2025-12-03
L’inchiesta di Milano (e il ruolo di Lovaglio) agitano il cda convocato da Mps
L’ad riferirà il 5 al consiglio dell’istituto. La Bce certifica la tenuta dei conti dopo il blitz su Mediobanca. Che chiude l’«era» liberista.Nel consiglio di amministrazione di Mps del 5 dicembre, convocato ufficialmente per venerdì, arriveranno sul tavolo anche le carte della Procura di Milano: i consiglieri esamineranno gli atti dell’inchiesta milanese che coinvolge l’amministratore delegato Luigi Lovaglio e gli azionisti Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri. È una discussione inevitabile sul piano istituzionale, ma non per questo preludio a un cambio di guida.La banca presenta indicatori patrimoniali in miglioramento, con la Bce che ha appena ridotto il P2r al 2,20% e coefficienti ben sopra i requisiti, e, soprattutto, non dispone oggi di una soluzione di continuità già pronta che renda realistico un avvicendamento immediato. In questo momento l’agenda di Mps resta fitta e operativa: a marzo arriverà il nuovo piano Mps-Mediobanca alla Bce, poi l’assemblea per il rinnovo del Cda e l’assise straordinaria sulla lista del board.Nella stessa riunione potrebbe trovare spazio, in forma preliminare, una ricognizione sul nuovo piano industriale e sugli scenari di consolidamento bancario. Tra questi, gli analisti continuano a evocare come ipotesi di medio periodo un possibile dialogo con Banco Bpm, anche alla luce del ruolo di Giuseppe Castagna e dei nuovi equilibri creatisi dopo l’ingresso in piazzetta Cuccia.L’appuntamento cade in una fase in cui l’operazione su Mediobanca e l’inchiesta milanese riportano in superficie una questione più ampia della vicenda giudiziaria: la trasformazione, negli ultimi trent’anni, della geografia del potere finanziario italiano. L’indagine è stata spesso letta come un contenzioso tecnico su presunti «concerti occultati», ma nelle sue pagine laterali emerge un’altra chiave di lettura: quella di un sistema che tenta di riassestare equilibri mutati dalle grandi trasformazioni culturali, politiche e industriali degli ultimi decenni. Sottotraccia, alcuni osservatori ricordano che, anche ammesso si tratti di un «assalto», arriverebbe dopo una lunga stagione in cui i veri assalti (politici, finanziari, industriali) sono stati quelli dell’ondata liberista che ha ridisegnato il Paese dagli anni Novanta.Per capire questo risentimento di fondo, bisogna tornare indietro. Un tempo Mediobanca non era solo una banca d’affari: era la cerniera del capitalismo relazionale italiano, con i patti di sindacato e la vigilanza morbida delle tre Bin - Comit, Credit, Ligresti/Imi nella loro evoluzione - che garantivano stabilità e rappresentanza degli equilibri economici del Paese. Un sistema discusso, certo, ma riconoscibile. Quel modello si disgrega con le privatizzazioni, la resa della politica alla finanza globale, l’idea accettata quasi senza alternative che il mercato fosse l’unico arbitro legittimo dei rapporti di potere economico. È in quell’Italia trasformata dagli anni Novanta che esplode la crisi Mps: il fallimento dell’operazione Antonveneta, le ispezioni, fino al salvataggio pubblico del 2017.In quei mesi il governo Renzi procede su due binari: l’annuncio, mai concretizzato, di un possibile supporto da 5 miliardi di J.P. Morgan e, parallelamente, la pressione europea per ridurre la presenza statale nel capitale e riportare la banca dentro i parametri di mercato. Chi visse quella stagione ricorda come ogni tentativo politico di imboccare una strada diversa si scontrò con l’impianto culturale liberista allora dominante. Nel vuoto lasciato dalla politica, il sistema bancario diventa sempre più autoreferenziale e Mediobanca ne offre l’esempio più evidente. Dopo la fine dei patti storici, la governance della banca si struttura attorno alla continuità interna; la lunga leadership di Alberto Nagel finisce per incarnare un equilibrio chiuso, poco permeabile a influenze esterne.In questo contesto, gli atti dell’inchiesta milanese suggeriscono, più che dimostrare, un sistema che per la prima volta si scopre esposto. L’assemblea dell’agosto 2025, definita un «passaggio rivelatorio», evidenzia che i voti contrari all’Ops su Banca Generali non arrivano dall’interno, ma da soggetti esterni: le casse di previdenza e parte degli investitori entrati con la dismissione del 15% di Mps nel 2024. Proprio quella dismissione è stata chiarita dagli inquirenti: non si trattava di una gara pubblica, non poteva configurare turbativa e non coinvolge penalmente il Mef. Era un passaggio previsto dagli impegni con Bruxelles, realizzato a 5,90 euro con un premio del 6,96%, che portò allo Stato 1,1 miliardi, seguito da un rialzo dei titoli Mps e Mediobanca.Nelle carte non c’è traccia di atti operativi del Tesoro: non aveva ruolo né titolo per intervenire. Il discorso si sposta così su un piano più ampio della vicenda giudiziaria. Per diversi osservatori, l’operazione Mps-Mediobanca segna il ritorno dello Stato tramite una banca risanata dentro gli equilibri del credito, dopo decenni in cui Mediobanca era il fortino della finanza privata e Mps una sorvegliata speciale. L’inchiesta resta aperta e i dispositivi sequestrati devono ancora parlare, ma il contesto attuale è ben diverso dagli anni Novanta: cresce la sfiducia verso il mercato come unico regolatore e torna la richiesta di un presidio strategico sugli snodi finanziari. Se per qualcuno l’operazione è un «assalto», altri la vedono come il contraccolpo a decenni di arretramento politico. E in vista del cda del 5 dicembre, questa lettura pesa ancora di più: Mps ha ottenuto una valutazione Bce migliorativa e, una volta consolidato il nuovo assetto, potrebbe riaprirsi (più avanti) il tema delle aggregazioni. Non è escluso che, in prospettiva, torni sul tavolo anche l’ipotesi Banco Bpm, con il nome di Giuseppe Castagna come possibile figura di riferimento in un futuro riassetto del settore.