2020-10-24
L’incantesimo del sale, oro bianco di Sicilia
Un prodotto che non è soltanto un condimento: fu in grado di determinare conflitti economici ai limiti dello scontro armato. La lavorazione tradizionale risale ai tempi dei Fenici: sopravvissuta a guerre e cataclismi, si pratica ancora fra Trapani e Marsala.Nelle vicende di un tempo neanche troppo lontano il sale era uno dei motori principali dell'economia, una sorta di petrolio in grado di determinare conflitti economici ai limiti dello scontro armato (pensiamo alle tensioni tra Serenissima Repubblica e Stato Pontificio per il controllo delle saline di Cervia). Mutazioni del ciclo economico (in laguna e attorno alle principali isole molte saline furono poi riconvertite all'attività di pesca), come al consolidamento di economie di trasformazione divenute volano di un territorio, prosciutti e insaccati emiliani, grazie al prodotto delle saline farnesiane a Salsomaggiore, ottenuto dall'evaporazione delle acque dal sottosuolo. Salgemma che si può estrarre dalle cave, in Sicilia come in Calabria. Per uso alimentare mediante la fresatura delle pareti saline, oppure per detonazione quando è per usi industriali. Pensiamo a quello gettato lungo le strade invernali per il disgelo. Una lunga tradizione giunta sino a noi che trova la sua massima espressione nel sale marino. La coltivazione più a nord a Cervia, risalente all'antica Roma. Il suo un «sale dolce», di minore salinità, legato alle caratteristiche dell'Adriatico. Il sale del Papa era il primo raccolto di stagione, inviato quale omaggio in Vaticano. Ideale per la lavorazione di formaggi e insaccati. Un tempo, nel viterbese, le saline di Tarquinia, oramai dismesse, come quelle sarde di Molentargius, sulla costa cagliaritana. La distesa più grande in Puglia, Margherita di Savoia, tra Barletta e Manfredonia. La rivoluzione negli anni Sessanta del secolo scorso, con la completa meccanizzazione di tutto il processo di produzione. Per trovare quindi lo spirito di una tradizione millenaria bisogna approdare sulla costa siciliana, fra Trapani e Marsala. Il suo fascino lo descrive bene Giacomo D'Alì Staiti, imprenditore locale. «L'unicità verso altre realtà è caratterizzato da un paesaggio dominato dalla punteggiatura dei mulini, dal reticolo dei muretti ai secco che delimitano un'estensione di vasche piccole, basse e ben definite, con i tramonti delle Egadi» protettive barriere a che gli impetuosi venti di scirocco e maestrale non interferiscano sulla maturazione delle acque pilotate dai curatoli (i maestri salinai) in un ambiente ideale per la scarsa profondità marina, un ambiente soleggiato per lunghi mesi all'anno e la realizzazione finale «di una eccellenza riconosciuta da sempre al vertice della gamma dei sali alimentari». Pochi sanno che, anche in un prodotto apparentemente semplice come il sale, spesso «demonizzato» per i suoi potenziali effetti (ma basta non abusarne, come per qualsiasi alimento o bevanda), è la qualità che fa la differenza e quindi la modalità di preparazione. Il sale marino, e quello di Trapani ne è l'esempio migliore, in quanto ancora lavorato con procedure tradizionali da molti piccoli produttori, presenta caratteristiche chimiche che lo rendono particolarmente utile non solo nella valorizzazione culinaria, ma soprattutto in ambito metabolico, una volta assunto. La sua progressiva concentrazione all'interno delle vasche dove vengono pilotate le acque permette la deposizione prima dei metalli pesanti e poi di carbonati e solfati, perché se è pur vero che, per legge, il cloruro di sodio deve essere presente al 97% è sull'altro 3% che c'è la differenza, in quanto non vi devono essere presenze di materiali insolubili. Il sale marino naturale è più ricco di magnesio, manganese e potassio, utili per il metabolismo delle ossa e del tessuto connettivo. Queste componenti danno una sorta di umidità alla superficie del loro sale. Il prodotto industriale, frutto di una sola