2022-07-30
L’incubo d’una paziente abbandonata nell’ospedale rovinato da Speranza
Calvario a Verona: quasi 11 ore di attesa su una barella per essere visitata, nonostante il codice giallo e i forti dolori, nell’indifferenza generale. Il risultato di folli norme che puniscono medici sani a discapito dei malati.Rimandata a casa dopo 16 ore di permanenza al Pronto soccorso, tra dolori lancinanti, una sospetta massa tumorale e con la morfina come unica terapia. Non è accaduto in una delle tante, sciagurate strutture del nostro Sud che scontano anni di incuria, ma all’Ospedale civile Maggiore di Verona, autentica eccellenza anche al di fuori del nostro Paese. Francesca, nome di fantasia della signora che avrà ancora bisogno di cure (speriamo giuste), ed è perciò doveroso tutelare, come decine di migliaia di altri cittadini paga le conseguenze di una sanità mandata al macero. Mentre non venivano curati a domicilio i malati Covid e si collassavano reparti già in difficoltà; mentre medici e infermieri non vaccinati erano sospesi e senza retribuzione, le strutture ospedaliere perdevano ulteriori posti letto destinati a inutili lazzaretti, seppure a emergenza ormai finita, e il deficit di personale cresceva all’inverosimile. Uno smantellamento dissennato, che però ha sempre lasciato indifferente il ministro della Salute, Roberto Speranza, preoccupato solo di concertare lockdown per manovrare e limitare i diritti dei cittadini, senza fondamenti di scientificità. Nell’ultimo mese, Francesca era già stata due volte allo stesso Pronto soccorso, pazientando al pari di altri cittadini un’attesa indecente. Non riusciva più a camminare, qualche cosa nella sua schiena aveva ceduto e dopo il primo ingresso in urgenza, era tornata a casa con un busto. I dolori, però, non davano tregua. Una notte, affranta, torna a farsi vedere e le danno da prendere morfina, invitandola a «portare pazienza». La signora, invece, vuole vederci chiaro e prenota privatamente una risonanza magnetica. Il referto indica una massa sospetta che preme su una vertebra lombare, bisogna fare con urgenza accertamenti. La preoccupazione, oltre alla sofferenza, era fondata. Il successivo calvario di Francesca può essere riassunto in poche, sconcertanti righe. Il medico di base spiega che non può disporre il ricovero, è decisione del Pronto soccorso. La signora, che da settimane non si muove più, chiama l’ambulanza e alle 16.30 del pomeriggio arriva all’urgenza del medesimo, eccellente ospedale. Rimarrà sulla barella, in attesa di essere visitata, fino alle 3 del mattino successivo, malgrado abbia un codice giallo. «I tempi previsti nei protocolli di triage sono indicativi», ha dichiarato pochi giorni fa Fabio De Iaco, presidente della Società italiana della medicina di emergenza e urgenza (Simeu), precisando che «oltre sei ore per un codice verde è certamente il risultato di una situazione di affollamento, di carico di lavoro del Pronto Soccorso superiore alle risorse disponibili». Nel caso di Francesca, stiamo parlando di quasi undici ore per un codice giallo, colore che definisce una condizione «mediamente critica, presenza di rischio evolutivo, potenziale pericolo di vita, prestazioni non differibili». Alle 3.30 la signora viene visitata anche dal neurochirurgo, che prescrive una biopsia spinale però per la settimana successiva. Il reparto è pieno, Francesca non è «a rischio di vita». Sfinita, la poveretta prova a dire che in quelle condizioni ha paura a restare a casa, e come tutta risposta il medico del Pronto soccorso le suggerisce «di prendersi una badante, se da sola non se la sente di stare». A un simile cinismo si è ridotta la professionalità dei nostri dottori? Ogni tratto umano è sparito, cancellato dalle urgenze di un reparto mandato allo sbando, con sempre meno camici bianchi disposti a turni massacranti? Quelle virostar pronte a calpestare i diritti dei pazienti solo perché non vaccinati, o a scagliarsi contro medici guariti dal Covid ma non in regola con gli inoculi, come giustificano la mancanza di assistenza fornita a Francesca in tempi decenti? Trivaccinata, pronta per la quarta dose come vuole Speranza, convinta che sia giusto farlo «per il bene di tutti», quando ha avuto un grave problema clinico è stata trattata senza rispetto e dignità. Per non disturbare le infermiere, malgrado sia ancora giovane e non abbia problemi di incontinenza, aveva indossato un pannolone, così da non dover essere accompagnata dalla barella al bagno. Eppure solo a notte fonda qualcuno si è degnato di cambiarla. Basterebbe, per indignarsi all’inverosimile. Ma il supplizio della signora non era ancora finito. Alle 4 e 30 del mattino viene dimessa, però non ci sono ambulanze e dovrà aspettare altre quattro ore prima di lasciare il presidio e tornare a casa. «L’estate peggiore del Pronto soccorso», l’ha definita pochi giorni fa il presidente della Simeu, con 4.200 medici che mancano nelle urgenze, dove le richieste «superano di gran lunga le possibilità di risposta». Dov’era in questi due anni e mezzo, il ministro della Salute, invece di riorganizzare la medicina di emergenza e quella territoriale, che fa gravare le diagnosi sui dottori in trincea? Magari specializzandi senza esperienza, come capita nello stesso Veneto. I Pronto soccorso vengono tirati in ballo quando salgono i contagi e si minacciano chiusure per chi non è in regola con le vaccinazioni, invece sono un «servizio insostituibile per la salute dei cittadini», ricorda Fabio De Iaco. Oggi, pur con contagi Covid sotto controllo, rimangono un girone infernale.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.