2018-10-15
L’industria dell’accoglienza è in tilt: senza sbarchi addio alle «risorse»
Crollano gli arrivi e i centri profughi cominciano a chiudere. Una delle più grandi industrie italiane si sta avviando verso una crisi nera, nerissima. I sindacati sono in allarme in tutto il Paese: le coop che contavano di campare in eterno sull'emergenza non hanno più lavoro. Già partiti licenziamenti e proteste.Una delle più grandi industrie italiane si sta avviando verso una crisi nera, nerissima. Ma non è necessariamente un male, o almeno non completamente. Stiamo parlando della fabbrica dell'invasione, una mega azienda che in questi anni ha lavorato a pieno regime, approfittando dell'arrivo di masse di uomini e donne dall'Africa. Questa azienda ha proliferato grazie alla crisi permanente, a una gestione scriteriata del fenomeno migratorio. E adesso tutti i problemi vengono a galla, facendo emergere la verità nascosta che, negli anni passati, i governi si sono ben guardati dal rivelare. Esisteva un piano che prevedeva la trasformazione del nostro Paese in un gigantesco campo profughi. All'Europa andava bene, anzi benissimo. Tutti i clandestini dovevano approdare qui, rimanendo per anni nei centri pagati con il (nostro) denaro pubblico, in modo che non andassero più a disturbare gli abitanti degli Stati a Nord. L'idea non dispiaceva nemmeno ai nostri governanti: in cambio di qualche sconticino, erano disposti a far entrare chiunque. Non solo per ideologia, ma anche (e forse soprattutto) per convenienza. Gli immigrati erano e sono un gigantesco business. I flussi in ingresso - lo ripetevano tutti, nel 2016 e nel 2017 - dovevano diventare strutturali. Bisognava uscire dalla logica dell'emergenza, cominciare a pensare alle migrazioni come a un fenomeno inevitabile ed epocale.La cosa migliore, ci ripetevano, era attrezzarsi di conseguenza. Come funghi sono spuntati corsi di formazione, corsi universitari, seminari pagati dalle Regioni per istruire gli operatori dei centri di accoglienza. Una nuova manodopera - pagata pochissimo, precaria e mal garantita - di cui c'era immediato bisogno. Solo che poi è accaduta una cosa imprevista: il vento è cambiato, gli italiani hanno cominciato a rendersi conto della truffa. Poi, è successo quello che sappiamo: Marco Minniti prima e Matteo Salvini poi hanno portato a un notevole calo degli sbarchi. Finora, nel 2018, sono arrivate qui 21.426 persone. Mica poche, ma nello stesso periodo del 2017 erano 108.384, nel 2016 addirittura 144.574. Il calo, rispetto allo scorso anno, è dell'80,23%, un'enormità. Se entrano meno migranti, però, la fabbrica dell'invasione perde materia prima. Il volume degli affari si riduce drasticamente e gli stabilimenti devono chiudere. Facciamo qualche esempio, partendo dal più clamoroso: il Cara di Mineo. È appena stato nominato il nuovo direttore della struttura, Francesco Magnano, che in passato ha già diretto due strutture simili. Il primo ottobre, al Cara è avvenuta una cosa importante: è cambiato l'appalto. La società Consorzio nuova Cara Mineo ha passato la mano, e sono subentrate quattro nuove società (Cooperativa Badia grande, Multiservizi, Hospital service e Cascina global service). Il punto, però, non è questo. Il nodo della questione è che la struttura, d'ora in poi, ospiterà meno migranti che in passato: al massimo 2.400, circa 600 in meno di prima. Intendiamoci: sono comunque troppi, e costano 40,9 milioni di euro. A voler fare le cose per bene, il Cara andrebbe chiuso, come decretò già nel 2017 la commissione parlamentare d'inchiesta. Un piccolo giro di vite, tuttavia, è meglio che niente. Meno migranti, però, significa meno lavoro da svolgere. E il risultato è che ora circa 200 persone rischiano il posto di lavoro. Da giorni i sindacati sono sul piede di guerra. Non stiamo a inoltrarci nei dettagli, ma è evidente che