2021-10-17
L’import di elettricità dalla Francia a +121%. Il nucleare d’Oltralpe fa la parte del leone
Italia sempre più dipendente ma l'Europa a guida tedesca spinge sulle fonti rinnovabili per fare concorrenza a Stati Uniti e Cina.Il 21 ottobre si terrà una riunione del Consiglio europeo che si occuperà tra l'altro dell'aumento dei prezzi dell'energia. Sì cercherà di trovare un rimedio ai danni che le quotazioni di gas ed elettricità stanno portando alla ripresa economica. Non sembra però che dal consesso possano uscire decisioni incisive. Le soluzioni di cui si discuterà non affrontano i nodi strutturali del mercato energetico europeo e si limitano ad arginare una situazione ritenuta transitoria. Il Commissario all'energia, la estone Kadri Simson, ha affermato che si consentirà agli Stati membri di applicare sconti fiscali, di incentivare l'uso dei bonus sociali per le famiglie in difficoltà e di agevolare pagamenti dilazionati. Strumenti di corto respiro, il cui insieme viene ribattezzato dal gergo burocratico di Bruxelles, con eufemismo idraulico, tool box.Si esaminerà anche l'ipotesi di stoccaggi di gas comuni tra Paesi europei. Lanciata da Francia e Spagna, questa soluzione è complicata e in ogni caso inciderebbe sulla prossima stagione invernale. La Simson ha aggiunto che l'unico modo per evitare nuove crisi è accelerare la transizione all'energia verde.Intanto in Italia a settembre 2021 la produzione da fonte rinnovabile è diminuita rispetto a quella del settembre 2020 di 1,2 Twh (quasi tutta mancata produzione idroelettrica), più che compensata da maggiori importazioni di energia, per la quasi totalità nucleare, dalla Francia (1,46 Twh, +121%).L'Unione persevera nel Green deal, senza variazioni. La scelta politica di essere la prima a muoversi sul terreno climatico è molto chiara. Una decisione che porta con sé conseguenze nel medio termine di difficile gestione, tra cui costi più alti per imprese e famiglie e svantaggi competitivi. Nell'ottica dell'Unione e del blocco industriale finanziario tedesco che ne è il principale ispiratore sì tratta di una scelta obbligata. Indietro rispetto agli Usa su Web e digitale, appaltata l'industria di base in Asia, fuori gioco sull'elettronica e sull'intelligenza artificiale, nella partita economica mondiale l'Europa non può restare schiacciata tra i giganti Usa e Cina. Il modello di sviluppo europeo del secondo dopoguerra (infrastrutture, edilizia e automobile) è tramontato da 30 anni. È vitale dunque creare un nuovo terreno di competizione in cui l'Europa a trazione tedesca, deflazionista e mercantilista, possa primeggiare. La creazione di un salto tecnologico quale è il Green deal (auto elettrica in primis) impone una selezione all'interno dell'industria, una distruzione dell'esistente in favore di un nuovo paradigma. Proprio questo è l'intento che l'Europa pone alla base del Green deal: da first mover, dettare lo standard a cui gli altri dovranno adattarsi. Per usare le parole di Frans Timmermans, commissario per il Clima, si tratta di una vera e propria rivoluzione industriale. Un esempio evidente di burrasca di Schumpeter, per quanto politicamente indotta.A favore di ciò gioca la crescente attenzione dell'opinione pubblica al tema ambientale. L'allarme climatico costituisce un decisivo supporto a una politica industriale che, pur se liberale, nei fatti necessita di una dose massiccia di dirigismo. Lo dimostra il numero e la complessità delle norme che fanno parte dei «pacchetti» della Commissione. Il processo di approvazione del Fit for 55 richiederà due anni, mentre la pretesa della regolazione europea è di pianificare nel dettaglio anche ciò che avverrà tra 30 anni. Gli elementi contrari a un disegno di così ampio respiro sono però molti, a cominciare dalla posizione di svantaggio dell'Europa sulle materie prime. Per il successo del progetto sono infatti necessari acciaio, alluminio, rame, terre rare, tutti fattori produttivi di cui l'Europa non dispone. La Commissione intende affrontare questa debolezza attraverso accordi internazionali di lungo termine, ma la realtà rischia di essere assai diversa dal piano. Inoltre, come stiamo sperimentando sui costi del gas naturale, i settori economici messi in secondo piano dal nuovo corso industriale non cederanno posizioni facilmente, cercando di massimizzare nel breve termine. Un capitolo a sé andrebbe aperto sugli impatti occupazionali del nuovo corso. Di certo esiste solo il Fondo sociale europeo per il clima da 72 miliardi, delineato nel pacchetto Fit for 55, che però non piace molto ai Paesi frugali. Nel frattempo si viene a sapere che Volkswagen pensa di licenziare oltre 30.000 lavoratori. L'Unione europea, con un tempismo che farebbe invidia al ragionier Ugo Fantozzi, lancia la sua distruzione creativa nel mezzo di una crisi mondiale senza precedenti, che coinvolge a vario titolo la logistica, le materie prime, gli alimentari, il debito privato (l'esposizione finanziaria del settore immobiliare cinese ha le dimensioni del Pil di un Paese del G7) e i timori di inflazione. Le aspettative sul nuovo corso green europeo aggiungono volatilità a una situazione già complicata. Uno stormo di cigni neri volteggia sopra le teste degli europei e degli italiani, forse troppo impegnati a discutere di certificati vaccinali e polverose categorie storiche per accorgersene.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci