2019-12-18
L’ingorgo Consulta può far saltare il banco
Al ricorso alla Corte costituzionale per i ritardi del bilancio si aggiunge la sentenza del 15 gennaio sul referendum per abolire la parte proporzionale del Rosatellum. E al Senato si raccolgono firme contro il taglio dei parlamentari: voto anticipato più vicino.Un mostruoso ingorgo istituzionale si sta preparando per gennaio. Non si tratta solo delle regionali in Emilia Romagna e in Calabria, fissate per domenica 26. Né della verifica di maggioranza, convocata dopo l'Epifania da Giuseppe Conte. Incombono altri tre appuntamenti che divideranno partiti e schieramenti, e si sovrapporranno tra loro creando non poche difficoltà a un mondo politico appena uscito dal bailamme della manovra. L'ultimo incastro, destinato a peggiorare l'ingorgo di gennaio, è il ricorso alla Corte costituzionale che Matteo Salvini ha confermato ieri: un ricorso contro il governo «per i tempi, i contenuti e i modi di approvazione della legge di bilancio». Il leader leghista accusa il governo di avere illegittimamente compresso il dibattito parlamentare, contingentando i tempi di discussione. La manovra è stata emendata solo dai senatori e il 22 dicembre arriverà «blindata» alla Camera, che non potrà fare «ritocchi». I deputati dovranno limitarsi a un sì o a un no: la minima modifica determinerebbe un nuovo rinvio a Palazzo Madama, cosa che farebbe scattare l'esercizio provvisorio del bilancio dello Stato. Dal punto di vista dell'opposizione, però, il problema è grave: Salvini critica la «mancanza di trasparenza» su decisioni fondamentali. Sembra un déja vu di quanto era accaduto in Parlamento nel dicembre 2018, quando per le medesime ragioni il Partito democratico di Nicola Zingaretti aveva fatto ricorso alla Consulta, contestando i tempi troppo ristretti con i quali il primo governo Conte aveva approvato la manovra. Il 10 gennaio 2019 la Corte aveva scritto nelle motivazioni dell'ordinanza che rigettava il ricorso: «Non v'è dubbio che le carenze lamentate dal ricorso abbiano determinato una compressione dell'esame parlamentare». Ma i giudici citavano la «lunga interlocuzione con le istituzioni dell'Unione europea» che aveva portato alla «rideterminazione dei saldi complessivi della manovra in un momento avanzato del procedimento parlamentare». Va detto, peraltro, che quest'anno Bruxelles non ha avuto responsabilità nei ritardi sulla manovra, che sono imputabili esclusivamente alla divergenza di vedute all'interno della maggioranza. E infatti Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera, va all'attacco: «Il governo non ha scuse: è in carica da settembre e la manovra è arrivata in commissione Bilancio, al Senato, a inizio novembre; poi hanno cominciato a votare il 9 dicembre, oltre un mese dopo. Ne risponderanno di fronte alla Corte costituzionale».Intanto l'ingorgo di gennaio incombe e proprio la Consulta ne sarà l'epicentro, perché il 15 del prossimo mese dovrà valutare anche la legittimità del referendum - ideato dal senatore leghista Roberto Calderoli - che vuole l'abrogazione di parte del Rosatellum, il sistema elettorale oggi in vigore. A lanciarlo, lo scorso settembre, sono state otto Regioni governate da Lega e centrodestra: Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Basilicata chiedono di cancellare la quota proporzionale del Rosatellum per trasformare il nostro sistema di voto in un maggioritario puro a turno unico, simile a quello in vigore in Gran Bretagna. Il 20 novembre la Cassazione ha certificato la regolarità del quesito, e il 15 gennaio deve pronunciarsi la Corte costituzionale. Se approvasse il referendum, questo dovrebbe poi svolgersi il prossimo giugno.Ma l'ingorgo continua, e rischia di peggiorare. In Senato in questi giorni si sta chiudendo la raccolta firme necessaria per la richiesta di un altro referendum: quello contro il taglio dei parlamentari, varato definitivamente dalla Camera lo scorso 8 ottobre. Per uno dei paradossi della politica italiana, due mesi fa quasi tutti i partiti avevano approvato la controversa riforma costituzionale d'ispirazione grillina, che dalla prossima legislatura dovrebbe ridurre il numero dei parlamentari da 945 a 600. Ma già 50-60 senatori, spinti da motivazioni diverse, oggi vogliono il referendum per abrogarla. In prima fila ci sono gli eletti del Pd (che pure ha votato a favore a ottobre), guidati da Tommaso Nannicini, e quelli di Italia viva, il partitino di Matteo Renzi. Per lanciare il referendum servono 64 firme. Fino a ieri, secondo fonti consultate dalla Verità il conto sarebbe a quota 61: se dovessero unirsi, soprattutto per iniziativa azzurra, altri tre nomi, sarebbe d'obbligo indire il referendum. Con un effetto collaterale: un'eventuale crisi di governo prima della consultazione produrrebbe l'effetto di portare il Paese al voto con questa legge elettorale (Rosatellum, sbarramento al 3%) e di eleggere l'attuale numero - non «amputato» - di parlamentari, salvo poi tenere il referendum. Una tentazione appetibile per renziani e forzisti, oltre che ovviamente per Salvini, disposto a votare con ogni schema. E molti scommettono che, se la soglia fosse raggiunta, la fine della legislatura sarebbe segnata. Ingorgo permettendo.
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