la situazione è grave. La struttura ha prosperato, per anni, grazie a una gestione estremamente discutibile. Gli arrivi di massa sono serviti per creare posti di lavoro che non potevano essere a lungo termine per forza di cose. Di sicuro non c'è da gioire se un sacco di gente perde l'impiego, ma è un dramma che si aggiunge al dramma. Quei lavoratori, sin dall'inizio, avrebbero dovuto essere impiegati altrove. Ma si è preferito approfittare del caos migratorio per gonfiare un'occupazione basata sul nulla. Lo stesso discorso vale per i dipendenti della cooperativa Ruha di Bergamo, che pochi giorni fa ha annunciato una riorganizzazione del personale. Sara Pedrini di Fp-Cgil e Alessandro Locatelli di Fisascat-Cis hanno offerto un quadro chiaro della situazione: «Mentre si riduce in maniera netta l'accoglienza a profughi, migranti e transitanti su tutto il territorio nazionale a seguito delle nuove politiche adottate dal governo in carica e mentre si prevede la riduzione dei fondi ad essa collegata, si è giunti anche nella nostra provincia a una grave situazione di difficoltà delle realtà sociali che operano in questo settore». Entro la fine del 2018, vari centri di accoglienza bergamaschi chiuderanno, la comunità di Castione della Presolana ha già chiuso. Altre realtà seguiranno la medesima strada. Accade anche altrove, ad esempio nel Biellese. Già lo scorso giugno, dei 663 posti disponibili per l'accoglienza, solo 500 erano effettivamente utilizzati. Alla fine di giugno, un primo centro ha chiuso (quello situato a Vercellino), a luglio un altro (a Granero) e i professionisti dell'immigrazione hanno cominciato a vedere un futuro nero. «Il quadro negli ultimi mesi si è fatto piuttosto stazionario», disse alla Stampa Enzo Calise, responsabile della coop Maria Cecilia. «Gli arrivi sono quasi nulli, gli attuali ospiti sono qui da tempo e attendono il pronunciamento delle commissioni». A metà settembre, invece, è stata annunciata la chiusura del centro di via Regina, a Como. Il motivo l'ha spiegato il sottosegretario all'Interno, Nicola Molteni: «Non sussistono più le esigenze di interesse pubblico al mantenimento della struttura essendo fortemente diminuiti gli sbarchi e ridotto sensibilmente il numero dei respingimenti dalla Svizzera».Spostandosi verso Sud, il quadro non cambia. Ad agosto ha chiuso il Cas Damasco 9, nel Beneventano: 120 i lavoratori rimasti a spasso. A giugno, in Molise, sono venuti a mancare i centri di Palata, Campomarino, Ripabottoni e Ripalimosani. I giornali locali si sono subito disperati, parlando di centinaia di impieghi a rischio in un territorio che ospitava 3.000 migranti sparsi in 80 strutture. Nella stessa regione, a luglio, hanno chiuso altre strutture a Termoli e San Massimo. Una coordinatrice del centro di San Massimo disse al quotidiano locale Primonumero.it: «Non c'è più convenienza adesso che gli sbarchi stanno diminuendo». A Ripabottoni, addirittura, i cittadini protestarono: volevano i migranti. E, soprattutto, i soldi pubblici che portavano. Di esempi del genere ce ne sono un po' ovunque. Chiudono soprattutto i Cas, i centri di accoglienza straordinaria. Nelle province di Torino, Lucca, Viterbo e in tante altre zone non ci sono più stranieri da ospitare. È una buona notizia, anche perché molte coop e associazioni smetteranno di lucrare sull'accoglienza. Purtroppo, c'è anche chi rischia il posto di lavoro o lo ha già perso. Prima o poi, qualcuno dirà che è colpa dell'attuale governo. Ma la verità è che anche le difficoltà di queste persone pesano sulla coscienza di chi - negli anni passati - ha aperto la fabbrica dell'invasione. In tanti - troppi - ne hanno approfittato. Tutti gli altri ne hanno pagato le conseguenze, nuovi disoccupati compresi.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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