano una quantità spropositata di risorse fisiche, e siamo solo all’inizio di una crescita che durerà per molto tempo ancora, a meno di buttare via i miliardi di investimenti sostenuti sin qui nel digitale. Ciò che è appare sempre più irrealistica è la transizione energetica a base di rinnovabili e buone intenzioni.I sistemi elettrici non sono pronti a reggere una tale quantità di domanda elettrica, per diversi motivi. Intanto la rete: questa non è adeguata e servono investimenti miliardari, ma chi paga? Se si fa come si è sempre fatto (cioè attraverso le tariffe che tutti pagano al distributore) succede che sono i cittadini a pagare per una rete che senza data center, in precedenza, era adeguata ai fabbisogni di un consumo normale. Ne consegue che far pagare ai cittadini il rifacimento delle reti elettriche è un regalo all’high tech, che non sembra ne abbia particolare bisogno. Dovrebbero essere le stesse compagnie high tech a sostenere i costi dell’ampliamento delle reti? Dall’altra parte, il consumo elettrico tipico dei datacenter è un carico di base senza alcuna flessibilità, cioè un profilo identico in tutte le ore del giorno e della notte. Un sistema elettrico alimentato da fonte solare ed eolica, per natura discontinue, non può garantire questo tipo di fornitura, a meno di ricorrere ad accumuli il cui costo e la cui affidabilità nel lungo termine sono ancora un grande interrogativo. In sintesi, la concorrenza fiscale tra stati e la transizione digitale stanno provocando squilibri nei sistemi energetici, già sotto grave stress per il green deal. Una strategia che sta mostrando tutti i suoi limiti di praticabilità e di costi ma che, a quanto pare, la nuova Commissione europea continuerà indefessa a perseguire.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lintelligenza-artificiale-consuma-troppa-energia-2669104841.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="litalia-mette-un-freno-al-far-west-dei-cervelloni-digitali-energivori" data-post-id="2669104841" data-published-at="1725029688" data-use-pagination="False"> L’Italia mette un freno al far west dei cervelloni digitali energivori Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, ha diffuso le linee guida per la valutazione ambientale dei Data Center. In particolare, la direzione generale valutazioni ambientali ha adottato le direttive redatte dalla commissione tecnica di valutazione dell’impatto ambientale e di quella di valutazione ambientale strategica tenendole come riferimento per le procedure di valutazione di progetti di Data Center assistiti da gruppi elettrogeni di emergenza con potenza superiore a 50 megawatt. Si tratta di un passo importante perché, secondo le stime dell’Ue, i Data Center rappresentano quasi il 3 % della domanda di elettricità dell’Unione Europea, percentuale che crescerà nei prossimi anni, con l’obbligo di indirizzare gli operatori verso nuovi progetti di efficienza. In particolare, lo scopo di queste direttive è ridurre e gestire l’utilizzo di acqua e di ricorrere il più possibile a energie rinnovabili, tentando anche di riutilizzare il calore di scarto generato. Lo scopo di queste linee guida è definire i principali fattori che concorrono a una valutazione ambientale, mostrando e descrivendo le metodologie da applicare oltre che le modalità di adempimento degli obblighi previsti dalle normative di settore. Va, inoltre, ricordato, che all’interno del Pnrr sono previsti progetti riguardanti i Data Center come inizio del nuovo percorso di crescita economica.Il mercato dei Data Center in Italia vale circa 15 miliardi di euro e a contendersi la torta ci sono colossi come Google, Amazon e Microsoft o anche il gruppo Aruba che lanciato una nuova area per i dati a Roma. L’Italia, tra l’altro, si sta posizionando come importante punto di snodo per i Data Center dopo che altre aree europee come Francoforte, Londra, Amsterdam e Parigi sono ormai vicine alla saturazione. In particolare, la città di Milano sta diventando sempre più importante per via della posizione geografica favorevole e della presenza di infrastrutture avanzate come il cavo Sparkle che va da Genova a Mumbai e che si aggiunge al progetto Medusa per collegare il continente africano.Secondo uno studio dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano, il mercato delle strutture per l’immagazzinamento dei dati sta godendo di una importante crescita. Tra il 2023 e il 2025, 23 istituzioni, incluse otto nuove aziende, hanno prospettato la costruzione di 83 nuove strutture, con investimenti che potrebbero sfiorare i 5 miliardi di euro. Milano e la Lombardia, con il ruolo centri finanziari del Paese, sono al centro di questo mercato, con l’Italia che potrebbe essere un punto nevralgico tra Europa centrale e Mediterraneo, attirando l’interesse di investitori internazionali.Ora, insomma, l’obiettivo è quello di mettere ordine nel settore a livello di efficienza energetica. Anche perché, ad oggi i data center sono classificati come edifici industriali generici, causando incertezze e disomogeneità nelle procedure di costruzione a livello locale. Certo, la tecnologia sta facendo passi da gigante e i nuovi Data Center oggi sono in grado di ridurre il consumo di energia elettrica fino al 70% rispetto alle vecchie infrastrutture. L’obiettivo è quello di portare in Italia investitori internazionali con capitali freschi da investire nel settore. Il progetto del governo «Invest in Italy» voluto da Mimit, pensato per supportare gli imprenditori stranieri che vogliono investire in Italia potrebbe essere di grande utilità per il settore dei Data Center e per il suo efficientamento energetico.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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