raccolta, non viene essiccato alla luce del sole, ma entro forni a 220 gradi. La produzione di sale a Trapani risale ai tempi dei Fenici. Il particolare rapporto tra il mare, di scarsa profondità, e la costa, con diffusi avvallamenti, favoriva la raccolta del prodotto, anche se di scarsa qualità, misto a fango. Dopo un lungo oblio la lavorazione delle saline è ripresa, con un cambio di passo a partire dal XI secolo con gli svevi di re Ruggero. Il primo a darne notizia scritta il geografo arabo El Edrisi. Utilizzando i conci di tufo di cui è ricca la costiera, in particolare sulla vicinissima isola di Favignana, si iniziò a delimitare delle vasche entro cui l'acqua marina veniva progressivamente messa a maturare, depositando componenti minerali, evaporando di parte della sua componente liquida, arrivando via via a quadruplicare la sua salinità. Vicende che, nel corso dei secoli, sono state una sorta di «rollercoaster» di questo importante settore dell'economia locale con periodi di splendore abbinati ad improvvise e impreviste cadute. Con l'arrivo degli aragonesi, nel XIII secolo, Trapani attirò famiglie e capitali da varie latitudini per cadere poco dopo, causa un'epidemia di peste. Si risollevò, grazie anche ai commerci con le galee veneziane, che venivano qui a rifornirsi dopo aver perso il dominio di Cipro. Una svolta importante la diede Lazzaro Codello, reggente della capitaneria di Trapani, che propose al viceré dei Savoia la deviazione di un torrente che, con le sue improvvise esondazioni, andava a compromettere troppo spesso le placide acque saline. Presero piede i mulini, skyline caratteristica di questi giacimenti salini. Dapprima utilizzati per il trasbordo delle acque tra una vasca e l'altra e poi, grazie a una geniale progettazione di ingranaggi lignei, addetti alla macina del sale stesso. Francesco Benigno racconta come, agli inizi dell'Ottocento, Trapani fosse sede di tredici tra consolati e viceconsolati stranieri. Cominciavano a giungere pure velieri dal nord Europa, pur di procurarsi il sale per la lavorazione ottimale del baccalà. Arrivano i disastri della prima guerra mondiale. Per sopravvivere molti salinari convertono alcune vasche in pescherie. Cefali, orate, anguille hanno una marcia in più, nuotando liberi nelle acque saline. Tra le due guerre una ripresa, poi si rallenta ancora. Nel 1951 la produzione tocca il vertice. 170.000 tonnellate, per precipitare qualche anno dopo a 50.000 causa la concorrenza dei nuovi mercati. Altro colpo di grazia le alluvioni del 1965 prima e del 1968 poi. Le vasche ridotte ad acquitrini fangosi. Ma i trapanesi sono gente tosta. Non a caso nel Settecento il viaggiatore scozzese Parick Brydone li aveva definiti la gente più ingegnosa della Sicilia. Come ad esempio Turi Toscano, il re dei curatoli, talmente innamorato del suo lavoro da dedicargli anche delle odi «il vento è il mio svago e il mio passatempo, se soffia forte sono contento» o Alberto Culcasi, che rileva le saline alluvionate dall'esausto proprietario dopo l'ennesima alluvione. Assieme ai suoi figli le riporta a nuova vita tanto da allestire un museo, in uno dei locali della vecchia salina. Il racconto della nipote Irene fa vivere in diretta l'esperienza e la silenziosa fatica della venna, la squadra di lavoratori addetti. I mucchi di sale sono là fuori, in attesa di affinarsi ricoperti dalle ciaramire, le tegole di terracotta. Vi sono le foto dei picciutteddi, i bambini che portavano le quartare ai lavoranti (recipienti di terracotta che tenevano fresca l'acqua pure sotto il sole cocente). Si ripercorre la vita del mulinaru, che doveva sapere intuire le direzioni del vento senza l'aiuto del colonnello Edmondo Bernacca, perché un errore poteva compromettere giornate di lavoro, se non danni veri e propri al delicato meccanismo azionato da pale e ingranaggi diversi. Vi è poi il progetto Cuor di Sale che permette anche ai turisti curiosi di diventare salinari per un giorno.